Vale la pena di recuperare Dogman (non quello di Garrone, ma il film omonimo di Luc Besson dell’anno scorso)? Potrei dirvi di sì, ma poi mi aspettereste sotto casa per picchiarmi. Quindi vi dirò di sì comunque, ma con riserva.
Cioè, se vi piacciono le storie talmente assurde, campate in aria e tagliate con l’accetta da fare il giro e diventare quantomeno interessanti, Dogman è il vostro film. Se non è la vostra tazza di tè, in ogni caso, c’è Caleb Landry Jones (quell’attore che vi fa dire “eppure l’ho già visto” e che ha fatto un lavoro egregio come personaggio secondario in decine di film) che nell’interpretare Doug, il protagonista, fa veramente impressione da quant’è bravo. E diciamo che si tiene sulle spalle tutto il film. Cioè: lui, e i cani.
Doug infatti è il “dogman” del titolo. Un bambino talmente seviziato da un padre violento da essere chiuso in gabbia con i cani da combattimento e trattato come una bestia. Quando finalmente si libera, il ragazzo selvaggio ormai orfano trova la salvezza nel teatro. E poi nei cani, con i quali ovviamente riesce a comunicare in modo quasi telepatico.
Doug diventa una sorta di villain alla Joker, senza la follia omicida ma con un gusto particolare per gli spettacoli in drag. Ah, dimenticavo che il povero Doug è anche paralizzato dalla vita in giù e sta in sedia a rotelle perché un colpo di fucile partito per sbaglio l’ha beccato nella schiena da piccolo.
Insomma, immaginatevi questo tipo, che all’inizio del film viene catturato dalla polizia e interrogato da una psicologa racconta la sua triste storia criminale, pittato come in una replica di Cabaret, in sedia a rotelle, tabagista e canaro. Non vi viene la curiosità?
Se la curiosità ve la volete togliere, il film si trova “in giro”, poi però non mi venite ad aspettare sotto casa.