THANK YOU FOR SMOKING

Io e il fumo abbiamo un rapporto strano. I non fumatori tendono a dare una spiegazione chiara e semplice del perché i fumatori fumano. Si parla spesso di fissazione orale, di dipendenza dalla nicotina, a volte persino di apprezzamento per il gusto del fumo. Per me sono tutte idiozie. Nel mio caso non vale nessuna di queste teorie. In un periodo imprecisato, intorno alla metà degli anni ’90, ho “smesso di fumare“. Gradatamente, le mie Gauloises blu hanno incominciato a durare ad ogni acquisto un po’ di più. Finché, mi son detto, tanto vale scroccare una sigaretta ogni tanto a qualche altro fumatore. Per di più, con l’intima soddisfazione di aiutare anche gli altri a fumare di meno, sottraendogli un po’ di materia prima.

Quando penso alle mie prime sigarette adolescenziali, mi viene sempre il sospetto di essere stato vagamente decerebrato. Alzi la mano chi altro ha trovato un pacchetto di Diana blu quasi pieno per strada e le ha fumate tutte una dietro l’altra sul balcone di casa in compagnia della sua compagna di banco / aspirante fidanzata dell’epoca (e vi prego di notare il gioco di parole). Avevo quattordici anni, e non sapevo che anche solo il tentativo di limonare con una persona che ha appena fumato cinque sigarette mi avrebbe portato senza indugio sulla tazza del cesso in preda ai conati di vomito. Non che anche lei non possa aver avuto la stessa impressione assaggiando la mia, di lingua. Ma in questo tipo di occasioni tendo a concentrarmi maggiormente sulle mie sensazioni.

La sigaretta era diventata, da lì in poi, un distintivo. Un po’ come dire “ehi, io sono più sveglio di te, più duro di te, più autodistruttivo di te e se possibile me ne fotto del tuo giudizio”. Ovviamente non era così. C’erano modi molto più incisivi di sottolineare il concetto, volendo. Avrei potuto farmi un piercing o un tatuaggio, ma ne ho sempre avuto paura, e poi sarebbero stati più difficili da tenere nascosti alla mia famiglia così medioborghese.

A sedici anni ho fumato la prima canna. Un po’ tardivo rispetto agli standard odierni, lo so… Del resto cosa ci si può aspettare da uno che ha perso la verginità a 21 anni? Ad ogni modo, anche in questo caso il contesto è stato un tantino surreale. Ero steso in un parco con una coppia di amici. E per coppia intendo una coppia vera, tipo lui e lei che si dedicano alle gioie del petting lontano da occhi indiscreti. A parte i miei, ovviamente. Tra un gemito e l’altro mi passavano la canna. Erano stati loro a volermi lì. Mi avevano attirato con l’inganno. Forse si eccitavano ad avere uno spettatore. Forse volevano semplicemente un palo, che li facesse stare tranquilli. Io aspiravo, tenevo dentro come vedevo fare nei film con i tossici, ma a parte un leggero mal di testa non ottenevo alcun risultato. A ripensarci, probabilmente era l’imbarazzo di trovarmi accanto a quei due. Ricordo che mi sono affrettato a lasciarli soli, confermando che sì, il fumo era una bomba e ridacchiando come un idiota per mascherare la mia inadeguatezza.

Fast forward. Dopo cinque anni di teen-limbo in cui la maggior parte del tempo era dedicato alle sigarette e alla masturbazione (non sempre in questo ordine) si giunge finalmente al dorato periodo universitario. Nel nostro monolocale da studenti, già popolato di posaceneri e pacchetti di Gauloises (fumavamo tutti la stessa marca) fa il suo trionfale ingresso sua maestà l’hashish. Gli anni tra il ’92 e il ’99 sono sempre un po’ confusi nella mia memoria. Quasi tutte le sere ero stonato, anche se questo non mi ha mai impedito di avere un grande successo negli studi. Io e i miei amici stonati cercavamo di stabilire rapporti di amicizia con tutti gli spacciatori del circondario, per spuntare il prezzo migliore, il fumo migliore, o anche solo qualche tiro gratis. Attraverso le nostre costruzioni intellettuali ci figuravamo di ripercorrere le strade dei beat americani, leggevamo Kerouac e Ginsberg ma ci arenavamo di fronte all’osticità di Burroughs. Le canne, non si può negarlo, ti fanno sembrare meravigliose anche le cose banali. A poco a poco, smettevo di fumare sigarette. E le canne le fumavo solo in compagnia.

E questo è il sentiero che seguo tuttora. Le sigarette le scrocco, oppure me le confeziono con tabacco e cartine, con una frequenza massima di 4 o 5 alla settimana. Non sono mai stato un gran fumatore, questo è certo. Non posso parlare di vizio. Fumo quando vedo un gruppo di persone che fuma con soddisfazione. Anche se il gruppo in questione è all’interno di un film: mi alzo dal divano e mi faccio una sigaretta. Fumo per imitazione.

Sul tema delle canne, continuo a pensarla come dieci anni fa. Sempre meglio fumare in compagnia. Vengono fuori discorsi eccezionali, che il giorno dopo nessuno ricorderà. Si mangiano cose assolutamente improbabili alle ore più assurde, il che non aiuta la dieta ma procura tanta allegria. Man mano che le responsabilità della vita adulta si fanno più pesanti, però, comincio a pensare che anche farsi le canne da solo non sia poi così socialmente inaccettabile.

Fumare in compagnia aumenta la creatività.
Fumare da soli tranquillizza e fa sembrare la vita meno minacciosa.
Sempre meglio del Prozac, comunque.

CONTROL FREAK

Ciao, sono Pietro e sono un maniaco del controllo.
Baso la mia autostima su quanta parte di mondo riesco a tenere d’occhio contemporaneamente. E quando l’inevitabile elemento a sorpresa emerge, quando il caos fa capolino dietro la sottile crosta di ordine con cui mi affanno a ricoprire la realtà, io crollo.
O meglio, barcollo. Ma non mollo.

Un sabato sera come tanti. Gli altri vanno a devastarsi, io vado a trovare mia madre. Che poi, a ben vedere, non c’è tutta questa differenza. La vecchia, poverina, non è che faccia la dolce vita, quindi aspetta che arriviamo noi per andare al ristorante, svagarsi, fare due chiacchiere coi “giovani”. Stavolta sono solo, perché dopo il ginocchio, lo stomaco e la testa, a Stefi è preso anche l’ascesso al dente. E non è il caso di muoverla.

Fritturina di pesce, le consuete commissioni, il noleggio di un recente film con Tom Cruise che ormai piace alle mamme settantenni più di quanto possa piacere a qualsiasi altro target group. Arrivati a casa, con aria distratta prendo la raccomandata dell’amministratore che mia madre mi ha tenuto da parte. Dentro c’è il verbale dell’ultima assemblea e i soliti consuntivi e preventivi delle solite spese condominiali. Ci pensi tu, mi dice. Ci penso io, le dico.

Poi, mentre scorrono i titoli di testa del film con Tom Cruise, mi cade l’occhio su un’anomalia. Gli altri condomini pagano cifre più basse, noi abbiamo, come dire… una cifra in più. Quella delle migliaia. Guardo meglio. 6807 euro. Virgola 80. SEIMILAOTTOCENTOSETTE. Tom Cruise con la pettinatura a banana, Tom Cruise con l’occhio di vetro. Tom Cruise che urla “Siegheil!” con la mano a moncherino. Su tutte queste immagini io vedo solo un’unica grande cifra a caratteri cubitali che lampeggia sullo schermo. SEIMILAOTTOCENTOSETTE.

Com’è possibile, mi chiedo mentre torno a casa. Come cazzo è possibile. Meno male che non l’ha vista lei, altrimenti andava in paranoia. Mille ipotesi si affacciano mentre sfreccio malamente in mezzo ai devastati della notte, ma solo una è quella giusta. Devo essermi semplicemente DIMENTICATO di pagare le spese condominiali. Ma per quanto? Due anni? E perché nessuno mi ha detto nulla? Si tratta di una prova, vogliono vedere quanto reggo sotto pressione. Non può essere che questo.

Una domenica passata a fare conti, a scartabellare documenti, bonifici, buste di plastica. Ed è proprio così. Come pensavo. Il 2007 e il 2008 semplicemente non esistono nel dossier “Condominio S. Adele”. Non ci sono mai stati. E il lunedì mattina, quando l’ansia e l’insonnia hanno fatto ampiamente il loro lavoro, la telefonata all’amministratore finalmente risolve. Ah, giusto lei, dice. Lo sa che l’ultimo bonifico l’abbiamo ricevuto a inizio 2007? Poi però non avete più dato vostre notizie. Neanche voi però, pigolo io a mia discolpa. Ma non c’è giustificazione che tenga. Le spese di condominio dovevano essere sotto controllo.

Vorrei, cazzo se lo vorrei, vivere in un mondo deve le spese di condominio, le tasse, le assicurazioni fossero concetti nemmeno lontanamente contemplati. Ma non è così. E un mondo caotico va controllato. Va ridotto ai minimi comuni denominatori. Va schematizzato. E possibilmente va predetto.

Fortunatamente, la mia analisi della predicibilità del comportamento dell’amministratore non è corretta. Accetta anche comodi pagamenti rateali.
L’importante, dice, è sapere che l’intenzione di pagare c’è.
E il caos ritorna a nascondersi, almeno per qualche altro giorno.

ZIO BONINO AIR

Stanza buia impersonale. Entra la tipa. “Eccone un altro che non si toglie i boxer“. Cazzo vuole, penso. “Come gliela faccio l’ecografia ai testicoli se non si toglie i boxer?”. Nell’ombra, a destra del letto, un gruppetto di persone ridacchia. Ma che cazzo, penso. Intanto la tipa mi ha già tolto i boxer e mi ha spalmato una roba freddissima sulle palle. “Ecco vede nello schermo? Va tutto bene”. Da un monitor grigio fa capolino il mio testicolo sinistro. Quello più grosso. Sembra un vecchietto curvo su sé stesso. Sorride. Fa ciao con l’epididimo. Quelli nell’ombra escono, sono amici. Dobbiamo andare. Se va tutto bene, è inutile restare.

Nel parco fa caldo, ma si trovano facilmente zone d’ombra. Zio Bonino è tutto vestito di lino chiaro. Tinta corda, tinta sabbia, una roba così. Non parla molto, ma è pieno di attenzioni. Ad esempio nota subito che i miei Levis hanno ancora l’etichetta sul retro. Me la stacca (i Levis hanno sempre etichette enormi) e la getta verso un gruppo di bambini. Non facciamo in tempo ad arrivare alla panchina sulla scogliera che mi ha rivelato di essere in realtà Nicolas Godin degli Air. Io mi affanno a dirgli quanto Moon Safari, insieme a Mezzanine dei Massive Attack sia stato per me l’album chiave dei secondi anni ’90.

Zio Bonino inclina la testa e mi sorride compiaciuto. Ci alziamo per tornare al parco. Dopo pochi passi ho una folgorazione. “Cazzo, ma tu… tu hai certamente toccato Sofia Coppola!“. Lui sorride ancora, e i suoi occhi brillano. L’ha toccata. E chiunque abbia toccato Sofia Coppola deve essere trattato come una reliquia. Distolgo lo sguardo da lui, resto a un passo di distanza. I bambini di prima giocano attorno a un cassonetto, alzano lo sguardo. Hanno tutti la faccia di Zio Bonino. Come to Zio. Non importa. Chiamo tutti a raccolta “Ehi ragazzi! Lui ha toccato Sofia Coppola!”. La gente arriva di corsa. Dopo pochi minuti di Zio Bonino non rimane più nulla.

La sera, tutti in un auditorium molto elegante. Luci soffuse. Alle pareti, touch screen per giocare a Biotronic mentre si attende lo spettacolo. Stranamente, vinco e passo di livello dieci, dodici volte. Poi ci sediamo. Io in prima fila, spostato verso sinistra. Gli amici di fianco a me. Solo che non c’è nessuno spettacolo. L’auditorium è in realtà qualcosa tipo un aula universitaria. Ad ognuno di noi vengono assegnati dei progetti di ricerca. Il mio è su Timo Maas. Da svolgere in collaborazione con la tipa della quarta fila. Mi giro. Mi sorride. Mi mostra una sonda a scansione lineare per ecografie.

Mi sveglio grugnendo.
È un nuovo giorno.