IL 2021 IN 15 LIBRI

Dai, partiamo con i listoni di fine anno che tanto solleticano e placano quello spirto catalogator ch’entro mi rugge. Che poi peraltro il tempo è poco e non sono nemmeno riuscito ancora a leggere uno di quei libri che mi prefiggevo di leggere nell’anno e che invece non ho nemmeno ancora iniziato che è Crossroads di Jonathan Franzen (che secondo me stava sicuro nella top ten ma non avendolo ancora letto per onestà non ce lo metto). Allora vado eh. Mescolo come sempre romanzi, racconti, saggi e graphic novel e soprattutto magari parlo di libri che non sono veramente usciti quest’anno ma che io ho scoperto solo quest’anno, perché ci arrivo tardi ma ci arrivo.

1. Pelle d’uomo (Hubert / Zanzim)

Per me, il miglior libro che ho letto quest’anno. Graphic novel francese ricco di soluzioni visive interessanti per un fabliaux medievale intelligente e sorprendente sull’identità di genere e le tematiche ad esso legate.

2. Ragazza, donna, altro (Bernardine Evaristo)

Una scoperta sorprendente (ma volevo leggerlo da mesi, è del 2020). Storie intrecciate di donne di colore di ogni genere, età e classe sociale nella Londra di ieri e di oggi. Capitoli a incastro, scrittura sincopata, tematiche attualissime.

3. Diventare uomini (Lorenzo Gasparrini)

Quando ho scoperto che esisteva Gasparrini ho capito che non ero il solo maschio etero cis a interessarmi di questioni di genere e l’ho divorato (i libri, intendo, non lui). Questo è quello che ho amato di più (nuova edizione 2020).

4. Yoga (Emanuel Carrère)

Carrère si conferma uno dei miei scrittori preferiti in questa autofiction a tema meditazione / yoga / vipassana intrecciata con i fatti di Charlie Hebdo e la vita folle e schizofrenica che ha condotto negli ultimi anni.

5. Piranesi (Susanna Clarke)

Il romanzo che ho atteso di più negli ultimi 20 anni è Piranesi. Misterioso e intossicante a partire già dai primi capitoli spezzati e afasici. Ci sono architetture impossibili, menti spezzate, indizi e verità nascoste. Un romanzo rompicapo che si svela solo alla fine.

6. Prima persona singolare (Murakami Haruki)

L’ultima raccolta di racconti del mio amato Murakami, magari non eccezionale ma un’ottima compagnia per i momenti di solitudine. Contiene classici istantanei come la scimmia che parla e beve birra Sapporo e lo scherzone del disco mai uscito di bossa nova di Charlie Parker.

6. La città dei vivi (Nicola Lagioia)

Libro pesissimo dell’anno scorso che ho deciso di affrontare solo quest’anno a proposito dell’omicidio di Luca Varani da parte di Manuel Foffo e Marco Prato. C’è anche un podcast, ma non lo ascolterò. Ho amato il libro ma ho fatto fatica a finirlo.

7. C’era una volta a Hollywood (Quentin Tarantino)

La novelization del film di Tarantino a cura… dello stesso Tarantino. Ci sono alcune cose in più e alcune cose diverse rispetto al film, ma è una valida lettura per reimmergersi in quel clima e quelle atmosfere.

8.Tu sei il più bel colore del mondo (Golo Zhao)

Graphic novel dell’autore cinese che preferisco, in bilico tra poesia adolescenziale e romanzo di formazione con aspetti sociali che parte dalla Cina contemporanea per approdare all’universale. Un ottimo manhua (il manga cinese).

10. Il silenzio (Don De Lillo)

L’apocalisse secondo De Lillo: tutta la tecnologia del mondo, un bel giorno… si spegne. Il mondo diventa improvvisamente molto delilliano! Sullo sfondo, si agitano i personaggi umani.

11. D Una storia di due mondi (Michel Faber)

Un fantasy inaspettato dall’autore di Il Petalo cremisi e il bianco, a metà tra Narnia, Oz e Gianni Rodari, adatto a bambini e adulti che vogliano approfondire il tema dei migranti e il potere del linguaggio.

12. Figure (Riccardo Falcinelli)

Falcinelli è autore di oggetti-libro piacevolissimi, e questo non fa eccezione. Qui smonta tutti i meccanismi della comunicazione visiva per farci capire come funzionano le immagini, dal rinascimento a Instagram, come promette il sottotitolo.

13. Femminili singolari (Vera Gheno)

Uno dei testi più discussi di quest’anno, un trattato leggero ma puntuale sul rapporto tra lingua e realtà, e su come il sessismo reale si rifletta pienamente nel sessismo linguistico. Garantito come spunto di litigi e flame infiniti a botte di “non si può più dire niente”.

14. In. (Will McPhall)

Un graphic novel perfetto per i tempi di pandemia: un fumettista con problemi di comunicazione deve imparare a riconnettersi con le persone. Tragicommedia con uno stile asciutto e molto pungente.

15. Niente di nuovo sul fronte di Rebibbia (Zerocalcare)

Vabbè, dopo la serie TV non si poteva prescindere dal libro, che è una raccolta delle ultime storie già edite in giro ma soprattutto di un interessante e inedito backstage della serie stessa.

Menzione speciale per Alla ricerca del tempo perduto di un tale Marcel Proust, che nei primi mesi dell’anno ho macinato come un pazzo per via di una challenge che poi si è arenata sui Guermantes (perché a 50 anni, ancora non ce la posso fare a leggere tutta la Recherche).

 

TUTTI I FREAKS DI NOVEMBRE

Questo è il mese delle liste di fine anno quindi affrettiamoci a smazzare la raccolta delle rece di novembre che bisogna fare spazio. C’è il kolossal italiano, l’action più atteso dell’anno, il kolossal canadese, il musical che ti stranisce, il classico dei classici e un film strambo che non può mancare mai. Stavolta niente horror, niente #cranisfondati. Curioso. Boh.

DUNE. PART ONE (Denis Villeneuve, 2021)

Vabbè, alla fine ho visto Dune. Part One. Che è poi quello che mi faceva fatica, cioè il fatto che il film di due ore e mezza comunque si interrompe sul più bello. A parte questo, grande successo: mi sono assopito solo tre volte. Dune è per me il romanzo di fantascienza più palloso di tutti i tempi, l’ho iniziato moltissime volte e non sono mai riuscito a procedere per più di una trentina di pagine, proprio non è la mia tazza di tè. Quando ero pischello avevo apprezzato il film di Lynch/DeLaurentiis più che altro perché c’era Sting e perché provenivo da un background ultra-camp essendo fan, per esempio, di Flash Gordon. Non l’ho più rivisto, confesso. Questo Dune, quello che ha è un buon respiro, una buona comprensibilità dell’intrigo, un casting azzeccato (anche se non tutti sono sfruttati al meglio, proprio in termini di screen time, dico) ma soprattutto un visual design da paura. Ecco, per me il motivo principale per vedere Dune sono le astronavi, l’architettura brutalista, l’interior design minimal-cementizio-orientaleggiante. Allora lì si gode veramente. I vermoni? Meh. Timothèe Chalamet? Bravo, ma anche meno. Le increspature delle dune di Arrakis, la ruggine sulle ali dei libellucotteri, le macchie di umidita sui muri di cemento alti otto metri? Ah, quello sì che è puro godimento. Anche se tutte le volte che appaiono le Bene Gesserit a me viene in mente come sempre la marca di un medicinale per la gastrite o quando insistono a dire in continuazione KWISATZ HADERACH a me viene in mente Quizas quizas quizas. #recensioniflash

FREAKS OUT (Gabriele Mainetti, 2021)

Beh, sono successe cose, ho fatto decantare la visione qualche ora, ma la mia su Freaks Out ve la devo dire. Ho cercato di sapere il meno possibile del film prima di vederlo, e l’approccio paga. Ma dovete vederlo. Non esiste un altro film così, né in Italia né tantomeno nel mondo, perché il film di Gabriele Mainetti pur nel suo essere “molto poco italiano” (nel senso di Stanis La Rochelle) è anche “profondamente italiano” (in un senso che dirò dopo). Freaks Out è un film di due ore e mezza circa che sembra sia costato 300 milioni (invece dei 12 e rotti milioni che effettivamente è costato). E già questo lo pone un po’ fuori scala. Poi tenete conto che io l’ho visto da una prima fila girando all’impazzata la testa qua e là perché succedono cose in continuazione. Non puoi mai distrarti, ma… è anche e soprattutto un film di personaggi. Della trama non vi dico molto salvo quello che già si sa: quattro freaks, artisti del circo, attraversano una Roma occupata dai nazisti per cercare il loro capocomico/mentore, cercando di evitare il perfido nazista (freak lui pure) che li cerca per uno scopo oscuro e con l’aiuto di una banda di partigiani storpi. Si comincia con dieci minuti assolutamente burtoniani di presentazione dei quattro protagonisti e dei loro “superpoteri”. Solo immagini e musica. Poi, le bombe, la guerra, il caos. Tu pensi ma che cazzo, si sono giocati la scena migliore prima dei titoli di testa? No, perché Freaks Out è strapieno di scene assurde, mozzafiato, iconiche, che ti rimangono negli occhi e in testa. Azione, avventura, guerra: Mainetti non ha in mente solo Tim Burton e Tod Browning ma ovviamente ambisce ai fasti del giovane Steven Spielberg. E fin qui abbiamo fatto riferimento ai numi tutelari, poi aggiungiamo anche Tarantino (tutti gli spettatori vedono un’assonanza evidente con Bastardi senza gloria) e qualche altra strizzata d’occhio al cinema americano anni ’70-’80, per non parlare di un impianto narrativo che deve molto alla saga degli X-Men (è il lato pop della coppia creativa Mainetti-Guaglianone). Ma a parte che Mainetti non cita mai esplicitamente, piuttosto si imbeve di un certo immaginario che poi ovviamente trasuda dalle inquadrature “rimandando a”, la cosa più stupefacente è l’impasto perfetto con cui mette insieme tutto il cinema italiano alto e basso distillato in un solo film: c’è Fellini (ovviamente, richiamato dal tema del circo e dalle musiche originali), c’è Rossellini, c’è Sergio Leone (e molto altro spaghetti-western), c’è il Monicelli picaresco e c’è tanta commedia all’italiana classica (il tema della fame), c’è il De Sica di Miracolo a Milano, ci sono i film di Bud Spencer e Terence Hill in molte scene di scazzottate. C’è un casting perfetto (occhio per esempio a Mazzotta nel ruolo del capo dei Diavoli Storpi), c’è un lavoro sulla direzione degli attori che si vede tutto. C’è un elemento fantastico talmente intrecciato con quello realistico che tutto (o quasi) è credibile. C’è un villain nazista approfondito, psichedelico, delirante nel suo potere di vedere il futuro del Reich (sue alcune delle scene più belle, come quella della visione del telefonino o i due assoli pianistici su Creep dei Radiohead e Sweet Child O’Mine dei Guns). Mainetti poi non arretra di fronte a nulla. Ci vuoi mettere i freaks che scopano? Mettiamoceli! Ci vuoi mettere scene di violenza estrema e splatter? Ma perché no! E in alcuni momenti Freaks Out non ha nulla da invidiare a un Eli Roth qualsiasi. Un body count come quello di Freaks Out sono pronto a scommettere che non esiste in nessun altro film italiano. Mainetti con i suoi personaggi è tenero e crudele insieme, non fa sconti e chiude come nella migliore tradizione western, con i suoi eroi che si allontanano nel tramonto verso il sole di Roma. Vi assicuro, voi volete vederlo. Lo volete fortissimo. #recensioniflash

THE GREEN KNIGHT (David Lowery, 2021)

L’altra sera ho visto The Green Knight di David Lowery. Ho voluto fortemente vederlo un po’ per il tema arturiano, un po’ perché di Lowery avevo apprezzato molto A Ghost Story (e non sapevo che ci fosse lui dietro il remake di Pete’s Dragon – e del futuro Peter Pan, per dire). Insomma, non sapevo che avesse un lato disneyano. Comunque sia, The Green Knight è un film che mi ha lasciato puzzled. Mi piace questa parola inglese che spesso viene tradotta con “perplesso” ma ha per me una sfumatura precisa: puzzled è quando di fronte ad una certa esperienza ti sembra di avere davanti i pezzi di un puzzle complicato e di non saperli mettere insieme. Ora, The Green Knight è un film visivamente bellissimo, una psichedelia di luci e colori abbinata ad un fabliaux medievale: la storia è quella di Gawain, il più giovane degli accoliti della tavola rotonda che – in un tempo in cui Artù e Ginevra sono già vecchi e stanchi – affronta la sua prova da cavaliere. Sconfigge un misterioso gigante arboreo e promette di ritornare a cercarlo dopo un anno per farsi “ridare il colpo” (cioè farsi decapitare, come lui ha fatto con l’inquetante cavaliere). E dopo un anno infatti Gawain va, affronta un lungo viaggio e diverse peripezie fino ad incontrare il cavaliere verde. Ora, non sto a dirvi come va a finire. Soltanto che in molti punti del film è tutto un grandissimo cosacazzo. Il film è una produzione A24 e in effetti è tutto molto A24, cioè lento, ieratico, estremamente hipster e volutamente esoterico. A ogni minuto ti chiedi se non ci siano almeno cinque significati nascosti dietro ogni inquadratura. Il finale è di quelli che poi devi andare su internet a cercare “Cosa cazzo vuol dire il finale di The Green Knight”. Forse avrei dovuto vederlo con un esperto di ciclo arturiano o di archetipi junghiani o di antichi riti celtici. Comunque bello, ma non ci vivrei. #recensioniflash

CRY MACHO (Clint Eastwood, 2021)

Quando vedo un film recente di Clint Eastwood la prima cosa che faccio appena entra in scena Clint è fare “cringe” con la testa che rientra un po’ tra le spalle, perché a 91 anni questo è l’effetto che mi fa, come anche quando vedo Woody Allen recitare. E devo dire che nei primi cinque minuti di film, anche Cry Macho fa esattamente lo stesso effetto. Poi però, attenzione. Non dico che sia il film più bello girato da Eastwood (ci sono delle robe imbarazzanti qua e là a livello di sceneggiatura o di riprese), ma… Per me è stato il più emozionante dai tempi di Gran Torino. E a livello di commozione siamo quasi pari a I ponti di Madison County. Cry Macho (un film che ha aspettato circa 40 anni per essere realizzato) si svolge nel 1979 e racconta una storia semplice, lineare, diretta. Il capo di Clint (Dwight Yoakam, LOL) chiede a Clint, vecchia quercia di cowboy ex campione di rodeo, di prelevare il figlio tredicenne in Messico e portarlo da lui in Texas, con la motivazione che il ragazzo viene abusato con la complicità della madre che lo vende ai pervertiti di passaggio. Clint va, trova il ragazzo e inizia un road movie splendido, luminoso e ispirato. Ovviamente la strana coppia con circa 80 anni di differenza d’età impara a conoscersi e tra una confessione dolorosa e l’altra, Clint aiuta il ragazzo a diventare un uomo sconfessando il machismo (e quindi un po’ anche tutti i ruoli da cavaliere senza nome che Clint stesso ha spesso interpretato). Ah dimenticavo, il ragazzo si porta dietro il suo gallo da combattimento di nome “Macho” evidente simbolo della mascolinità tossica. “This whole macho thing, you know… it’s overrated”, biascica tra i denti Clint verso la fine del film. E infatti il ragazzo recepisce e matura. In mezzo c’è una parte lirica meravigliosa di amore infinito di Clint per i cavalli e per tanti altri animali: capre, maialini, cani, ma soprattutto cavalli. Le scene in cui Clint insegna al ragazzo ad andare a cavallo: “Look where you’re going and go where you’re looking”… Un western come non ne vedevo da anni: paesaggi, tramonti, cavalli, polvere, messico, nuvole, cavalli, tequila, inseguimenti, sceriffi, cavalli, una sola pistola che non deve nemmeno sparare perché il macho è morto, viva il macho. Con delle frasi e delle immagini che rimarranno con me a lungo. #recensioniflash

NO TIME TO DIE (Cary Fukunaga, 2021)

Due cose: c’è questo articolo che ho beccato in una newsletter che leggo (potrebbe essere Pietro Minto o Vanz, non ricordo bene) che mi ha aperto gli occhi su un sub-genere molto ben circoscritto: il “dad thriller” degli anni ’90 (possiamo tradurlo come il “thriller di papà”, che fa molto Jean Luc Godard). Leggetelo perché è divertente, gustoso, e soprattutto molto vero. Dall’action anni ’80 si passa attraverso il “ponte” di Die Hard al cosiddetto dad thriller, che produce una serie di film con determinate caratteristiche che non sto a dirvi qui. Il dad thriller si esaurisce nei primi anni ’00 con Bourne Identity e Sum of All Fears. In pratica Matt Damon e Ben Affleck riportano in auge l’eroe “classico” ed eccezionale, dopo un decennio di eroi per caso. In questo ragionamento, abbiamo avuto parallelamente prima Pierce Brosnan (a portare avanti un Bond franchise un po’ imbolsito nei ’90) e poi Daniel Craig che invece porta Bond a una complessità e al tempo stesso a una classicità pienamente in linea con la sensibilità del nuovo millennio. Tutto ciò per dire che ho visto oggi le quasi-tre-ore di No Time To Die e malgrado tutto mi sono emozionato come già era accaduto con Skyfall e Spectre (ma del resto anche Casino Royale mi aveva fomentato – per altri motivi). Si capisce che è un film di chiusura, si capisce che hanno voluto metterci dentro tutti gli omaggi possibili e vederlo è un po’ come bere quel bicchiere di scotch con cui i colleghi MI6 brindano a Bond nel finale. Tutto ciò anche per dire che forse, dopo un ventennio in cui l’eroe era tornato “eccezionale” come negli anni ’80 (ma senza tutta quella cazzonaggine), con No Time To Die si apre la porta ad un ricorso storico in cui l’eroe in fondo è anche “solo” un papà. Comunque ho gradito molto tutto e non mi sono assopito mai. #recensioniflash

ANNETTE (Léos Carax, 2021)

Io quando esce un film nuovo di Léos Carax vado in agitazione. Probabilmente è uno dei registi “dei miei vent’anni” che amo di più in assoluto e non mi delude mai. Annette è il suo primo film “americano”, un musical fuori di testa come non ne vedevo dai tempi di Dancer in the Dark di Lars Von Trier (ma non preoccupatevi, potrebbe piacervi molto anche se avete amato La La Land o A Star Is Born). Ma partiamo dalle basi. Annette è un film di Carax, quindi aspettatevi carrellate lunghissime e pazze, overacting stranito e straniante, colori accesissimi, neon, sovrimpressioni surrealiste, un’accozzaglia di simbologie visive che sembrano non avere senso poi il senso affiora dopo che ci hai dormito su e magari lo hai sognato. Annette è un musical di Ron e Russell Mael, meglio noti come gli Sparks, ovvero la band più amata dalle band che amate (per dire: in Italia non li conosce quasi nessuno ma hanno definito lo stile del pop rock dal 1970 a oggi e sono ancora iperattivi). Quindi è propriamente una rock opera, tipo Tommy o Rocky Horror Picture Show, con un’infinità di tracce, temi ricorrenti e soprattutto un’inizio folgorante (Carax in studio con la figlia, gli Sparks che registrano, poi tutti escono dallo studio di registrazione raggiunti dagli attori principali che in una delle solite carrellate all’indietro alla Carax a poco a poco entrano in parte e “diventano” i loro personaggi). Questa cosa dello svelamento della rappresentazione è molto insistita per tutto il film, con quinte teatrali, palcoscenici, spezzoni di finti servizi gossippari in TV, etc. Annette è un film in cui Adam Driver si mangia (quasi) tutto. Se siete fan di Adam Driver lo adorerete (lui è quasi sempre seminudo). Se non siete fan lo diventerete. Credo sia facilmente il miglior film di Adam Driver, personaggio pazzissimo già all’inizio del film che a poco a poco scivola in una spirale di follia e negatività. Perché ovviamente Annette è un film parecchio cupo. Dura 141 minuti e per tutta la prima ora sembra molto allegro. Poi ti ammazza dopo. Ci sono queste scene bellissime di Adam Driver che canta mentre si dedica alla nobile arte del cunnilingus su Marion Cotillard che valgono il prezzo del biglietto (la Cotillard ha detto che siccome Carax li faceva cantare sempre dal vivo è stato difficilissimo performare in certe posizioni). OK, quindi di che parla? Fondamentalmente è una storia di amore tossico, in cui Henry McHenry (uno stand up comedian di successo) e Ann Defrasnoux (cantante d’opera di successo) si amano tantissimo, si fidanzano e fanno una figlia, Annette. Ora, Annette è una bambina… particolare. Non vi voglio svelare nulla ma la scena del parto è una delle più assurde del film, con le ostetriche che cantano e ballano in coro, Adam Driver che suda come un porco, la Cotillard che ride e spinge, spinge e ride. Vabbè. Comunque sia Annette è come è, magari ne parliamo con spoiler nei commenti per chi l’ha visto, e da lì in poi il film diventa un incubo psichedelico, complice il fatto che Ann ha più successo di Henry e questa cosa a Henry non va molto giù. Tra l’altro degno di nota il personaggio dell’Accompagnatore di Ann (Simon Helberg, il mai dimenticato Wolowitz di The Big Bang Theory) che pur avendo meno screen time è veramente una sorta di deus ex machina che porta alla catastrofe finale. Gli ultimi venti minuti di Annette sono abbastanza strazianti (non a livello Lars Von Trier, intendiamoci, ma comunque). Ho difficoltò a non dire che Annette è facilmente uno dei migliori film dell’anno, se non del decennio. O quantomeno il “film più strano/assurdo/particolare” del decennio. Vedetelo perché ne vale la pena, sta in sala ma dovrebbe arrivare su Prime. #recensioniflash

E ANCHE STO HALLOWEEN…

Ebbene, cari lettori, questo mese di ottobre non è che abbia visto poi molti film. Sono stanco, a vedere Dune (o Drive My Car, se è per questo) avevo tanta paura di addormentarmi, le avversità della vita mi spingono a rifugiarmi nel comfort watch (che nel mio caso di solito è un rewatch, per esempio in sti mesi di Seinfeld) e quindi esco poco dal recinto. Esco quando mi pare che valga la pena, oppure quando esce un horror particolarmente in tema, o ancora quando voglio spegnere il cervello guardando una cosa molto trash. A voi capire cosa è cosa nelle recensioniflash che seguono.

OLD (M. Night Shyamalan, 2021)

Stringetevi forte, amici, perché ho visto Old di Sciaiamalan, Sciamalaian, coso insomma. Non volevo, lo giuro. Eppure ogni volta mi fotte così. Perché poi The Visit e Split un po’ mi erano piaciuti, erano cattivi e tutto sommato poco Sciamaialan. Invece Old è parecchio suo. Ma parecchio. Intendiamoci, a chi non è piaciuto Il sesto senso. Il sesto senso è fighissimo. Da lì in poi me ne fosse piaciuto uno (a parte The Visit e Split, che secondo me non erano male checché ne dica un mio carissimo amico che dal 2016 ancora mi odia per averlo portato a vedere il thrillerone pazzo con James McAvoy). Vabbè, comunque, Old. Famiglie clienti di un lussuosissimo resort che vengono portate in una spiaggia esclusivissima, talmente esclusiva che ogni ora che ci passi invecchi di due anni e chiaramente se già sei adulto dopo nemmeno un giorno muori male. I bambini invece crescono e diventano adulti. Lo ammetto, una premessa intrigante, che però va bene per un episodio di Ai confini della realtà o per uno spinoff di Lost. Sciamalama invece allunga il brodo all’inverosimile facendo il gioco della suspence di non inquadrare mai le facce finché badabooom le zampe di gallina della supermodel o i peli sulle braccia del bimbo di sei anni. Un ottimo, ottimo lavoro dei reparti trucco e parrucco, ma come sempre nei film del nostro ineffabile, tutti o quasi (anche quelli bravi, come Thomasin McKenzie o Alex Wolff) recitano da cani maledetti con dei dialoghi che sembrano scritti da Lory Del Santo per The Lady. Il meccanismo della “pistola di Cechov” è spiattellato in faccia quelle sei o sette volte, ogni cosa è superprevedibile, il 90% dei personaggi è imbarazzante ma ci sono dei momenti gustosi, tipo un paio di scene splatterone e soprattutto la gag dei bambini di sei anni che nel giro di cinque ore si sviluppano come sedicenni ed escono da un nascondiglio che lei è incinta e lui dice “Ma no dai mamma, stavamo solo giocando” e dopo mezz’ora lei partorisce. OK, ma a parte questo, lo Sciaiamalian twist c’è? Cerrrrrrto che c’è, è solo praticamente telefonatissimo dal minuto 20 del film. Comunque non vi dico nulla, se non che anche stavolta Sciamacoso ha un ruolo nel film e che è abbastanza importante anche se non sembra. Vabbè. Comunque lo so che si chiama Shyamalan, ma mi fa sempre troppo ridere dire Shama Lama Fa Fa Fa. #recensioniflash

THE VELVET UNDERGROUND (Todd Haynes, 2021)

Il documentario di Todd Haynes sui Velvet lo attendevo da circa 4 anni, da quando cioè era venuto fuori che ci stava lavorando. E ve lo dico subito, è una bomba assoluta. A parte il fatto che è un documentario sulla band che forse è la mia preferita in assoluto di sempre (se la giocano coi Kraftwerk, va bene, ma comunque), è un lavorone immenso, che per tutta la prima ora, per dire, non nomina nemmeno i Velvet, perché si parla dell’infanzia di Lou Reed e John Cale, dei loro percorsi prima di incontrarsi a New York, prima di incappare in Andy Warhol. Poi nella seconda ora di film tutto quello che sappiamo si avvicenda tra Nico e Maureen Tucker, l’Exploding Plastic Inevitable, tra Cale che se ne va e Doug Yule che arriva, tra Sterling Morrison che molla e il Max’s Kansas City e Lou Reed che saluta tutti e avvia la sua carriera solista. Tutti i pezzi che vi immaginate sono lì a vibrare mentre Todd Haynes tira fuori il meglio dal materiale d’archivio a sua disposizione e – forse è inutile dirlo – almeno 45 minuti di film sono spezzoni di film di Andy Warhol, o di Jonas Mekas (intervistato qui poche settimane prima della sua morte, il film è dedicato a lui). C’è molta arte, di Warhol ma anche di Rauschenberg, Rothko, Johns. C’è molta musica sperimentale, John Cage, LaMonte Young, c’è un tenero Jonathan Richman che quindicenne bazzicava i Velvet prima di formare i suoi Modern Lovers, ci sono tutte le superstar della Factory, Gerard Malanga, Mary Woronov, Candy Darling, Mario Montez, Edie Sedgwick. Un documentario densissimo, quasi tutto in split screen, con le voci che parlano sopra filmati d’epoca inediti, immagini mai viste, testimonianze visive di una New York tra il ’66 e il ’70 che è assolutamente emozionante. Soprattutto, non è tanto un film per dire “quanto erano fighi i Velvet Underground” (se lo guardi è perché lo sai già), ma è un film per testimoniare il clima artistico e culturale che ha potuto far emergere i Velvet come fenomeno prima avant-garde, poi di puro marketing warholiano, poi come rock’n’roll band “tradizionale” ma sempre fuori dagli schemi. Spettacolare, insomma, ma non mi aspettavo di meno da Todd Haynes. Verso la fine c’è una foto meravigliosa di qualche anno fa di Lou Reed e Laurie Anderson abbracciati su una panchina a Coney Island (credo). Mi ha colpito molto. #recensioniflash

HALLOWEEN KILLS (David Gordon Green, 2021)

Visti per voi (non è vero, li ho visti per me e poi mi diverto a stressarvi con le mie #recensioniflash): Halloween e Halloween Kills. Tutti e due così d’un fiato, che tanto sono l’uno il seguito diretto dell’altro. Anche se uno è del 2018 e l’altro di adesso. E boh. Io faccio parte del team Rob Zombie, per me esiste il primo Halloween del 1978 e poi gli Halloween di Rob Zombie, sporchi, crudeli, eccessivi come tutto il suo cinema. Questa “nuova interpretazione” di David Gordon Green targata Blumhouse è… corretta, efficace, nel solco della tradizione, ma mi sembra che emozioni poco. Michael Myers è sempre gigantesco, l’attacco del primo film con i malcapitati autori di podcast è azzeccato. Ma il vantaggio di questi Halloween (il fatto di essere “benedetti” da sua maestà Carpenter in persona) è anche il loro limite. Tutto (soprattutto nel nuovo Halloween Kills) è messo in scena per strizzare l’occhio e dare di gomito allo spettatore che ha visto i primi due capitoli (1978 e 1981), ci sono scene che addirittura mirano a riempire buchi di trama dei film originali, la solita retcon sparsa a piene mani, flashback che non si capisce se siano spezzoni dei film originali o meno (questo è un aspetto affascinante a dire il vero). Poi c’è l’aspetto “critica sociale” ultra didascalico della serie “i veri mostri siamo noi” che ho trovato veramente molto cringe. Il tutto è bilanciato da una spinta splatter che normalmente Halloween non ha, con molto più sangue e omicidi più violenti, elaborati e fantasiosi (ma come sempre totalmente casuali, perché a Michael fondamentalmente non gliene frega un cazzo). E infine trovo che questo voler dare una dimensione mistica e uno scopo preciso alle azioni di Michael sia un po’ forzato, comunque vedremo cosa succede con Halloween Ends. Bonus: Jamie Lee Curtis nel suo ruolo iconico di nonna Laurie sembra Patti Smith.

TITANE (Julie Ducournau, 2021)

Ciao, premetto che ho il raffreddore forte e una scarsa capacità di concentrazione e di eloquio, comunque ieri sono riuscito a vedere Titane, che era uno dei film del momento che più mi interessava. Dicono che sia un film fluido. Vediamo perché. Intanto è “fluido” nel senso che ci sono un sacco di fluidi corporali. Sangue, saliva, vomito, perdite intime, olio motore, perdite intime di olio motore, pus, e boh, forse dimentico qualcosa. Da questo punto di vista Titane è un film abbastanza repellente, poi oh, dipende dalla vostra soglia di tolleranza, c’è chi già al cannibalismo di Raw (della stessa regista) si schifava, qui ci sono robe peggio. Poi è “fluido” perché rappresenta percorsi di identità fluide, tra generi (la protagonista oscilla gaiamente tra iperfemminilizzazione e ipermascolinizzazione, in una performance attoriale direi unica nel suo genere e molto impressionante), ma anche tra umano e post-umano, rendendo ambigue e appunto fluide anche le potenziali relazioni familiari padre/figli*. Infine, e qui sta quello che più mi interessa, è “fluido” perché è una maionese impazzita di generi e di improvvise sterzate narrative alla brutto dio, gestite dalla Ducournau così, de botto, senza un perché. Con grandissima nonchalance e con la voglia matta di andare in culo a tutte le possibili aspettative degli spettatori. Prima è un musical postmoderno, poi è un thriller splatter con vena comica (e Caterina Caselli incorporata), poi è un dramma familiare gelido e ambiguo (e non dimentichiamo il grandissimo Vincent Lindon che come controparte della protagonista è altrettanto impressionante), infine si “scalda” e diventa incandescente sul finale assurdo ancorché prevedibile. A ogni cambio scena la reazione è “ma cosa cazzo ho appena visto”, eppure il film riesce miracolosamente a non deragliare. Boh, a me è piaciuto, anche se preferivo Raw, meno volutamente sgangherato. Della trama non vi dico un cazzo perché certo, possiamo dire “è quel film dove la tipa fa sesso con una Cadillac e rimane incinta dell’autovettura”, ma, come dire… quella è solo la parte più normale del film. #recensioniflash