Ripetiamo insieme: Torino è una città a vocazione turistica. Questa della "vocazione" è una di quelle temibili espressioni tipiche dell’untissimo gergo del mondo aziendale cui ormai tutti tentano disperatamente di adeguarsi. Un po’ come "creare sinergia", "valore aggiunto", "bagaglio di competenze", "valorizzazione delle caratteristiche individuali", "obbiettivo sfidante" e mille altre cazzate che servono solo a riempirsi la bocca d’aria invece di vivere. Comunque dobbiamo tutti ripetere insieme che Torino è una città a "vocazione turistica" (cerchiamo comunque di far sentire le virgolette). Che poi vuol banalmente dire che di posti da vedere ce n’è, che si può fare turismo culturale, shopping, turismo enogastronomico, e tra un po’ anche turismo sportivo (brrr!). Questo comporta anche, però, che si materializzino gruppi vacanze anziani come quello che ho appena avuto la fortuna di abbandonare sull’Eurostar preso a Genova per tornare a Torino dopo un’inutile riunione di lavoro. Sono almeno una quindicina. Uomini e donne, sopra i 65 anni. Il mondo, ovviamente, è loro. Occupano i posti prenotati da me e dai miei colleghi. Quando arriviamo e li guardiamo senza dir nulla, alzando sabaudamente un sopracciglio, esclamano che "tanto di posti ce ne stanno finché si vuole, che ci mettessimo dove volevamo, che a loro non importava dei numeri delle prenotazioni, l’importante è stare allegri". Va bene. Poi noto che hanno tutti un dépliant che li invita ad un fantasmagorico "Weekend a Torino 2005". Mi insospettisco quando sento uno di loro proclamare a gran voce che la loro prima escursione sarà questa sera al parco del Valentino. La mia buddhità mi imponeva di alzarmi e suggerirgli che forse non era il caso di passeggiare la sera al Valentino, ma poi ho alzato gli occhi e ho visto i soggetti. Cloni di Funari e della Sora Lella, imponenti o segaligni, comunque pronti a dire frasi tipo "Io sono razzista, mica me ne vergogno! I negri proprio non li sopporto", o "Dobbiamo togliere i crocifissi dalle scuole e poi gli dobbiamo costruire le moschee", o "Ma se mia figlia mi portasse un negro a casa io li caccio tutti e due (riferito ad una estemporanea visione di Indovina chi viene a cena che nel lontano 1968 cercava di far passare un po’ di tolleranza nelle cementizie menti della maggioranza silenziosa). Il tutto condito da continue risate a 105 decibel, le risate di chi sa che è il padrone del mondo, di chi sa che il loro è il pensiero dominante e che nulla e nessuno potrà schiodarli, e che quando saranno morti il mondo continuerà comunque a portare avanti la loro linea di pensiero. Allora, ho pensato, spero proprio che passino una bella serata al Valentino. Spero che quando faccia buio, qualche negro vagabondo armato di proverbiale spinello provi a violentare le loro donne e a rubargli i sudati soldi della pensione. Buone vacanze a Torino.
ROBOTS, THE INCREDIBLEMACHINE
L’animazione mi appassiona di per sé, quindi salvo rare eccezioni (tipo quando non mi piacciono i disegni o trovo insulsa la storia) guardo tutta la produzione che riesco a seguire. Perciò ho recuperato Robots in DVD. Il film di Wedge e Saldanha (già autori de L’era glaciale che è un cult se non altro per il personaggio dello scoiattolino Scrat) ha superato ogni aspettativa. Se sorvoliamo infatti sulla pessima, immonda e delirante idea di affidare il doppiaggio del protagonista Rodney Copperbottom a DJ Francesco (!!!!!!!!!!!!), il film si sviluppa come una classica commedia americana "adulta" (Frank Capra revisited, grazie alla sceneggiatura degli espertissimi Lowell Ganz e Babaloo Mandell). Le trovate del film sono decisamente gustose: Rodney nasce come un "assemblato", cresce con "pezzi di crescita" passati da zie e cugini più grandi (chi non è incappato nei vestiti smessi dei parenti?), si appassiona alla meccanica e diventa inventore. Decide di andare nella big city, dove gli inventori vengono ricevuti da Bigweld, il capo dell’industria "buona" che realizza pezzi di ricambio e oggetti che "migliorano la vita dei robot", ma trova solo Ratchet, l’uomo nuovo, il manager rampante e viscido che ha deciso di produrre solo costosissimi nuovi componenti e di fermare la produzione dei pezzi di ricambio. Ovviamente Rodney si oppone a questa situazione, e con l’aiuto di amici rugginosi come lui ritrova Bigweld, salva la città, e bla bla bla. Non è la prevedibilità della storia che interessa. Piuttosto l’inserimento nel corso degli eventi di personaggi così schifosamente reali come i neocapitalisti liberisti in collusione con le forze che tramano "underground" (geniale l’uso della musica di Tom Waits nelle scene della fonderia). Il resto è "eye candy" (ormai mi piace usare questa espressione) con scene complicatissime degne di The Incredible Machine (un videogame che giocavo a manetta all’inizio degli anni ’90 – qualcuno lo ricorda?) e un production design incredibile che unisce Metropolis, Brazil, Blade Runner e le linee di design anni ’50 – tutti i robot infatti hanno l’aspetto di frullatori, frigoriferi, lavapiatti, aspirapolveri, juke box e apparecchi vari che sembrano appena usciti da American Graffiti. Secondo me, il miglior cartoon della stagione 2004/2005.
RADIO TORINO POPOLARE CHIUDE
Scorrendo tra i blog, mi pare un dovere morale segnalare questo bellissimo (e lungo) post di Suzuki sulla chiusura di RTP. Per tutti quelli che sono in lutto radiofonico dal 1998 (anno in cui ha chiuso la "vera" Radio Flash) la storia si ripete. Lo sguardo "dall’interno" alla base del discorso di Enrico è illuminante.
