ACQUA DI COLONIA (FIAT)

Oggi ho avuto una madeleine olfattiva. Nel bagno dell’ufficio c’era quel vago odore di gas corporeo misto a dentifricio mentolato. Come se qualcuno avesse cagato dietro un pino, insomma. La mia mente è stata improvvisamente risucchiata a Marina di Massa nel 1978, nella torre littoria della Colonia Fiat.

In quegli anni, erano molti i bambini ad essere mandati in colonia. Sembrava la cosa giusta da fare. Ci mettevano in fila, ci spogliavano, buttavano i nostri vestiti in un sacco, li sterilizzavano. Poi ci facevano passare in un corridoio dove ci controllavano i capelli per i pidocchi e ci spruzzavano addosso un gas polveroso per disinfettarci. Poi ci lasciavano lì, nudi e in fila. Per spezzarci lo spirito.

Venivamo caricati tutti su un treno, strappati alle famiglie. Arrivati alla Torre Fiat venivamo smistati. I maschi dal quindicesimo piano in su, le femmine ai piani inferiori. In seguito, ricordo solo una teoria di giorni tutti uguali, in cui bisognava bagnarsi ad una certa ora in un recinto, uscire dall’acqua ad una certa ora, mangiare, dormire, giocare, tutto ad una certa ora. E naturalmente andare in bagno con le porte aperte (con quell’odore di merda e menta che sovrastava tutto). Io, ovviamente, odiavo tutto questo dal profondo del cuore. E mi rendo conto solo ora che non è la prima volta che ne scrivo.

So che è un’eresia, ma per me la colonia resta associata alle immagini di deportazione che vedevo in uno sceneggiato ormai dimenticato: Olocausto (nei ’70 ci andavano giù pesanti coi programmi TV). Oggi, ripensandoci, lo associo di più al primo tempo di Full Metal Jacket. Credo che l’intenzione delle Colonie Fiat fosse quella di preparare tanti “bravi soldatini” che si sarebbero divertiti un mondo durante la naja prima e in catena di montaggio poi.

Io ero talmente alieno che mi picchiavano sempre, ma questo l’ho già detto. E’ che da allora ho un trauma mai risolto nei riguardi della Sardegna e dei sardi in genere. E’ più forte di me, mi fanno paura. Soprattutto quando fanno la ruota.

PETER PAN, TRILLY E IL BAMBINO PERDUTO

La velocità con la quale i fatti nella vita del sottoscritto si susseguono contribuisce a creare quell’aura di irrealtà a molte delle cose che mi succedono. Ad esempio, è da qualche mese che un’altra parte della mia personalità sta crescendo. Parlo di quello spazio relazionale costituito dal giro delle amicizie più intime: uno spazio che per me (e credo per molti della mia generazione) è anche più importante dello spazio familiare. In fondo, gli amici sono la famiglia che ti scegli.

Per questo i miei due migliori amici sono per me i fratelli che non ho mai avuto. Diventare (più) adulti: alla bella età di 37 anni può sembrare una cosa idiota da dire, ma io sono convinto che di crescere dentro non si smette mai, nemmeno a 90 anni (a patto che ci sia sempre qualcosa che ci sorprende). Quindi crescere può anche voler dire rimettere a posto i pezzi del puzzle emozionale che per anni è stato in una certa configurazione e che adesso deve cambiare.

Peter Pan è sempre stato Peter Pan. Anche quando io e Trilly conquistavamo passo dopo passo le normali tappe di una vita (laurea, lavoro, convivenza, matrimonio, primi accenni alla possibilità di riprodurci), lui era fermo alla tappa “lavoro”. Lui rappresentava l’anima irriducibile del gruppo, quello che per lungo tempo ci ha messo di fronte al fatto che noi “stavamo cambiando” mentre lui difendeva il diritto a non diventare adulti.

Ma siccome la crescita è un processo naturale, negli anni anche Peter Pan si è reso conto che qualcosa gli mancava. E se hai soffocato per dieci anni la naturale evoluzione dell’essere, ti ritrovi all’improvviso a pensare che forse dovresti bruciare le tappe. Perciò è arrivata la convivenza (fuori città), arriverà presto il matrimonio e – io e Trilly lo sospettiamo – anche un bambino curioso. Perché quando prendi velocità di colpo è difficile fermarsi.

Ora che si è rotto un equilibrio se ne sta creando un altro. Peter Pan non è più Peter Pan. Trilly mette il broncio, ma per amicizia può anche smettere di usare la polverina e passare ad altre modalità relazionali, ugualmente salde e forti. Io, il bambino perduto (quello cicciotto con il costume da orsetto marsicano), devo capire se è vero che ogni tanto, anche per poco, si può tornare nell’Isola che non c’è.

DELIVERANCE

Poi i valligiani si lamentano che i cittadini li considerano dei pazzi. Sabato decido di fare lo svalvolato on the road in solitario: solo io, la moto e la fotocamera. Per unire il dilettevole al dilettevole. Ora, la mia moto non è che abbia tutta sta autonomia, e del resto io non sono nemmeno uno che si sveglia la mattina per fare un giro in moto (io mi sveglio a mezzogiorno se non c’è da lavorare). Ma essendomi svegliato per un caso alle 11, decido comunque di portarmi in val di Susa.

Nella fattispecie, decido per la Sacra di San Michele, monumento simbolo della regione nonché meravigliosa abbazia medievale con annessi padri rosminiani sempre molto cordiali e ridenti. Da Torino è un pezzo di tangenziale, un pezzo di autostrada, un pezzo di gallerie sotto Avigliana e poi una bella strada montagnosa per arrivare a destinazione. Si parcheggia e si fa meno di un km a piedi per raggiungere l’abbazia. Primo indizio inquietante: non c’è nessuno. Strano, penso. In fondo la giornata è bella. Ma forse è perché è ora di pranzo, e la Sacra apre solo alle 14.30.

Poco importa, mi sdraio sull’erba, sonnecchio, beandomi del cellulare che non prende e giocando con i simpatici insetti della valle. Mi sento molto Di Caprio nel vecchio spot Telecom. Mi risveglio in tempo per visitare la Sacra, anche se l’avevo pur vista un paio di volte negli ultimi dieci anni. Insieme a me una coppia di portoghesi e un americano. Quando scendo, iniziano a salire all’abbazia i pullman di anziani e i gruppi familiari con bambini urlanti.

Tornato al parcheggio, sento urlare alle mie spalle “BASTARDOOOOO!” – mi giro: è un tipo strano che avevo incontrato un paio d’ore prima al “Bar del Pellegrino”. Brandisce un tavolo in plastica bianca, leggero ma grosso quanto lui. Fortunatamente non ce l’ha con me (ci metto qualche secondo di terrore a rendermene conto), ma con un altro tizio che ha una bancarella proprio vicino alla mia moto.

“TE E LE TUE QUATTRO MUCCHE MALATE DI MERDAAAAA! TE AVVELENI LA GENTEEEE!” – è chiaro che è una lite tra pastori. L’esagitato deve posizionare la sua bancarella esattamente dove io ho la moto, e l’altro (assolutamente impassibile nonostante gli insulti) vende tome d’alpeggio agli scarsi passanti. “QUESTO E’ IL MIO TERRITORIOOOO! IO TI SPACCO IL CERVELLOOO! CRETINO! DEFICIENTEEEE!”, gli urla il primo mentre lui incarta pezzi da due etti per mettersi avanti col lavoro.

Io cerco disperatamente di sbloccare la moto in fretta, ma in quel momento un turista ignaro si avvicina alla bancarella del tomaro e gli chiede una toma. Il pastore folle si avventa verso di me col tavolo sollevato sopra la testa e (rivolgendosi al turista terrorizzato) urla “LE VENDO IO LE TOMEEE! LE SUE SONO AVVELENATEEE! HA LE MUCCHE MALATEEEE!”. Finalmente salgo in moto, in tempo per vedere il pastore impassibile che prende il cellulare e quello esagitato che urla “CHIAMA CHI TI PARE TANTO PRIMA DI STASERA SEI MORTOOOoooooo….”.

Son quelle cose che ti fanno svoltare la giornata.