Ecco un post che farà pensare alla gente che legge "ma quanto se la tira questo"? Io stesso mi vergogno un po’ di andare in libreria a comprare certi libri, eppure è più forte di me. E, lungi dall’essere una lettura difficile e concettuale, il saggio su Walt Disney di Sergej M. Ejzenstejn è quanto di più illuminante sono riuscito a leggere in tema di cinema e filosofia dell’immagine di recente. Di solito si legge Ejzenstejn all’università, se studi cinema. Anzi, in quel caso devo dire che ti fai anche una bella indigestione. Ma il punto è che il genio di Ejzenstejn traspare da ogni frase, e il suo stile è assolutamente comparabile ad un flusso di idee senza connessione – dove la connessione la trovi tu entrando in sintonia con le frasi. Boh, forse non riesco a spiegarmi. Questo comunque rientra in una serie di saggi sul cinema americano (su Chaplin, su Griffith) che sono costati al regista più di un’abiura al tribunale del realismo socialista… Ejzenstejn considerava Disney (il primo Disney, quello degli anni ’20, ’30 e ’40) il più grande artista americano. L’arte disneyana (non consolatoria o predicatoria secondo il russo) portava le masse in un mondo "altro". Un giudizio di puro formalismo, che avvicina Disney ai grandi surrealisti. Decisamente interessante.
LA FAMIGLIA DISFUZIONALE (NON LA MIA, PERO’)
In questi giorni per fortuna leggo molto e parlo poco. Ma vorrei sottolineare in qualche modo quel che sto leggendo. In particolare, potrei dire che c’è un genere ormai diffuso nei gusti dei lettori come il giallo, il fantasy, l’horror, etc. Lo definirei il genere "famiglia disfunzionale". Ne fanno parte i libri che narrano appunto di famiglie disfunzionali (lo sono molti libri di Hornby, ad esempio). Libri che narrano di rapporti in genere assolutamente devianti tra membri di un circolo ristretto di affetti. Quasi sempre questi libri sono scritti in chiave grottesca o delirante, perché come ci insegna Baudrillard "visto che il mondo sta prendendo una direzione delirante è il caso di assumere un punto di vista delirante". Recentemente ho finito Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Mark Haddon, un romanzo che mi ha colpito molto. Il protagonista è un ragazzo autistico, e la narrazione in prima persona prova a far entrare il lettore in una dimensione, per l’appunto, autistica. Assolutamente affascinante. Le digressioni matematiche (che io non arriverei mai a capire) fanno il paio con un punto di vista spiazzante e mai banale (della serie "dov’è la normalità?" – detto così sembra una cazzata ma insomma a me è piaciuto un sacco). Il libro ha un’esile trama "gialla" che ben presto lascia il passo al tema della famiglia disfunzionale. Ora invece sto leggendo Gli Schwartz di Matthew Sharpe. Qui abbiamo un diciassettenne sessuomane, una sorella in crisi mistica, un padre impasticcato e spesso in coma, una madre volatile e seduttrice. Anche in questo caso è lo stile che mi colpisce, lucido e sempre leggermente sfasato e fuoriposto. Una sorta di I Tennenbaum su pagina scritta. Apprendo che il libro di Sharpe, rifiutato da quasi tutte le case editrici per anni, adesso è in testa alle classifiche di vendita USA. Buon per lui. Io lo devo ancora terminare, ma confesso che è uno di quei romanzi che ti fanno dimenticare la realtà, presentando una serie di personaggi talmente disturbati che è impossibile non identificarsi.
UNE LECTURE PARESSEUSE
Ci sono quelle volte che avresti bisogno di una matita per sottolineare le frasi di un libro, anche se di solito non lo fai, e ti danno fastidio quelli che scribacchiano, evidenziano e annotano compiaciuti (di solito lo fanno su una copia di un libro di Saint-Exupery, Hesse o Fromm – alla peggio su quei libri che persino Bridget Jones butterebbe nel cestino della spazzatura). A me questo impulso è capitato con pochissimi romanzi (forse in particolare solo con Il giovane Holden) e con ancora meno saggi (magari qualcosa di Guy Debord o di Baudrillard, giusto per fare il figo). Il pamphlet di Corinne Maier Buongiorno pigrizia, però, è talmente illuminante da riuscire a farti reagire fisicamente durante la lettura. La Maier non scrive nulla che non sappiamo già da anni sulla vita sclerotizzata e sui riti dell’azienda, sulla neolingua tremenda del marketing fine a sé stesso e sul lavoro in generale. Però ha il coraggio di scriverlo e di scriverlo bene. Il capitalismo è in crisi? La vita aziendale somiglia pericolosamente a Dawn of the Dead? Benissimo, la Maier mette il dito nella piaga e lo rigira facendo uscire tutto il pus che si nasconde dietro il marcio della mobilità, del lavoro interinale, delle società di servizi, della motivazione, dei seminari, del lavorare in team, delle riunioni, della "gestione dei progetti", della burocrazia, dei falsi miti (la "grande famiglia"), degli "yes-men", della new economy e chi più ne ha più ne metta. Dedicato a chi pensava che in Francia andasse meglio. A chi sa già tutto e vuole comunque farsi due risate (per quanto amarissime). Ai neolaureati che ingenuamente credono ancora che i loro anni di studio abbiano un qualche senso ai fini del lavoro e sposano con entusiasmo le vision, le mission e le convention. Aprite gli occhi! Il lavoro non definisce più l’uomo, non lo nobilita. Il lavoro aziendale è un vuoto ripetersi di gesti meccanici, senza alcuno scopo. Ma non ribellatevi al sistema, se non volete perdere il posto: la strategia giusta è la pigrizia. Dare l’impressione di essere molto affaccendati. E’ un’arte che si impara col tempo, e il libro non la può insegnare. Ma può indicare la via…
