PARTHENOPE, L’ARTE DEL VEDERE

Parthenope di Sorrentino ha fatto incazzare a morte la critica anglosassone, che lo ha definito “lo spot di un profumo lungo due ore“. Per onestà va detto che anche io, sui titoli di testa ho pensato la stessa cosa, e del resto tra i produttori figura anche la Saint Laurent Productions e questo vorrà pur dire qualcosa. Tutti si stracciano le vesti perché Sorrentino ha fatto un film con una protagonista donna, dove si fuma a pacchi, dove tutti quelli che vedono Parthenope in un modo o nell’altro se la vogliono portare a letto e dove ci sono le tradizionali scene sordide / assurde / blasfeme (ma sempre elegantissime) che abbiamo imparato ad amare.

Ma è Sorrentino, baby. Cosa pretendi. Non posso dire che Parthenope sia il mio film preferito di Sorrentino: ad esempio ho preferito È stata la mano di Dio (che in un certo senso è l’alter ego filmico sempre napoletano di Parthenope). Parthenope è letteralmente farcito di frasi ad effetto (le “sorrentinate”), di immagini bellissime e avvolgenti, di momenti di pura poesia visiva… pure troppo, al limite dell’autocitazione.

Però… Sorrentino stesso ha detto di fare in fondo sempre lo stesso film, e qui è come assistere a un suo flusso di coscienza che mescola metafore e personificazioni, ricerca della bellezza, della giovinezza, di un senso della vita che alla fine può stare solo nell’ironia. Il film non ha trama perché la vita non ha trama, e Partenope (Celeste Dalla Porta, magnificamente espressiva) passa attraverso innumerevoli esperienze, d’amore e di conoscenza, dal rapporto quasi incestuoso col fratello a quello con l’amico d’infanzia, dal camorrista (incredibile la scena della “fusione” tra famiglie criminali) all’attrice in disgrazia, dal ricco industriale al professore di antropologia (Silvio Orlando in uno dei suoi ruoli migliori), dal cardinale preposto al miracolo di San Gennaro (Peppe Lanzetta) all’incontro con il “mostruoso” che forse è il momento in cui – nella testa di Partenope – tutto acquista un senso.

In Parthenope ci si immerge come in un sogno liquido, in acqua e sale: è un film pieno di difetti, molto spesso autocompiaciuto, ma che riempie gli occhi. Magari non va al di là di questo, come invece succede in altri film di Sorrentino meno debordanti. Ma i film brutti sono altri, con buona pace del Guardian.

FROM DUSK TIL PRISCILLA: SLAY

Slay è una horror comedy canadese diretta da Jem Gallard. E niente, farebbe già ridere così. Ma Slay è anche un film di vampiri buzzurri le cui quattro protagoniste sono uscite da RuPaul’s Drag Race: Trinity the Tuck, Heidi N Closet, Crystal Methyd e Cara Melle. Come anche il più stordito di voi potrà immaginare, il film è un pazzo pazzo crossover (anche riuscito, devo dire) tra From Dusk Til Dawn di Robert Rodriguez e Priscilla Queen of the Desert di Stephan Elliott.

Anni ’90 a pacchi, insomma, per un divertimento che più camp non si può: si inizia con un succhiasangue che contagia un redneck e si prosegue con le quattro favolosissime drag queen che viaggiano in camper verso il successivo locale dove dovrebbero esibirsi, sbagliando clamorosamente posto e finendo nel buco del culo del mondo.

Lo spettacolo ovviamente è accolto male, nonostante un paio di superfan in prima fila, un tecnico luci interessato e un titolare non troppo omofobico. Il buzzurro vampirizzato all’inizio, però, ben presto fa irruzione nel locale e stacca un pezzo di collo a un altro avventore. I vampiri si moltiplicano e così le drag queen e i sopravvissuti devono barricarsi dentro, scegliendo di collaborare contro i non morti e di non farsi la guerra tra loro.

Assolutamente prevedibile e molto meta (spesso i personaggi commentano le soluzioni registiche “al risparmio”, all’insegna dell’odìmo, come ci insegna Boris), Slay ha una freschezza e una sfacciataggine che lo candidano a diventare un vero cult movie. Se lo trovate in giro, non perdetelo.

POTREI ESSERE TUA MADRE MA CHISSENE

Della “rinascita” della romcom tradizionale avevo un po’ già detto quando ho parlato di Anyone But You. Con The Idea of You siamo più o meno da quelle parti. C’è sempre “You” di mezzo, insomma. Qui però è Anne Hathaway che ragiona su un ipotetico fidanzato che ha giusto quella ventina d’anni in meno rispetto a lei.

Il toy boy in questione è il gettonatissimo Nicholas Galitzine, un figo da paura che sa pure cantare, e infatti nel film fa parte di una boy band al decimo anno di attività, forse un po’ in stanca, sicuramente un po’ disilluso. Lei accompagna la figlia al Coachella dove incontra lui in una delle poche scene genuinamente divertenti del film (scambia la roulotte di lui per un cesso).

Lui rimane folgorato da lei (che manco a dirlo ha una galleria di arte contemporanea) e compra tutti i quadri e tutte le sculture per la sua casa di Londra. Segue bruciante passione ma lui è così giovane mio dio, ma lei è divorziata e in fondo cazzo gliene, ma gli amici di lui sono un po’ stronzetti e la umiliano, ma lei ha compiuto quarant’anni da poco e insomma, è superiore. Ma quando li beccano i paparazzi e l’amorazzo diventa pubblico, il rappoprto di lei con la figlia si incrina.

E allora, come dice la poetessa, le cose sono due: lacrime mie o lacrime tue. Gli innamorati si devono separare. Non preoccupatevi, c’è comunque il lieto fine, e il film è di quelli “fatti bene”. Per chi cerca “il messaggio” c’è anche una riflessione premasticata sul potere dei media, sul fandom tossico e sulla sessualità femminile dopo i 40.

E poi c’è il sixpack di Nicolas Galitzine. Su Prime Video.