A ME L’ESTATE MI METTE L’ANSIA

Fa caldo, poi fa freddo, poi fa di nuovo caldo. Io dormo nudo perché d’estate è imperativo, poi mi sveglio incriccato perché non ho più l’età. Spio nelle case degli altri di notte perché d’estate c’è qualcosa che mi spinge a farlo. Anche d’inverno, in effetti. Mi viene una certa qual mania dell’ordine (a proposito, con gli sgabuzzini abbiamo praticamente terminato, manca solo l’armadietto del cesso che non avevo preso in considerazione).

Magari devo prenotare un alloggio, un B&B, un agriturismo e penso beh devo sbrigarmi che poi magari non trovo più nulla. Poi ho tutto a posto e inizio a deprimermi pensando che è tutto a posto e allora perché non si parte ancora? Poi penso che è meglio staccare quando gli altri tornano, c’è meno gente in giro, costa meno, ci son solo vantaggi. Poi penso che comunque, potessi anche solo star tranquillo a fare un cazzo a Torino si starebbe anche bene, con tutte le iniziative culturali che ci sono. Ma tanto tra un’iniziativa culturale e una pennichella a letto sceglierei sempre la seconda.

Solitamente d’estate non c’è una mazza da fare in ufficio, e si può tirare un sospiro di sollievo. Quest’anno no, e mi sto rammaricando di non essermi volatilizzato prima che a qualcuno venisse in mente di fare il mio nome per la proposta del miglior capro espiatorio dell’estate 2008. Quindi ti viene voglia di uscire dall’ufficio e magari fare un giro in moto, andare in un parco, prendere il sole. Ma appena lo fai seriamente, subdolo parte il nubifragio delle 18.15.

In più, l’estate è il periodo dell’anno in cui mia madre si fa venire il complesso del cane abbandonato sulla corsia d’emergenza dell’autostrada. Secondo la sua logica, ogni estate lei dovrebbe avere un collasso di qualche tipo. Per far partire i familiari tranquilli, diciamo. Scatta perciò la corsa al farmaco e il confronto tra il piano ferie della farmacia di fiducia, del medico, dei vicini di casa e della colf.

Infine, l’estate è anche il momento in cui c’è il compleanno di Stefi, che non è una donna organizzata e facile alle wishlist. Farle un regalo è sempre complicato, e non parliamo di regali a sorpresa. L’ansia da prestazione per il regalo al coniuge sale altissima. Puoi far finta di dimenticare, ma di solito è peggio. Io so sempre quale regalo vorrei io. Ad esempio, se me lo chiedessero adesso, vorrei questo (grazie a Raffa per la dimostrazione).

Ma l’estate non è il mio compleanno. L’estate è sempre il compleanno degli altri. Tsk.

PERTURBAZIONI SULL’ORLO DEL CAOS

Rifletto sempre più spesso su qual è il mio più grande problema attuale. La disorganizzazione. Il caos calmo, che prelude a qualcosa di ignoto. Mi spiego meglio: non riesco a fare nessuna delle cose che dovrei/potrei/vorrei fare. A parte qualcosa di estemporaneo e che richieda brevissima concentrazione, come un post.

Sul lavoro devo concludere progetti, iniziarne di nuovi, confrontarmi in interminabili riunioni con colleghi e fornitori. Non ne ho voglia. Lascio che i progetti si concludano da soli per inerzia e rimando al mittente con sguardo catatonico tutti i promemoria e le to-do list che io stesso mi sono preparato in precedenza. So benissimo che ci sono mille cose da fare, ma non riesco a capire da che parte cominciare e non so nemmeno se ho voglia di farlo. Anzi, no. Lo so benissimo. Non ho voglia di fare assolutamente nulla. Perciò è sempre il momento di un caffé / sigaretta / sms.

Potrei pensare degli articoli stupendi, ma quando comincio la testa mi si svuota e non soltanto non riesco a scrivere, ma proprio non mi viene un’idea che sia una. La stessa cosa mi accade con le cose di casa: un grossissimo sforzo è stato fatto nei giorni recenti per fare le faccende, lavare e stirare, ma è stato titanico (cinque lavatrici e quattro ore col ferro da stiro in mano, per dire). Non riesco a tenere i conti come faccio di solito, non vado ai concerti che mi piacciono perché implicherebbe prendere la moto e arrivare in luoghi pieni di gente… La vita sociale c’è, ma se si svolge vicino a casa è meglio.

Questo vuol dire che devo andare in vacanza, lo so. Ma le mie ferie partono esattamente tra un mese, e per di più non le ho nemmeno ancora organizzate: telefonare a chi affitta appartamenti in Istria è un’altra di quelle cose che rimando, rimando, rimando. C’è un bel video che spiega questa situazione, si chiama (guarda un po’) Procrastination. Mi ha colpito una frase in particolare, che ho trovato per caso su Wikiquote mentre cercavo qualche risposta mistica al termine di ricerca “disorganizzazione” (io uso Google come altri usano l’I-Ching). La riporto qui.

I sistemi complessi all’orlo del caos sono sottoposti ad un gran numero di piccole perturbazioni e a un piccolo numero di grandi perturbazioni, che, mediante distruzione, generano discontinuità, creazione, innovazione.

Non saprei. Per il momento, resto perturbato.

LE PAROLE SONO IMPORTANTI

Ci sono espressioni alle quali di solito non presto attenzione. Sono modi di dire che solo dieci, quindici anni fa, non avrebbero avuto alcun senso. Si tratta di parole in apparenza innocue, ma quando mi ci soffermo mi fanno rabbrividire, e mi riprometto di non usarle mai più (fino alla volta successiva in cui, come per magia, escono anche dalla mia bocca). Non parlo tanto degli orridi inglesismi marchettari (tipo “schedulare un appuntamento”, “shiftare di un posto”, “avere un particolare skill”): chi parla così e non sta scherzando per me è semplicemente un alieno. Parlo piuttosto di alcuni modi dell’italiano che hanno preso piede nell’ultimo decennio, e che vado ad elencare qui sotto, speranzoso che anche voi lettori possiate aggiungere tutti gli altri che mi sono dimenticato nel frattempo. Partiamo dai saluti…

Buongiorno / Buonasera vs. Buona serata / Buona giornata
Avrete sicuramente notato che ormai tutti vi salutano dicendo buona serata e buona giornata (spesso sono io il primo a farlo). La forma “buongiorno” è quasi obsoleta, mentre “buonasera” sembra pronunciabile soltanto più da Pippo Baudo. Si potrebbe obiettare che la forma in “-ta” è più adatta per un commiato. Verissimo. Quando ci penso, però, mi irrito perché il suffisso “-ta” mi fa l’effetto di un obbligo all’attività, ad un tempo che in qualche modo deve essere produttivo, divertente, interessante. La sera è un attimo, la serata è un lungo ed estenuante processo. Saranno paranoie mie, ma se non ho voglia di far nulla di particolare preferisco vivere un giorno che una giornata.

Come va? vs. Com’è?
Qui si scivola nel gergo gggiovanile ormai entrato nel sentire comune. Eppure, a pensarci bene, chiedere come va sottintende più cose (come va la vita, come va il lavoro, come va il rapporto con i tuoi familiari, come vanno le cose in generale). Chiedere com’è mi fa pensare prima di tutto “com’è chi?“, e poi a una pericolosa inclinazione verso l’individualismo esasperato: non ci sono cose che “vanno” intorno a te, c’è solo un’entità che “è”. Un po’ mi inquieta: è una questione filosofica.

Che lavoro fai vs. Di cosa ti occupi
Non si spiega perché le persone, al volgere del secolo, non lavorano più. Si “occupano”. Al di là delle reminiscenze morettiane dirette del post, a me ricorda tantissimo il vecchio “giro, vedo gente, faccio cose”. Se notate, ci sono persone alle quali chiedere “che lavoro fai” sembra quasi insultante, mentre ce ne sono tantissime altre che alla domanda “di cosa ti occupi” ti guardano e ti chiedono “in che senso?”. A me personalmente crea imbarazzo il “di cosa ti occupi”. Mi mette proprio a disagio. Ma del resto mi mette a disagio anche il “che lavoro fai”, quindi sono a posto così.

Oggi vs. Di oggi
Questa è tipica degli account executives (categoria che tutti imparano ad odiare, sia che si definiscano “account” che “commerciali”). Il progetto, il lavoro, deve essere finito “di oggi”. Perché? Non va bene “oggi”? O magari “Entro oggi”? Forse “entro” è una parola troppo complicata per certi soggetti. Solitamente tutti quelli che lavorano in team (altro termine abusato) con un account dimostrano di irritarsi grandemente all’uso di questa inspiegabile espressione.

Hai [operatore] vs. Sei [operatore]
Questa è legata al mondo pervasivo della telefonia mobile, che è tutto intorno a noi. Ho cominciato a sentirla a Ivrea, quando la Vodafone prese piede sulle ceneri dell’Olivetti. “Sei Tim o sei Vodafone?” era la domanda comune. Come “sei”? Cioè, io mi identificherei, baserei la mia identità, sull’appartenenza ad uno o ad un altro operatore telefonico? No caro, io “ho” una scheda telefonica, non “sono” un’estensione carnosa del mio cellulare. Questa è una delle espressioni che odio di più in assoluto, ma d’altra parte – forse – la usano solo nel Canavese.

Poi, beh, ce ne sarebbero altre, ma sul momento non mi vengono in mente… A voi?