BABYGIRL: NICOLE KIDMAN E IL BDSM

Nicole Kidman è un’attrice molto versatile, ed è abituata a “portare sulle sue spalle” diversi film anche controversi come Eyes Wide Shut o Birth. D’altra parte è anche abituata a interpretare dei ruoli in thrilleroni un po’ telefonati che vengono nobilitati il giusto dalla sua presenza.

Potreste pensare che Babygirl entri nel solco dei film problematici e controversi che Kidman alterna ai polpettoni commerciali. Ni. Perché il film dell’olandese Halina Reijin (già responsabile del bizzarro horror Bodies Bodies Bodies) si muove sul sottile confine tra il thriller erotico anni ’80, il trash involontario e la riflessione (fuorviante) sulla sessualità kinky.

Intendiamoci, Nicole Kidman fa un lavoro ottimo, a livello di Demi Moore in The Substance per quanto riguarda il mettersi in mostra “senza filtro”. Tutti sanno che il film comincia con un orgasmo in primo piano (simulato) con il partner Antonio Banderas e che subito dopo la protagonista corre a masturbarsi su un porno BDSM venendo in modo molto più animalesco e “sincero” (?).

La storia (esile e prevedibile) è quella di una CEO insoddisfatta sessualmente che incontra uno stagista che a sua volta intuisce il suo bisogno di essere sottomessa in una relazione di tipo D/s e che quindi porta avanti una serie di incontri con lei in sordide stanze d’albergo, arrivando poi a diventare una presenza minacciosa per la di lei tranquillità economica e familiare.

I due termini di paragone che mi vengono in mente sono 50 sfumature di grigio (se vogliamo più di intrattenimento e più nazionalpopolare) e Secretary (più sottile e con una migliore caratterizzazione dei personaggi). Babygirl appare un po’ tagliato con l’accetta soprattutto nella misura in cui sembra suggerire che una sessualità kinky sia il frutto di traumi infantili.

Però Nicole Kidman è sicuramente sempre molto brava, e non guarderete più bicchieri e piattini di latte allo stesso modo.

ALMODÒVAR E LA MORTE

Fino a che punto può spingersi un favore che chiedi a un’amica? The room next door, il più recente film di Almodòvar (il primo in lingua inglese e – scopro ora stupendomi – il primo a ricevere un premio a Venezia) risponde in modo coloratissimo ma anche gelido e dark a questa domanda, mettendo in capo due pesi massimi: Tilda Swinton e Julianne Moore.

Ingrid (Julianne Moore) è una scrittrice di successo con la fobia della morte. Martha (Tilda Swinton) è una reporter di guerra stilosissima che – manco a dirlo – ha un tumore allo stadio terminale. Le due amiche si ritrovano, Ingrid supporta Martha nel suo percorso di cure finché Martha le fa “la proposta”. Vuole auto-eutanasizzarsi con una pillola misteriosa ma vuole che ci sia qualcuno nella stanza accanto: Ingrid, per l’appunto.

Le due si trasferiscono in una sbalorditiva residenza di campagna e passano una sorta di vacanza pensando ossessivamente al finale di The Dead di James Joyce o guardando vecchi film di Buster Keaton. Il patto è che quando Ingrid troverà la porta della stanza di Martha chiusa, vorrà dire che lei sarà morta.

Inutile dire che non è il migliore Almodòvar in assoluto, ma è un buonissimo Almodòvar, che non ha perso il meraviglioso vizio di mescolare Hitchcock e Sirk, che intreccia alla storia principale numerosi flashback sulla vita di Martha e un finale dove l’intrigo “poliziesco” perde decisamente di interesse di fronte ad un nuovo personaggio che entra in scena.

Abiti e arredamento a base di vivaci chiazze di colori primari sono ovviamente assicurati.

SBAGLIARE UN FILM: EMILIA PÉREZ

Emilia Pérez, diciamolo subito, secondo me non merita proprio 13 nomination agli Oscar. Ma questo è un parere personale. Di sicuro è un film “particolare”, di quelli che sulla carta ti fanno dire un po’ “wow” e un po’ “cosacazzo”, poi però quando lo vedi il “cosacazzo” supera di molto il “wow”.

Emilia Perez di Jacques Audiard (uno che peraltro prima di questo film ha sempre prodotto opere molto… diverse, diciamo) è un musical francese ambientato in Messico nel mondo dei narcotrafficanti che segue il protagonista (un boss dei narcos) nel suo percorso di transizione di genere da uomo a donna. Manitas (Karla Sofía Gascón) si rivolge a Rita Mora Castro (Zoe Saldana), un’avvocata che dovrebbe occuparsi delle questioni logistiche legate alla sua transizione, facendo credere lui morto e – dopo le operazioni chirurgiche – una tale Emilia Pérez assurta a nuova vita. Nel frattempo la moglie Jessi (Selena Gomez) e i figli vengono “deportati” in Svizzera. Senonché a un certo punto Emilia ha nostalgia dei bambini e rivuole tutta la famiglia con sé… segue tragedia. Allora: musical. Narcotrafficanti. Persona transgender.

Vabbè, dai. Si può fare. Audiard ci crede tantissimo. E si prende tantissimo sul serio. Ci sono – lo devo dire per onestà – dei pezzi di cinema veramente eccezionali, c’è una bravura soprattutto nell’interpretazione delle quattro protagoniste del film – una sola delle quali è veramente di origine messicana, Adriana Paz che interpreta Epifània, cui è riservato il numero finale del film – e per gli amanti dei musical ci sono almeno due pezzi coreografati e cantati molto bene (entrambi con Zoe Saldana, vera rivelazione ballerina del film).

Per il resto, Emilia Perez mi è sembrato problematico su vari livelli. Primo livello: fai un film sul Messico e su un preciso dramma del Messico contemporaneo ma non lo giri in Messico, fai tutto a Parigi perché è più comodo e ricostruisci un paese da cartolina con i mariachi e tutto. Questo fa già incazzare molte persone. Ma voglio dire, ci sta, stai facendo un musical, è tutto onirico. Il punto di riferimento di Audiard è Les parapluies de Cherbourg di Jacques Démy e già questo la dice lunga.

Secondo livello: fai un film su una persona trans e ad interpretarla c’è una donna trans, ben venga, questo è positivo. Ma in fase di scrittura ti appoggi su tutti gli stereotipi sulle transizioni di genere più beceri? “From penis to vagina”, come cantano nel numero più assurdo del film (“Vaginoplastic”), 50 operazioni in una botta sola, la persona trans bendata stile mummia che esce dalla crisalide, lo stereotipo del trans con la disforia un po’ psicopatico alla Silence of the Lambs? Io ci avrei fatto più attenzione. Non so come Karla Sofía Gascón – che indubbiamente potrebbe meritare un Oscar per l’interpretazione – abbia accettato un ruolo così tagliato con l’accetta.

Terzo livello: fai un musical e le canzoni sono… deludenti? Non memorabili? Scarsamente canticchiabili? Emilia Pérez è quel tipo di musical straniante e straniato alla Annette di Léos Carax (sempre francese, sempre molto serio, ma almeno lì c’erano le canzoni degli Sparks). Le canzoni del duo Camille e Clément Ducol sono in un paio di casi tollerabili e per il resto noiose o fastidiose.

In sintesi, Emilia Perez è uno di quei film che per carità va visto perché “è un caso”, fa parlare di sé ma più in negativo che altro. E ho il sospetto che l’Academy gli abbia dato così tante nomination come “reazione di principio” alle politiche trumpiane. Che tra i messicani e le persone transgender sembra il film fatto apposta per farlo incazzare.