UOMINI LUPO TOSSICI IN OREGON

Un bel tentativo che però gira un po’ a vuoto il Wolf Man di Leigh Whannell, che dopo L’uomo invisibile forse vuole provare a riesumare per gli anni ’20 tutti gli Universal Monsters del secolo precedente. Intanto è uno di quei film che sembrano due film diversi in uno. Il che non sarebbe un male se poi li cuci bene insieme. Wolf Man comincia con un flashback e racconta di un rapporto vagamente abusivo tra un padre e un figlio nelle sperdute foreste dell’Oregon. Si capisce che c’è una “bestia” e si capisce anche che la lupomannarità sarà con ogni evidenza la metafora della mascolinità tossica

Questa cosa pian piano poi nel film sparisce, perché dal momento in cui vediamo Blake (Christopher Abbott) – il bambino dell’inizio ormai adulto – alle prese con moglie e figlia nel più classico dei triangoli familiari un po’ esasperanti e capiamo che si sta per tornare in Oregon dalla civilizzata New York City è evidente che le regole del genere prendono il sopravvento rendendo Wolf Man un film non solo convenzionale e prevedibile, per quanto ben costruito, ma anche un po’ fuori fuoco rispetto alle premesse iniziali.

Si presenta un misterioso vicino di casa (figlio dell’amico del padre apparentemente morto di Blake) ma lo si fa fuori praticamente subito. Si rimane con l’allegra famigliola ma con Blake che è stato graffiato dalla Creatura e quindi è destinato a trasformarsi di fronte a moglie e figlia (liberando la sua mascolinità tossica? No, combattendo contro l’altro lupo mannaro per proteggere la famiglia). 

Insomma, moglie e figlia sono insidiate prima dall’altro lupo (indovinate chi è), poi da Blake stesso e alla fine si salvano come nel più classico dei film di lupi mannari, non serve nemmeno la pallottola d’argento, guarda. In tutto ciò gli effetti prostetici (la trasformazione) e quelli digitali (il lavoro sulla fotografia e sul sonoro che ci vuole mettere nei panni del lupo) sono più che accettabili, anche se arrivano solo nell’ultima parte del film

Inoltre, resta il fatto che Whannell è molto bravo a creare le scene di suspence e a montare i suoi jumpscare (anche perché è sempre tutto buio, gli piace vincere facile). Però, insomma. Non è che rimpiangi le due ore del tuo tempo, ma non lo rivedrei. Preferisco John Landis.

UN FILM DI MINECRAFT

Mah bah boh. Va detto che sono stato tirato un po’ per i capelli a vedere A Minecraft Movie, ma ci sono andato volentieri per vedere Jack Black e Jason Momoa fare gli scemi per un paio d’ore. Se l’obiettivo è quello, cioè vedere le faccette buffe e sentire le voci assurde (ci torno) si tratta di un film godibilissimo. Se si va con l’intento di vedere un film almeno sensato… beh, no. Ma era una missione impossibile fin dall’inizio, come fai a fare un film su Minecraft, il gioco-sandbox per eccellenza? Non puoi. Infatti questo è “un film” Minecraft (sottinteso: potrebbero essercene molti altri e potrebbero essere anche peggio).

Jared Hess (uno che io amo dai tempi di Napoleon Dynamite) dirige lasciando campo libero ai suoi attori e agli effetti speciali. La cosa è tanto più evidente se provate a (ahem) scaricare una copia pirata del film per ascoltare gli attori in originale. Capite, nel doppiaggio italiano troviamo Mara Maionchi e Lazza, mentre un film così urge vederlo in lingua. 

On line si trova solo una versione di lavorazione con la CGI non terminata e lì l’effetto di straniamento è assurdo. Vedere Jack Black scalmanato sull’evidenza di un green screen dà conto di tutta la pochezza dell’operazione commerciale.

Comunque, tra un meme e l’altro il film scorre via, ci sono altri tre personaggi principali (due ragazzi orfani e la loro agente immobiliare) che non riescono in nessun modo a rubare la scena a Steve (Black) e The Garbage Man (Momoa) ma soprattutto c’è una storyline parallela assolutamente inutile e – temo – inserita solo per avere un po’ di minutaggio in più che però prevede la presenza di Jennifer Coolidge, e qui siamo ai livelli di Jack Black, non si discute.

Per il resto, boh, vedetelo se un ragazzino vi ci trascina, non morite di noia quantomeno.

COMPANION: LA ROMCOM CON UN TWIST

Companion di Drew Hancock è un film onesto. Fondamentalmente un episodio lunghetto di Black Mirror, ma onesto. C’è un po’ di sangue, un po’ di mistero, un po’ di LOL (molto LOL a mio avviso) un po’ di distopia, un po’ di critica sociale ma senza esagerare che non siamo pesantoni, ed è in fondo un buon film di intrattenimento. 

Per i primi 15-20 minuti Companion fa finta di venderti la classica commedia romantica (primo LOL: nella locandina la brava Sophie Thatcher, già vista in Heretic, ha gli occhi della morte quindi è chiaro che non ci troviamo di fronte a una romcom). Anzi, è tutto spoilerato già nel trailer.

Dopo, quando viene rivelato che Iris, la protagonista femminile, è in realtà un sofisticatissimo robot da compagnia – loro lo chiamano proprio fuck-robot – comandato da un’app sul cellulare di Josh (Jack Quaid, figlio di e già visto in The Boys) tutto comincia a prendere velocità. Il film si trasforma in un “thriller” tecnologico in cui Josh fa perfettamente la parte dello stronzo manipolatore e maschilista (interessante la parte in cui si scopre il “livello di intelligenza” che assegna ad Iris). 

Companion è abbastanza prevedibile da poterlo guardare mentre stiri le camicie ma anche abbastanza divertente da poggiare un po’ il ferro e dargli una chance. C’è poco da spoilerare ma eviterò, dicendo soltanto che Iris è al centro di un piano diabolico ordito da Josh per accaparrarsi tanti dollaroni, ma ovviamente tutto andrà in vacca.

Alle volte Companion si compiace di essere un film più furbo di quello che in realtà non è, e ci sono diversi punti in cui si sente la voglia di fare il commento sociale però a livello terra terra: alla fine diventa Barbie meets Terminator e la sospensione dell’incredulità va un po’ a farsi friggere. Però è divertente.