L’ATTO DI VEDERE: CIVIL WAR

Mi aspettavo che Civil War di Alex Garland fosse essenzialmente un film distopico su dove può finire politicamente l’America nel 2025. In realtà il focus è leggermente diverso. Garland riesce a prendere questo spunto, distillarlo fino a fargli perdere quasi ogni connotazione politica o legame con l’attualità (giusto Nick Offerman nel ruolo del presidente all’inizio è vagamente trumpiano) e infine proporre un film “semplicemente” sull’idea di guerra, o meglio sull’idea visiva della guerra che hanno i fotografi di guerra.

Civil War è indubbiamente un film molto crudo, diverso da altri film incentrati su reporter di guerra e – per dire – più simile all’isteria visiva di un film come The Hurt Locker di Kathryn Bigelow. Il lavoro sulla fotografia e sul sonoro è incredibile, e del resto l’insistenza è proprio sull’atto del vedere. I tentativi di capire la situazione, come spiegano i due soldati alle prese con un cecchino a metà del film, sono inutili. Tutto si riduce a “c’è uno che mi vuole uccidere, lo uccido io per primo”.

Lee (Kristen Dunst) è la fotoreporter navigata, che dopo decenni di orrori testimoniati ha l’anima atrofizzata. Jessie (Cailee Spaeny) è invece la novellina che vorrebbe farsi le ossa e comincia ora a guardare la morte negli occhi, sentendosi terrorizzata ma “mai così viva”. Insieme a Sammy, un vecchio reporter del NYT e a Joel, le due fotografe attraversano gli states per una sorta di missione impossibile: intervistare il presidente a Washington prima che venga ucciso da un non meglio identificato esercito secessionista.

Il cuore del film – peraltro una lunga sequenza di orrori che culmina in una scena agghiacciante con Jesse Plemons – è la battuta di Lee a Jesse che più o meno recita: non sta a noi porci delle questioni morali, noi documentiamo, poi sta alla gente che guarda le nostre foto farsi delle domande.

Evidentemente, come scopre Lee nel film, la gente comune queste domande se le pone troppo poco.

ORLANDO, MY POLITICAL BIOGRAPHY: UN FILM NON BINARIO

Questo Orlando, My Political Biography di Paul B. Preciado è un film… non binario. Nel senso che è in equilibrio precario (e non decide mai per una parte o per l’altra) tra il documentario e la fiction. Rispetto al precedente Orlando di Sally Potter (1992), una trasposizione del romanzo di Virgina Woolf che comunque è già di suo intitolato “Orlando: a biography”, il film di Preciado si struttura invece come una “risposta” a Woolf.

“Perché non scrivi la tua autobiografia?” Chiedono a Preciado. “Perché quella stronza di Virginia Woolf l’ha scritta al posto mio nel 1928“, è la risposta. Dato il noto status di culto nella comunità trans di Orlando, Preciado costruisce un racconto godardiano a più voci in cui 25 attori trans tra gli 8 e i 70 anni interpretano il protagonista dichiarando ogni volta “Sono nome, cognome e in questo film interpreto Orlando di Virginia Woolf”.

Ci sono brani del romanzo messi in scena con piglio antinaturalistico e teatrale ma molto suggestivo (le catacombe, l’incontro invernale con Sasha, il risveglio dopo sette giorni di sonno nei panni di una donna). Ci sono poi diversi momenti in cui con naturalezza gli attori gettano la maschera e parlano delle loro esperienze personali di uomini e donne trans.

Orlando è una biografia politica, come dice il titolo, anche nella misura in cui secondo Preciado il mondo si sta orlandizzando sempre di più, e la legge dovrebbe seguire naturalmente questa evoluzione. A proposito di legge: al termine del film, cameo gustosissimo di Virginie Despentes nei panni del giudice di Orlando. Si trova da pochissimo, miracolosamente, su Mubi.

ANCORA UN’ESTATE PER CATHERINE BREILLAT

Catherine Breillat è nota per essere una maestra del dramma erotico, e L’étè dernier non fa eccezione. È la storia di Anne (Léa Drucker), avvocata e madre altoborghese di mezza età, nella cui casa piomba Théo (Samuel Kircher, da tenere d’occhio come il fratello Paul, entrambi figli di Irène Jacob, per dire).

Théo è il figlio di primo letto del marito Pierre (Olivier Rabourdin) ed è un adolescente problematico, magnetico, gentile con le bambine di Anne ma scontroso ai limiti dell’inciviltà con il padre e con Anne. Ma è anche molto sexy. Talmente sexy che… avete capito: la storia bruciante tra figliastro e matrigna è dietro l’angolo.

All’inizio sembra una roba folle, ma funzionale ad entrambi. Anne ha bisogno di ritornare “giovane e spensierata”, Théo però purtroppo si innamora come solo un adolescente sa fare. E poco a poco, la storia viene fuori nei contesti meno opportuni.

Il film è un remake a dire il vero abbastanza edulcorato di un film danese di qualche anno fa. La differenza maggiore è nel personaggio di Anne, che Breillat non giudica mai, osserva soltanto, e non riesce a darle quella cattiveria e quella spietatezza che la protagonista del film danese ha. 

Perché in L’étè dernier non c’è solo la storia di sesso e il thriller hitchcockiano (anzi, chabroliano), ma c’è una sottile riflessione sul potere e sulle relazioni sbilanciate. In questo caso Anne avrebbe, teoricamente, il coltello dalla parte del manico. Finale un po’ spiazzante, ma ci sta. Su Mubi.