KPOP DEMON HUNTERS: IMPOSSIBILE RESISTERE

Buon ultimo, arrivo anche io a vedere il fenomeno dell’animazione 2025, K-Pop Demon Hunters, un film Sony Pictures Animation distribuito a livello mondiale da Netflix che al momento in cui è uscito (20 giugno) nessuno se lo sarebbe mai inculato, per usare un francesismo, e invece a partire dai primi di luglio è stato (e credo continui ad essere) uno dei film più visti dell’anno in assoluto sulla piattaforma.

Il motivo è molto semplice: Kpop Demon Hunters unisce tre cose che garantiscono un successo assicurato. Punto primo, un’animazione allo stato dell’arte, magari non a livello di Spider-Man o dei Mitchell (due altri successi Sony), ma creativa abbastanza per elevarsi sopra una produzione “media”, soprattutto nelle (molte) sequenze d’azione. Punto secondo, una storia semplice, universale, accessibile a tutti che però non è un sequel un prequel un midquel un legacy sequel un remake o simili. Punto terzo, le canzoni. Che sono in classifica in tutto il mondo e hanno soppiantato con le Huntr/x e i Saja Boys persino i BTS e le BlackPink (veri gruppi KPop).

La trama è presto detta, trio di cantanti/maghelle/guerriere (le Huntr/x) deve proteggere il mondo dai demoni che spingono per succhiare le anime degli umani creando uno scudo protettivo mentre sono in tour. Demone affascinante crea una boy band demoniaca (i Saja Boys) che ruba i fan alle Huntr/x. Rumi, la più problematica delle Huntr/x che nasconde un segreto, si innamora di Jinu, il ragazzo demone a capo dei Saja Boys.

Cosa potrà mai andare storto? Completano il quadro una coppia di animali demoniaci a coprire la quota “spalle comiche”, un manager che oscilla tra i due gruppi musicali, un medico ciarlatano doppiato da Ken Jeong.

Io l’ho visto due volte in italiano per cause di forza maggiore, ma in originale, come al solito, è meglio. In entrambi i casi, alla fine della visione, per settimane intere ti ritrovi a canticchiare i singoli di successo estratti dal film, come Golden, Takedown, SodaPop o How It’s Done. Impossibile resistergli.

GENITORI PROGRESSISTI AL BIVIO: UNICORNI

Unicorni di Michela Andreozzi sta in pochissime sale ma vale la pena cercarlo. È una commedia dolce, equilibrata, ottimamente interpretata, talvolta un po’ didascalica ma ci sta, perché il pubblico italiano su questi temi – che i battibecchi ideologizzati tendono ad inquinare tantissimo – ha anche bisogno di essere “educato” (mi riferisco alle scene/spiegone ambientate nel cerchio di terapia per “genitori unicorni”). 

La storia è quella di una famiglia allargata e progressista che viene messa in crisi da un bambino di 9 anni e mezzo, Blu (Daniele Scardini, bravissimo nel suo ruolo) che presenta una evidente varianza di genere: vuole vestirsi sempre “da femmina” e alla recita scolastica vuole fare la Sirenetta. 

Mi ha toccato profondamente, come è inevitabile, la figura di Lucio (Edoardo Pesce): papà progressista e femminista, odia il calcio, pratica yoga, definito woke dal collega, in una parola il mio ritratto (non fosse che lui abita in un appartamento meraviglioso a Roma e io no). Lucio fa il conduttore radiofonico e riesce a smontare ai microfoni del suo programma soggetti agghiaccianti come artisti del rimorchio e fanatici pro vita e famiglia. Quando però capisce che il figlio Blu non ama solo vestirsi da femmina “ogni tanto” ma ha una sua identità di genere non conforme alle aspettative sociali, va in crisi

Nell’ansia di proteggere, tenta di forzare un cambiamento nel bambino che riesce solo a far stare male tutta la famiglia. Il conflitto interiore di Lucio è molto ben rappresentato, così come la divergenza di idee con la moglie Elena (Valentina Lodovini) che non solo ha capito il figlio ma lo ha accettato. In questo senso Unicorni è anche un ottimo studio sul maschile contemporaneo e sui problemi della genitorialità. 

Quando Lucio ed Elena iniziano a frequentare il gruppo “Genitori Unicorni” – un cerchio di confronto guidato da una psicologa specializzata in varianza di genere interpretata dalla stessa regista – il respiro si allarga e la storia da familiare diventa collettiva, grazie anche a ragazzi e genitori membri attivi dell’associazione Genderlens, che ha partecipato alla produzione del film.

Inutile dire che ho pianto tantissimo. Ma Unicorni è anche un film molto divertente, fidati. Ed è abbastanza sorprendente nel panorama italiano veder trattato questo tema in modo così equilibrato.

FINALMENTE IL KUNG FU TORNA A ROMA

Mi fa molto piacere vedere che La città proibita di Gabriele Mainetti sia “primo in classifica” su Netflix tra i film più visti in Italia perché se lo merita. Lo sapevo anche prima di vederlo, che se lo meritava, ma ne ho avuto la conferma (dopo essermi un po’ mangiato le mani per non averlo visto in sala, vabbè).

Meno fulminante di Lo chiamavano Jeeg Robot e meno caleidoscopico e debordante di Freaks Out, La città proibita – pur con il suo essere praticamente due film compressi in uno, pur mantenendo la consueta professionalità nel prendere un genere e farlo bene, adattato alla realtà romana – è un film che definirei “classico”.

Le due sorelle cinesi che si allenano col kung fu negli anni ’90 finiscono ben presto in un delirio di mafia cinese, prostituzione, traffico di esseri umani. Mei (Yaxi Liu) è la più brava nel kung fu e sbaraglia gli avversari alla ricerca della sorella scomparsa proprio a Roma (bellissima, dopo una ventina di minuti, la transizione improvvisa e inaspettata in una via dell’Esquilino con il tizio che dice “ma li mortacci”).

E da lì si sviluppano due film paralleli, intrecciati, con la paura sempre che i due film non c’entrino una mazza l’uno con l’altro e invece niente, anche stavolta Mainetti ce l’ha fatta sotto il naso, le mazzate filologiche alla Bruce Lee e il dramma de noartri con la Ferilli, Giallini, Zingaretti e il bravo Enrico Borello nel ruolo di Marcello si sposano perfettamente, anche perché i misteri si infittiscono quando si scopre che il padre di Marcello e la sorella di Mei erano innamorati…

Il tema della vendetta tipico del cinema orientale e il dramma criminale in una città mai rappresentata prima in modo così multietnico vanno a braccetto con pochissime deviazioni (ho trovato un po’ inutile la sottotrama del figlio rapper del boss cinese, utile solo a rimarcare la maggiore integrazione degli immigrati di seconda generazione).

Insomma, lo sapevo che mi sarebbe piaciuto e in effetti mi è piaciuto, anche con il suo finale un po’ Kung Fu Panda che però è adorabile nella sua semplicità disarmante. Se come me non l’avevi visto, vedilo ora.