…E se fossi salito io su quella macchina? Cosa sarebbe successo? Classico, potente e senza la minima sbavatura. Mystic River, finalmente nelle mie grinfie e sul mio lettore dopo che me lo ero stupidamente perso al cinema. Come dice l’immenso Clint nello speciale sulla lavorazione, non è niente di troppo moderno, di troppo "gonfiato". Solo un buon vecchio film solido. Dici poco! Il prologo è già agghiacciante di suo, con i ragazzini Sean, Jimmy e Dave, che sul cemento fresco non riesce ad incidere per intero il suo nome, segno visivo di una personalità spezzata sul nascere. Da grandi saranno il poliziotto, il gangster pentito e lo psicopatico devastato dalla violenza subita da bambino. E la tragedia incombe in ogni singola inquadratura. Quello che mi stupisce di Clint è come abbia assorbito il cinema classico, come non ceda mai, nemmeno una volta, ad un ghiribizzo formale, un movimento di macchina o uno stacco che non sia più che necessario. Ogni dissolvenza, ogni panoramica ha un senso narrativo ben definito. Per lo spettatore anestetizzato è una mazzata sulla nuca. Per altri, diciamo così "più avvertiti", una boccata d’aria pura in un panorama cinematografico spesso desolante. Bel lavoro, Biondo!
IL RITORNO DEL FILM D’AVVENTURA
Piacevolmente sorpreso. E anche, una volta ogni tanto, soddisfatto dei soldi spesi. Ecco come mi sento dopo aver visto Master and Commander, recente ritorno alla grande di Peter Weir. Lo scetticismo pregiudiziale c’era, lo ammetto. Mi puzza sempre un film da Oscar con Russell Crowe in mezzo. A Beautiful Mind non mi era dispiaciuto, ma non mi aveva nemmeno colpito più di tanto. Qui c’è la stessa accoppiata Russell Crowe / Paul Bettany. Però è diverso. Merito forse del mare, e della sua potenza. Credo sia uno dei rari film contemporanei che riescono a rendere veramente bene un’atmosfera e uno scenario di duecento anni fa. Un film completamente al maschile. Le uniche donne sono la "Cara Sophie" cui il comandante Aubrey scrive e un’indigena brasiliana da urlo con la quale ovviamente l’integerrimo Aubrey scambia soltanto un’occhiata fugace. Comunque sia, il film sorprende, vuoi per la presenza in battaglia di ragazzi tra i dodici e i quindici anni (allora era costume, a quanto pare), vuoi per la potenza pura e semplice di una storia di agguati, inseguimenti e tempeste. C’è il momento "attimo fuggente", come in tutti i film di Weir, e c’è il momento "witness" (l’unione fa la forza). Ma poca retorica, e molte cannonate. Spettacolare senza essere tamarro. Una grande rarità. Peccato che il mio televisore abbia ricominciato a mostrare temibili schermate nere con riga bianca, e che abbia dovuto comprimere il panorama delle Galàpagos e di Capo Horn sul PC portatile…
JOHN WOO CHE RIFA’ HITCHCOCK
Dopo mesi di astinenza da Blockbuster, arrivo a casa con Paycheck di John Woo. Godibile. Lungi dal furore di The Killer o Hard Boiled, ma anche solo dai virtuosismi di Face/Off o MI:2, Woo è riuscito ad immedesimarsi talmente nel cinema classico americano da aver prodotto un film assolutamente hitchcockiano, pur con il marchio di fabbrica delle sue settantacinquemila steadicam (è riuscito pure a ficcarci la solita colomba al rallentatore)… Modella quel manzone di Ben Affleck su Cary Grant, la fulgida Uma su Eva Marie Saint e l’Intrigo Internazionale è servito. Philip K. Dick è ovviamente un pretesto modaiolo e di lui mi pare resti ben poco. Peccato. Nulla di memorabile, ma il quiz del reverse engineering prende abbastanza.