DOC NECESSARI: NO OTHER LAND

Poco da dire su No Other Land, un documentario necessario – sempre di più ogni giorno che passa – e che si può vedere su Mubi. Basel Adra (che si può seguire anche su Instagram) e Yuval Abraham sono i due ideatori, uno palestinese e l’altro israeliano, di questo reportage fortunosamente girato sulla situazione della zona di Masafer Yatta, vicino a Hebron in Cisgiordania, dove le truppe israeliane demoliscono sistematicamente villaggi con la scusa che si tratta di una zona militare israeliana (secondo un ordinanza della Corte Suprema) e poi ci fanno entrare i coloni.

Nulla di nuovo rispetto a quello che già sappiamo, ma il bello di No Other Land (e il motivo per cui ha vinto l’Oscar come miglior documentario, a mio parere) è la dinamica tra Basel e Yuval, la loro amicizia impossibile che nasce e si sviluppa – e dura ancora oggi – con l’obiettivo comune di fermare questa situazione. Un obiettivo che Yuval, ebreo di sinistra idealista, persegue con ardore, mentre Basel, palestinese disilluso da 70 anni e più di oppressione, tende a ridimensionare.

La famiglia di Basel è una famiglia di attivisti da più generazioni, che ha deciso semplicemente e in modo non violento di documentare tutto quanto è in loro potere con le videocamere, per poi farlo uscire dai confini israeliani allo scopo di far conoscere la situazione. 

Al di là della documentazione dei fatti più o meno tragici che gli abitanti del villaggio di Basel e i suoi familiari devono subire, sono belle e importanti le scene di dialogo tra Yuval e i palestinesi, per capire che qui si tratta solo di persone messe nel frullatore della guerra da due governi opachi, estremisti e inumani, quello di Hamas (che peraltro in Cisgiordania nemmeno si vede) e quello di Netanyahu e dei suoi.

Per capire un pezzo della storia, No Other Land è fondamentale. Ma anche per dare un po’ di speranza sulla solidarietà umana al di là delle ideologie.

CUPEZZE DANESI: THE GIRL WITH THE NEEDLE

Grazie a Mubi che ha in cartellone questo film oscuro e affascinante che fa parte di quella categoria di film (danesi, ovviamente) che ti lasciano con la convinzione che la vita è una merda, il mondo è fatto di persone brutte e che non c’è alcuna speranza per l’umanità. Detto ciò, The Girl with the Needle (dove “needle” ha un doppio significato visto che la protagonista fa la sartina in una fabbrica tessile e ha una scena abbastanza insostenibile con un ferro da calza) è un film che presenta un’esperienza di “mostruoso femminile” sul quale non mi avventuro più di tanto in interpretazioni e che mi limito ad accettare.

Il film di Magnus von Horn è gotico, ipnotico, con un che di lynchiano soprattutto nella sovrapposizione di primi piani deformati all’inizio che sembrano suggerire che tutti i personaggi abbiano un che di perverso e di sovrapponibile (e forse è proprio così) e racconta la storia di Karoline (Vic Carmen Sonne), una sarta squattrinata apparentemente vedova di guerra negli anni ’20 del ‘900 che si ritrova incinta a seguito di una tresca con il suo datore di lavoro

L’arcigna madre dell’industriale impedisce un matrimonio che unirebbe due classi sociali troppo diverse e Karoline si ritrova in un bagno pubblico con il suddetto ferro da calza a tentare un autoprocurato aborto. Viene fermata da Dagmar (Trine Lyndhorm), una donna più anziana e leggermente inquietante che le suggerisce di partorire e dare il neonato a lei che gestisce un’attività clandestina di adozioni per coppie altolocate che non riescono ad avere figli.

Nel frattempo fa il suo ritorno anche Peter (Besir Zeciri), il marito sfigurato da una granata che porta una maschera inespressiva sulle impressionanti ferite, ma Karoline non vuole saperne di lui. Si trasferisce da Dagmar proponendosi come balia per tutti i bambini che transitano tra quelle mura, senza sospettare che Dagmar nasconde un orribile segreto

Il film è uno di quelli che richiede molta concentrazione e un po’ di pelo sullo stomaco, il tema (positivo) della solidarietà femminile è inquinato da una rappresentazione della maternità che può essere considerata mostruosa secondo il sentire comune ma che Dagmar sul finale rivendica per sé e per tutte le donne che l’hanno contattata.

Una piccola concessione all’happy ending non scalfisce un monolite filmico che piomba sul tuo stomaco come l’urto di un SUV danese. Da vedere, con riserva.

SMILE 2, MEGLIO DEL PRIMO

Sorpresa, non me lo aspettavo ma Smile 2 è più efficace di Smile! Parker Finn sa il fatto suo e prosegue in quello che promette di essere un franchise horror che spacca i culi come dicono i giovani statunitensi. Vi ricorderete che il fulcro di tutto è un’entità soprannaturale (un demone simbionte o qualcosa del genere, ma poi in fondo chissene) che contagia la mente del malcapitato protagonista, si nutre delle sue paure e lo spinge prima alla follia e poi al suicidio spettacolare caratterizzato dal diabolico SMILE mentre tipo ti tagli la gola ti cavi gli occhi o ti fracassi la faccia (tutte tipologie di suicidio molto comode e tutte molto ben rappresentate nel film).

Succede che da un film all’altro chi sta per morire dica “ce l’hai!” all’involontario testimone e paf, il demone sorridente passa nella tua mente. Stavolta tocca a Skye Riley (Naomi Scott), popstar di grandissimo successo con un torbido passato di droga e alcolismo alle spalle che deve assolutamente liberarsi dello SMILE della morte prima appunto di incorrere nella morte brutta.

In suo aiuto accorre Mr. Spiegone (uno che si manifesta dal nulla spiegando di essere il fratello di una delle precedenti vittime, spiega alla protagonista cosa le sta succedendo e in pratica ci fa il riassuntino di Smile 1). Manco a dirlo, la soluzione proposta è “prima ti faccio morire, poi ti rianimo perché tra le altre cose sono un infermiere specializzato del pronto soccorso” (già sentita, vero?)…

Non c’è molto di più da dire se non che Naomi Scott è molto brava a reggere tutto il film sulle sue spalle e sulle sue paranoie continue, continua ad esserci un notevole sound design, i jumpscare non sono (quasi) mai banali e se fino all’ultimo si può sperare in un lieto fine… vabbè, no, tanto lo sapete che gli horror devono finire male, no? Se no che horror è? Ecco, stavolta finisce peggio del solito. O meglio, finisce benissimo per Parker Finn che in un colpo solo si è garantito 10.000 potenziali sequel della sua creatura.