LA STELLA DI MAXXXINE

Ti West e Mia Goth, ma che coppia fighissima sono? Già i nomi sono fantastici, e se li rimettiamo insieme una terza volta dopo X e Pearl, questo nuovo MaXXXine è un film che fa discretamente il botto… non a livelli di Pearl, ma ci siamo quasi. MaXXXine è il sequel diretto di X (laddove Pearl era l’esplorazione della giovinezza di un altro personaggio di X sempre interpretato da Mia Goth). Ma è un sequel che si svolge nel 1985 e tutto (dai titoli di testa alla colonna sonora, dagli insistiti split screen depalmiani agli inserti VHS) urla “operazione nostalgia”.

Solo che non è un’operazione nostalgia alla Stranger Things, che prende gli elementi più pop e corny del decennio per rimetterli in scena frullandoli. Oddio, forse un po’ sì, ma è un film di Ti West, diamine, quindi si parla di porno e horror, di una New Hollywood che è ormai finita e di un’industria del porno pronta a macinare e sputare starlet, di rivalsa, di vendetta, di una discesa agli inferi che sta tra Hardcore e Omicidio a luci rosse con spruzzate di Dario Argento (soprattutto uno degli omicidi) e un approccio cazzone alla storia che in sé è molto anni ’80.

Non aspettatevi un film come Pearl, qui la furia teorica è un po’ smorzata, e si capisce anche che chiudendo la trilogia West e Goth si volevano anche un po’ divertire, magari citando a piene mani Polanski, Argento, De Palma, Carpenter, Hitchcock e quant’altro. Un C’era una volta ad Hollywood più imbastardito, con una serie di attori che non ti aspetti (su tutti Kevin Bacon, Giancarlo Esposito ma anche la regista algida e stronza Elizabeth Debicki).

Il “tiro” horror lo danno soprattutto i flashback con le sequenze di X (MaXXXine è più un thriller anni ’80 che uno slasher anni ’70) e due o tre momenti estremamente splatter molto ben dosati. Si nota il gusto per gli effetti prostetici (nel film compare anche un personaggio che legge Fangoria, mitico) e i maschi in sala dovranno coprirsi gli occhi in una determinata scena.

Maxine Minx è determinata a fare tutto quello che serve per diventare una star, proprio come Pearl prima di lei, e scopriamo fin da subito che non è il serial killer che infesta le notti di Hollywood a essere il personaggio più pericoloso. Bella la sequenza dei titoli di coda che richiama il primo piano interminabile sul finale di Pearl con una testa prostetica di Mia Goth buttata su un letto.

Dal mio punto di vista – al netto di qualche piccola furberia (il citazionismo esasperato dopo un po’ rompe) – uno dei migliori horror film dell’anno.

TRISTE, SOLITARIO Y FINAL: IN A VIOLENT NATURE

Come Venerdì 13 ma girato da Terence Malick, o Gus Van Sant. Il trick di In a Violent Nature, l’horror pensoso e lentissimo che fa impazzire il mondo, è tutto qua.

Il regista canadese Chris Nash ha concepito questo film come un omaggio agli slasher più pecioni: basti dire che la trama è “zombi risorge da sottoterra perché gruppo di teenager stronzi si appropria di un ciondolo che lo teneva magicamente sepolto”. Poi lo zombi ha una backstory, che viene peraltro raccontata a voce da uno dei suddetti teenager (“grosso tizio con disagio mentale fa a pezzi squadra di boscaioli dopo che questi hanno ucciso la sua famiglia”).

Allora, ci siamo: è uno slasher pecione. Però… invece di avere suspence, jumpscare o quant’altro abbiamo attese, lunghissimi piani sequenza in cui seguiamo il killer inquadrandolo sempre di spalle (salvo primo piano orripilante ad un certo punto), in cui vediamo tanti alberi e tanta foresta, in cui di base non succede (quasi) mai nulla.

Ma è ovvio che i teenager dovranno pagare con una morte orribile il fatto di aver rubato il ciondolo, e le morti orribili arrivano (oh! se arrivano). Una in particolare è probabilmente la morte più elaborata e disgustosa che avrete visto negli ultimi anni in un horror. Un’altra è talmente esplicita, esasperata e tirata in lungo che invece di suscitare paura (o schifo, perché non è che In a Violent Nature sia un film che incute paura) da diventare, semplicemente, triste.

Tutto ciò senza contare un finale anticlimatico che gioca con i luoghi comuni dello slasher in modo a mio avviso un po’ antipatico, mettendo la final girl in una situazione potenzialmente pericolosa dove poi… ma vabbè, il finale non ve lo dico. Basti sapere che è uno di quelli sul quale fioriscono on line gli articoli tipo “In a Violent Nature ending explained“.

Ecco, In a Violent Nature è essenzialmente un film triste. Un po’ come A Ghost Story. Il che però è strano, dato che non è prodotto da A24 ma da Shudder.

LA (S)COMPARSA DI SHERE HITE

Perdonatemi una piccola digressione personale prima di iniziare. Io a dieci anni ero quel bambino che sapeva disegnare una vulva completa di clitoride, piccole e grandi labbra, apertura vaginale e nel caso anche di illustrarla alle compagne di scuola in una sorta di proto-mansplaining infantile per il quale peraltro ero considerato “uno strano” da tutta la comunità scolastica. Il motivo alla base di tutto ciò era che in casa mia giravano i libri di Shere Hite, di cui io ero un avido lettore. Capirete che quando è uscito il documentario The Disappearance of Shere Hite di Nicole Newnham (giornalista inglese che le è stata vicina negli ultimi anni), ho sentito il bisogno di “cercarlo in giro” per rispolverare una figura che ha inciso così profondamente sulla mia vita (non sto scherzando).

Il documentario è ottimo, e racconta principalmente il metodo con cui Shere Hite nei primi anni ’70, in piena seconda ondata femminista, lancia il suo famoso questionario sulla sessualità femminile e nel ’76 esce con il Rapporto Hite (il libro di cui parlavo) che scuote l’America e il mondo intero facendo conoscere la clitoride e l’orgasmo clitorideo a tutti i lettori. Si parla di masturbazione, di orgasmo, di rapporto con la propria fisicità e con la fisicità maschile, prendendo come base le risposte libere a un centinaio di domande molto dettagliate di un campione di qualche migliaio di donne tra i 18 e i 97 anni da tutti gli Stati Uniti.

Fino a qui, quello che già sapevo. Quello che non sapevo ruota quasi tutto intorno al personaggio Shere Hite, una vera e propria it girl della New York anni ’70 e ’80 (come Chloë Sevigny lo fu per gli anni 90 e i primi anni zero, per intenderci). Shere è una bambina sola, cresciuta dai nonni in un ambiente tradizionalista e conservatore. Quando si trasferisce a NYC per frequentare la Columbia sperimenta sulla sua pelle classismo e sessismo da parte dei professori, vive in un sottoscala, è sempre senza soldi, e comincia a maturare una sorta di carattere ambivalente. Da un lato, visto il suo aspetto, si mantiene con lavori da modella (anche di nudo), dall’altro si avvicina ai movimenti femministi americani e li appoggia, maturando poi l’idea del suo famosissimo libro.

Il Rapporto Hite le vale fama, ospitate televisive, soldi, che la spingono a diventare un catalizzatore di feste e di movimenti culturali e sociali nel suo appartamento sulla 5 Av. (stesso palazzo in cui vivono Donna Summer e Gene Simmons, per dire). Ma la fama è un’arma a doppio taglio. Quando Shere all’inizio degli anni ’80 scrive un secondo rapporto sulla sessualità maschile – libro che non ho letto e ora vorrei recuperare – impostato a questionario esattamente come il primo su un campione di 7.000 maschi che hanno risposto sinceramente a domande “scomode” su sesso, masturbazione, emozioni, intimità, relazioni, la società patriarcale del periodo le si rivolta contro.

Orde di maschi bianchi etero criticano il suo libro (non avendolo letto) dicendo di non riconoscersi nel ritratto che ne emerge di un maschio triste, solo, non in contatto con le proprie emozioni, incapace di mettersi in relazione con chiunque e timoroso di essere sminuito dagli altri maschi se mostra segni di debolezza. Insomma, Shere Hite nel 1981 metteva già in evidenza tutto quello che noi maschi stiamo intuendo solo adesso, quaranta anni dopo. È l’inizio della fine per Shere, che viene delegittimata, messa in ridicolo, criticata nel merito e nel metodo per aver messo il dito sulla ferita primaria dell’uomo occidentale.

Quando nel 1987 scrive il suo terzo libro Women & Love (seguito diretto del primo rapporto), emerge che il 70% delle donne ha avuto una storia extraconiugale. Questa cosa fa infuriare i movimenti ultraconservatori che rifiutano le statistiche del libro intravedendo nell’autrice una persona determinata a distruggere lo status quo, quando invece l’obiettivo era “conoscere per confrontarsi e magari venirsi incontro“. Nei primi anni ’90, in un momento in cui il femminismo veniva visto come un peso morto (notare gli spezzoni di Anita Hill in aula che denuncia il giudice Clarence Thomas, caso emblematico di quegli anni), i libri di Shere Hite vengono messi all’indice, tanto da spingerla letteralmente a scomparire da un giorno all’altro.

Tra il 1995 e il 2020 Shere Hite ha vissuto in Europa, vivendo pienamente la sua bisessualità e celebrando la femminilità con intelligenza e sensualità, rivendicando “cervello e vulva”, come dice una delle sue collaboratrici che l’ha fotografata negli ultimi anni. Un film veramente da vedere, per capire (più di) un periodo di rivolgimenti sociali e gettare un po’ di luce in più su come siamo messi adesso.