NO-TAV E QUALUNQUISMO

Di solito non mi impegolo in discussioni sociali o politiche sul blog, dato che rischio sempre e comunque di cadere nel qualunquismo: preferisco scrivere cazzate o cose su cui so di avere una certa competenza. Resta il fatto che, di fronte alle immagini trasmesse dai notiziari di ieri sera, l’impressione è quella di essere tornati ai tempi di Bolzaneto. Con la variante che stavolta hanno legnato anziani, donne e ragazzi, così. Perché intralciavano il progresso. Ovviamente parlo dei No-TAV della val di Susa. Un posto a pochi chilometri da qua che ha assunto nel giro di pochi giorni rilevanza nazionale. Premetto che non ho alcuna competenza in materia di TAV o no-TAV, e che in linea di massima penso che l’alta velocità sia un fatto positivo a patto che sia fatta con criterio (e sono d’accordo con i manifestanti sul fatto che c’è poca chiarezza e poco "criterio" sul tipo di lavoro da fare). Però gli sbirri e chi li ha mandati (di notte, per radere al suolo gli accampamenti dei manifestanti) non hanno fatto che un enorme autogol. Il fascismo si scopre con evidenza selvaggia, e i no-TAV diventano i nuovi partigiani della resistenza ambientalista. Tutto questo quando basterebbe il dialogo, la comunicazione. Basterebbe un pool di esperti (non portatori di interesse) che facesse un po’ di chiarezza. Da un lato ci sono quelli che per partito preso si oppongono, dall’altro quelli che "il lavoro si fa e basta". Due posizioni per me ugualmente deliranti. I manganelli però non fanno che alzare il livello dello scontro. Non mi stupirei se prima o poi ci scappasse il fattaccio. Attaccare manifestanti pacifici è inaccettabile, per qualunque cosa stiano manifestando. E questa cosa non deve passare.

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UNA SCHEGGIA ANNI ‘80 IN CITTA’

Da almeno tre anni i torinesi sentono l’alito delle olimpiadi invernali sulla nuca. Da qui la fioritura di pubblicazioni a volte improbabili e spesso poco distinguibili le une dalle altre, in vendita o in distribuzione gratuita. Tutte fanno a gara nel segnalare i locali più trendy, i caffé più storici, i ristoranti più prestigiosi, gli alberghi più accoglienti, le pasticcerie più golose, i mercati più frequentati, i negozi di alimentari più esclusivi. Ho notato però che nessuna di queste pubblicazioni cita uno dei luoghi più interessanti della città. Mi riferisco al BurgerTime, lo storico locale di via Amendola 6. Il BurgerTime è attivo (mi pare) dal 1984 – piena epoca "Drive-In", paninari, etc. In tempi non sospetti in cui non si parlava ancora di globalizzazione selvaggia, il BurgerTime proponeva alla sua clientela i suoi sublimi hamburger, i deliziosi hot dog e le patatine fritte diverse da tutte le altre. Messo più recentemente in ombra dal colosso americano McDonald, il BurgerTime non ha chiuso. Continua a fare i panini più buoni di Torino per studenti che tagliano, tamarri che fanno le vasche in via Roma, impiegati che fanno la pausa pranzo e nostalgici trentenni-e-qualcosa che divorano il contenuto dei loro vassoietti ripensando a Tinì Cansino, ai Duran di Wild Boys e alle sfitinzie da cuccare. Il padrone del BurgerTime è lo stesso dal 1984, e – cosa ancora più sconvolgente – anche gli addetti alla cucina sono gli stessi dal 1984. Insomma, uno spuntino al BurgerTime di via Amendola ti fa rivivere più di vent’anni di storia. E scusate se è poco.

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PATRIMONI GENETICI E RISTORAZIONE

E’ difficile anche per me, che sono il loro discendente diretto, capire l’atteggiamento di mio padre e mia nonna sui pasti al ristorante. Credo che i geni "Izzo" si diluiscano di generazione in generazione, e dove mia nonna presenta il 100% del patrimonio genetico, e mio padre il 70%, io – in decrescita esponenziale – ne conservo il 10%. In ogni caso, il fatto è questo. Il ramo di mio padre considera il pasto un’incombenza da sbrigare nel più breve tempo possibile. Non che non abbiano la passione per il buon cibo. Semplicemente, l’idea è che ci si debba ingozzare senza pause restando seduti in un locale al massimo un quarto d’ora, dal momento dell’ordinazione a quello della presentazione del conto. Questo spiega perché la categoria dei camerieri nella ridente città di Ivrea tende ad evitare come la peste di servire ad un tavolo dove sia presente mio padre o – peggio ancora – mia nonna. Situazione tipo. Alle 19.30 si entra nel locale (per mia nonna iniziare la cena dopo quell’ora è semplicemente inconcepibile). Alle 19.31 mio padre, che già in macchina ha concertato con lei cosa ordinare, senza nemmeno sedersi rincorre un cameriere, lo placca e fa l’ordinazione per tutti. Alle 19.40, nell’infausto caso in cui i piatti non siano ancora stati serviti, mia nonna comincia a scalpitare mentre il resto della famiglia chiacchiera. "Ma che hanno? Ma perché sono così lenti?" e – rivolta a mio padre – "Vedi un po’ di sollecitare". La reazione dei camerieri al "sollecito" di mio padre (che in media si alza dalla sedia tre o quattro volte a pasto per questo motivo) può essere di due tipi: smorfia di fastidio e conseguente indifferenza (o peggio ritardo insistito) oppure risposta ironica del tipo "Ma la pietanza la preferisce cotta o cruda?"… Quando finalmente arriva il piatto, loro lo consumano velocemente, senza parlare. La nonna aggiunge, se è il caso, qualche battuta nei confronti dei commensali del tipo "Ma parli o mangi? Quando si mangia non si parla!". La cena prosegue intervallata da altre battute del tipo "Qui è tutto buono, ma di sicuro il servizio lascia a desiderare: sono lenti, lenti, lenti…" e da altre sortite di mio padre che io, concentrandomi sul piatto, tento di ignorare. Alle 20.30 mia nonna finisce e mentre gli altri stanno sorseggiando il caffé lei è già impellicciata vicino alla porta. Mio padre, a sua volta, è già andato a saldare il conto. Ci si potrebbe chiedere se non sia meglio consumare i pasti in casa. Di certo è una possibilità. Il problema è che in casa la nonna ha il controllo totale della cucina. Il che vuol dire che effettivamente ci si mette al massimo 10 minuti a mangiare tutto, dagli antipasti al caffé. E la cosa può creare qualche problema di congestione a chi non ci è abituato…

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