I LOVE SHOPPING IN PAUSA PRANZO

Io non devo dirigermi in negozi Tim o Vodafone per chiedere lumi sul nuovo iPhone. Io non devo dirigermi in negozi Tim o Vodafone per chiedere lumi sul nuovo iPhone. Io non devo dirigermi in negozi Tim o Vodafone per chiedere lumi sul nuovo iPhone. Io non devo dirigermi in negozi Tim o Vodaf… Oh scusate, eravate qui? Stavo terminando di scrivere cento volte il mio mantra del giorno. Tutti ne parlano da ieri. Io non ne vorrei parlare. Ma devo. Siccome gli europei di calcio io li schifo (a quanto pare poi non mi perdo nulla), ho passato la serata di ieri a cazzeggiare su questo sito.

E ditemi che non vi fa venire la voglia, su! Io non sono proprio il tipico tecnofolle, ci penso anche dei mesi prima di acquistare qualcosa di costoso tipo – che so – un portatile, una fotocamera, una console videoludica o simili. Da vero capricorno, la domanda che mi pongo sempre è “ti serve sul serio o è solo una minchiata per gratificare il tuo ego sconfortato dal logorio della vita moderna?”… Di solito mi rispondo che non mi serve, finché un qualche preesistente dispositivo risalente a 5 o 6 anni prima si rompe e da superfluo, l’acquisto diventa necessario.

Nel caso del nuovo iPhone 3G, a parte la vaga antipatia che mi procura la costrizione all’abbonamento biennale Tim/Vodafone, qualcuno ha avuto l’idea geniale di calare il prezzo a 199 $ (pia illusione pensare che qui possa costare 130 €, immagino). La leva del prezzo è fondamentale. Basta quello per convincermi all’acquisto. Non capisco però come mai nei siti Tim e Vodafone (debitamente linkati da Apple Italia) non si spenda nemmeno una riga sull’argomento.

Come ho già detto, però, devo evitare di sprecare la pausa pranzo in negozi Tim o Vodafone per chiedere lumi sul nuovo iPhone. Ma siccome il titolo del post è quello che è, e siccome mi trovavo in zona via Bogino, una puntatina da Comunardi e Rock & Folk ci poteva stare. Ne esco come sempre con qualche titolo degno di nota. BiogrAfrica, il cofanetto celebrativo 2 CD + 1 DVD dei mitici Africa Unite (uno dei miei gruppi italiani preferiti di sempre): qui si ripercorre la loro storia, tra alti e bassi, dub e roots. La lama sottile di Philip Pullman: dopo aver metabolizzato il primo volume di “Queste Oscure Materie” è ora finalmente di passare al secondo – la saga è valida e ricca di spunti. L’edizione italiana di Mr. Wiggles di Neil Swaab, la mia striscia preferita del momento (è l’orsetto pedofilo e drogato che esce sull’Internazionale). Io sono Legione di Nury e Cassaday (Marvel 100% Cult Comics): una graphic novel curiosa su esoterismo e Terzo Reich.

E adesso, chi ha più voglia di lavorare?

AMORI CRONOLOGICAMENTE DISORIENTATI

Quando leggi un libro che ti colpisce al punto di farti piangere mentre alle due del mattino continui imperterrito a leggere per finire le ultime venti pagine (e al tempo stesso non vorresti mai finirlo), ci possono essere due spiegazioni. O sei un insonne dall’equilibrio emotivo molto fragile, o il best seller che tieni in mano ha veramente meritato il successo che ha avuto. Nel mio caso valgono un po’ tutte e due le cose, con una preponderanza del secondo motivo. E in ogni caso La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo è un piccolo capolavoro.

Mi risulta difficile pensare ad un altro romanzo che riesca ad unire in modo così naturale fantascienza e romanzo d’amore. Dove per naturale intendo che non spinge troppo né sul lato scientifico-nerd, né sul lato melodrammatico. La materia è trattata in modo realistico e “quotidiano”: la tragedia c’è eccome, ed è tutta nella vita disperata di Henry, un uomo “cronologicamente disorientato” che talvolta, come in preda ad un attacco epilettico, si ritrova in un punto qualsiasi del suo passato o del suo futuro.

E’ in questo modo che il protagonista conosce la moglie quando lui ha 38 anni e lei 6, che riesce a vedere la figlia non ancora nata, che rivive costantemente l’incidente mortale che ha causato la morte della madre, e che in generale sparisce quando meno se lo aspettano amici e parenti. Il romanzo è narrato a due voci, quella di Henry e quella di Clare, eterna Penelope e futura (o passata) moglie. L’intreccio è appassionante, la caratterizzazione dei personaggi anche. Non starò a dilungarmi sulla trama, perché c’è un forte rischio di spoiler.

L’autrice Audrey Niffenegger è al primo romanzo, ma è un’artista abbastanza nota nel campo dell’illustrazione: non può che incuriosirmi il fatto che si ispiri per i suoi graphic novel al mitico Edward Gorey che tanto amavo da piccolo. Manco a dirlo (le premesse c’erano tutte) il libro diventerà un film in uscita nel 2008, con un cast da calci nei denti su cui spicca Eric Bana (l’attore più inespressivo del pianeta dopo Nicholas Cage) nel ruolo di Henry.

Quando si legge un libro così non si può che ringraziare la botta di culo che te lo ha fatto notare in libreria. O, nel mio caso, la persona che me lo ha regalato. Attraverso la sua sensibilità ho letto il libro, pensando a lei ho pianto per le disavventure dei protagonisti. Ecco, questo libro oltre che meraviglioso da leggere è anche un must da regalare, se volete fare un’impressione devastante e diventare indimenticabili… 🙂

LA FINE DE “LA FINE”

E anche questa è andata. Dopo Harry Potter termina anche la Serie di Sfortunati Eventi di Lemony Snicket, con l’ultimo volume appropriatamente intitolato “La fine“. Si tratta dei due cicli di letteratura cosiddetta “per ragazzi” che più hanno segnato la svolta del secolo, per diversi motivi. La Rowling soprattutto per il fattore mitopoietico, l’intreccio appassionante e l’approfondimento psicologico. Daniel Handler (vero nome dell’autore conosciuto come Lemony Snicket) per lo stile, la riflessione metanarrativa e l’approfondimento morale.

Per me, i libri della Serie di Sfortunati Eventi rappresentano un capolavoro di arte retorica. Dovrebbero essere studiati all’università al posto di Cicerone e Quintiliano. Nella loro apparente semplicità di “romanzi gotici per bambini”, i libri di Snicket squadernano tutta l’institutio oratoria a partire dal linguaggio che nasconde continue allitterazioni, anafore, anagrammi, allusioni, allegorie e molti altri tropi con la “a”.

Permettetemi per una volta di spacciare l’analista retorico che è in me: Snicket/Handler è un genio. Il suo stile è una sorta di humor nero improntato senza pietà all’anticlimax, al non sequitur e alla reticenza (basti pensare alle inquietanti missive ellittiche che il narratore invia all’editore alla fine di ogni volume). Il narratore interrompe spesso e volentieri il corso degli eventi con riflessioni sue, sulla sua vita (informazioni ovviamente sempre molto misteriose) o sulla follia del genere umano.

Le digressioni più deliranti sono quelle in cui Snicket riflette sul significato di termini spesso facilmente interpretabili (con la formula “una parola che in questo caso vuol dire…”) – un cotè metalinguistico che trova la sua controparte nei farfugliamenti apparentemente assurdi della piccola Sunny Baudelaire, sempre “tradotti” da uno degli altri fratelli Baudelaire, gli unici a capirla veramente. Mettere in bocca a un bebè l’espressione “Bushcheney” tradotta come “Sei un uomo malvagio che non si preoccupa minimamente degli altri” è insolito e brillante.

A parte questo, la storia degli orfani Baudelaire (che nei primi sei volumi segue un pattern sempre identico mentre dal settimo in avanti diventa una ricerca del significato di V.F., il più grande mistero della serie) presenta numerosi problemi di etica a misura di bambino, evidenzia come il manicheismo non possa essere una valida filosofia di vita e soprattutto istruisce subdolamente il lettore sulla teoria narratologica per cui non esiste un inizio e una fine, ma tutte le storie sono sempre intrecciate l’una con l’altra in un disegno infinito.

In questo senso, si può veramente dire che la Serie di Sfortunati Eventi sia in realtà un pretesto per Handler (tramite il suo elusivo alter ego Snicket) per veicolare alcune idee sul romanzo. Non a caso, gran parte dei misteri resta insoluta alla fine del racconto: molti personaggi vengono letteralmente “inghiottiti” da un enorme punto interrogativo (il “grande ignoto”). E non a caso, una delle ultime parole di Sunny è “McGuffin“, a indicare che in fondo, i misteri non hanno tutta questa importanza.