Io ho un debole per le comedian americane plus size, come Melissa McCarthy, Rebel Wilson, Octavia Spencer, Mindy Kaling, Beanie Feldstein e ovviamente Amy Schumer.
Schumer – che ha un suo show su Comedy Central ma non è stata mai un gran che valorizzata al cinema – si è prodotta con la Happy Madison di Adam Sandler questo Kinda Pregnant che è la classica, simpatica romcom da Netflix, con in più l’ingrediente dissacrante del corpo comico e della parlantina di Amy Schumer stessa e di alcune sue colleghe molto interessanti.
Il concept è: Lainy, gelosa della gravidanza della sua migliore amica Kate, decide “per caso” di mettersi una pancia finta e spacciarsi per incinta pure lei. Incontra Megan a un corso di yoga in gravidanza (il corso si chiama “Mamaste”) e fanno amicizia. Seguono diverse gag e la classica infilata di equivoci mentre Lainy si innamora del fratello (Will Forte) della sua nuova “compagna di gravidanza”.
La commedia intrattiene e scivola via bene, niente di che, c’è anche un Damon Wayans sottoutilizzato (è il fidanzato di Lainy all’inizio del film: lei crede che lui voglia proporle di sposarsi, lui invece vuole proporle una cosa a tre). La cosa più divertente è che Lainy lavora come insegnante a scuola, e il suo rapporto con i ragazzini e con le colleghe sboccate, fumatrici o semplicemente sciroccate (Urzilla Carlson e Lizzie Broadway su tutte) è la cosa migliore del film.
Nickel Boys di RaMell Ross, tratto dal romanzo omonimo di Colson Whitehead, è sicuramente uno dei migliori film candidati all’Academy Award quest’anno, ma è anche uno dei più “difficili”. Mi spiego subito: il film è uno di quelli che reinterpreta il materiale di partenza (il romanzo, che a me aveva fatto una certa impressione nel 2020) e tenta di creare un testo fedele ma al tempo stesso diverso (un po’ come ha fatto Jonathan Glazer con La zona di interesse di Martin Amis).
La reinterpretazione di Ross passa attraverso una scelta registica che a molti – a me per primo – appare un po’ indigesta. Quasi tutte le 2 ore e 20 del film sono viste in soggettiva. Questo vuol dire che non vediamo quasi mai in viso gli attori protagonisti. In particolare, per tutta la prima metà del film, vediamo il giovane Elwood per alcuni fugaci secondi riflesso sul finestrino di un autobus, nel metallo di un ferro da stiro usato dalla nonna, nelle foto scattate con la fidanzata in uno di quei box per fototessera.
Elwood è lo sguardo del film, noi siamo Elwood, ma – in assenza del volto dell’attore – i neuroni specchio non si attivano e risulta molto difficile l’identificazione. Non che Ross punti a questo, sia chiaro. Il romanzo di Whitehead è in terza persona e racconta molte cose che – secondo la scelta di Ross – qui sono relegate al fuori campo, intuite e non viste.
Elwood, studente modello, viene pizzicato per un caso (ha accettato un passaggio dal ladro) in una macchina rubata e finisce nel tristemente famoso riformatorio Nickel Academy, dove ai bianchi sono permesse molte cose e i neri vengono sfruttati per un giro di boxe amatoriale e scommesse clandestine, spesso picchiati a morte e sepolti nel prato antistante.
Alla Nickel, Elwood conosce Turner e ben presto la cinepresa assume il punto di vista di Turner, un ragazzo più smaliziato, e a volte la stessa scena viene rivista due volte, dal punto di vista di Elwood e da quello di Turner. Il tutto è condito da spezzoni d’archivio che ci raccontano la condizione afroamericana negli anni ’60 di Selma e del Dr. King (bellissimo quello del film The Defiant Ones con Sidney Poitier durante l’arresto di Elwood) e da flash forward sulla vita di Elwood 40 anni dopo i fatti, che se non sono anche quelli in soggettiva, poco ci manca (la camera è montata dietro le spalle dell’attore in modo che si veda sempre solo la sua testa da dietro).
In Nickel Boys c’è la storia di una profonda amicizia maschile, c’è il coming of age e c’è un colpo di scena che non ricordavo (ma è così anche nel romanzo) che ribalta alcune convinzioni sul finale. Va detto però che è un film da seguire con molta attenzione perché il rischio della deriva formalistica è sempre in agguato, e se non amate il trucco della soggettiva perenne o inquadrature di diversi secondi su dettagli sfocati mentre tutto intorno la gente parla, non è il film per voi.
Di Jean-François Laguionie avevo visto anni fa Louise en hiver, e non sapevo che fosse un pilastro dell’animazione franco-belga. L’ho scoperto andando a vedere Slocum et moi, il suo ultimo film in concorso ad Annecy 2024. Disegni a carboncino e acquerello delicatissimi per la storia di un ragazzo che cresce in un villaggio sulla Marne nell’immediato dopoguerra.
François si muove tra casa e scuola osservando tutto e tutti dal suo punto di vista, e in particolare i suoi genitori Geneviève e Pierre detto dagli amici Slocum, per la sua passione giovanile per le avventure di Joshua Slocum, il primo a fare un giro del mondo in vela in solitaria a fine ottocento.
Pierre – che peraltro non è nemmeno il padre biologico di François – decide di costruire nel suo giardino una replica della barca di Slocum e passa ogni sua giornata immerso in questo progetto con la complicità della moglie e in seconda battuta anche del figlio con il quale ancora si stanno “misurando” a vicenda.
François vive le sue estati con la fidanzatina, con la quale scappa di nascosto fingendo di andare in vacanza con un amico, e tenta di decifrare le difficili dinamiche familiari mentre il film è inframmezzato da scene di navigazione di Joshua Slocum tratte dal suo diario di bordo.
Slocum et moi è un film che si avvicina al primo Truffaut, con un character design che deforma i tratti dei personaggi (specialmente femminili) in un modo un po’ alla Modigliani, e che se lo trovate ancora in sala suggerisco di vedere… cercatelo in giro.
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