NEL VORTICE DEGLI ANIME

Le #recensioniflash di luglio sono praticamente tutte di film anime (in un paio di casi anche serie anime che ho scovato in giro) perché niente, la scimmia del Giappone mi è rimasta fortissima e adesso sono in uno di quei periodi ossessivo compulsivi della mia vita in cui devo vedere solo un determinato genere di cose. Siamo comunque al livello che sto anche ascoltando un podcast di lingua giapponese, così, tanto per capire meglio i film in lingua originale. Ma andiamo a incominciare.

YOUR NAME (Makoto Shinkai, 2018)
Sono qui che mi chiedo perché non ho visto Your Name quando è uscito al cinema. Ho scartabellato e niente, è stato in sala solo tre giorni. Ma va bene, è su Netflix. Ed è l’anime più intenso che vi capiterà di vedere. Di Makoto Shinkai avevo visto Il giardino delle parole e già allora quella tecnica basata su un rotoscoping minuzioso mi aveva colpito assai. In pratica l’animazione diventa talmente fotorealistica da procurare una sorta di overdose di iper-realtà. Questo succede anche in Your Name, che rende come non ho mai visto prima il paesaggio urbano di Tokyo e quello rurale della cittadina di campagna Itomori, dove vivono i due protagonisti del film. Taki, studente a Tokyo, e Mitsuha, studentessa a Itomori, condividono una strana esperienza: di tanto in tanto si svegliano l’uno nel corpo dell’altra. La premessa del body swapping porta qualche simpatica conseguenza comica, ma Your Name non è una commedia. È più un film da brividi, da pelle d’oca e da lacrime ricacciate in gola (per chi è un super-romantico come me, eh). C’è di mezzo una catastrofe naturale, ma anche qualcosa di soprannaturale che si rivela nel kataware-doki (il crepuscolo) non rivelo troppo sulla trama perché poi l’intrigo si fa contorto e succedono un sacco di cose, ma il fulcro di tutto è la relazione tra i due protagonisti che non riescono mai a incontrarsi veramente nonostante abbiano condiviso una straordinaria intimità. Anzi, non riescono a ricordare nemmeno i loro nomi. In pratica il tema del film è lo struggimento per qualcuno o qualcosa che non si ha nemmeno del tutto chiaro. C’è una colonna sonora spettacolare (certo, per chi apprezza le canzoni J-Rock) e niente, dovete vederlo. Fidatevi. #recensioniflash

LA FORMA DELLA VOCE (Naoko Yamada, 2016)
Ok, sì, sono in uno dei miei periodici momenti ossessivi per gli anime. Diciamo che Netflix li favorisce. Ci trovate The Shape of Voice, un mélo sommesso ma potente tratto dal manga A Silent Voice. È la storia di un piccolo bullo la cui vita resta segnata dai suoi comportamenti e di una bambina sorda (vittima del bullo). A 11 anni, Nishimiya cerca di farsi degli amici ma la classe in cui capita è popolata da stronzi come sanno esserlo solo i bambini. In particolare Ishida sembra essere il più stronzo di tutti, ma il suo bullismo è figlio di un’incapacità di ascoltare e comunicare. Da diciottenni, entrambi tenteranno il suicidio per motivi simili. Ishida, ormai un emarginato sociale abbandonato dai suoi vecchi amici che non vogliono più essere associati a lui, cercherà in ogni modo di riscattarsi e di capire il senso dell’amicizia e dell’ascolto, mentre Nishimiya deve fare i conti con l’affetto dei familiari e degli amici che sente di non meritare in quanto mera “fonte di preoccupazione”. È comunque un film corale, con un fottio di personaggi che dura più di due ore, ma vale la pena. Bella la soluzione visiva che rappresenta l’incomunicabilità vissuta da Ishida (tutti i suoi compagni hanno come degli adesivi che gli coprono il viso fino a che lui non li fa “entrare nel suo mondo”) e interessante la colonna sonora pianistica registrata a quanto pare da dentro lo strumento, forse per dare più l’idea della “forma del suono”. Oh poi ha vinto un sacco di premi, insomma, fate voi. #recensioniflash

MADE IN ABYSS (Kinema Citrus, 2017)
Ciao, sono sempre qui che guardo gli anime e oggi vi voglio parlare di Made in Abyss. Trattasi dell’adattamento in serie animata di un manga, facilmente fruibile su Netflix in tredici comodi episodi. Ci sono mille motivi buoni per vederlo e alcuni motivi per non vederlo. Dipende sempre da quanto siete abituati a gestire le differenze culturali Giappone / resto del mondo in termini di situazioni scabrose. Vado subito a spiegarmi. 
Made in Abyss è una serie fichissima. Fi-chis-si-ma. 
C’è un world building originale, un comparto artistico da urlo, una musica pianistica / orchestrale abbastanza inedita e uno sviluppo dei personaggi molto interessante. La storia si svolge in una città costruita attorno a un abisso, una sorta di voragine tipo inferno dantesco a più gironi che fin da bambini gli abitanti della città imparano ad esplorare per cercare tesori. Esiste una sorta di “maledizione dell’abisso” per cui puoi scendere evitando mille pericoli ma più scendi più saranno devastanti per la tua salute fisica e mentale le risalite in superficie. 
Riko, la protagonista dodicenne, è un’aspirante esploratrice. In una delle spedizioni organizzate dall’orfanotrofio / scuola di esploratori dove vive, incontra Reg, un bambino robot che ha dimenticato chi è e da dove viene. Insieme decideranno di esplorare il fondo dell’abisso, tra molte avventure e colpi di scena. Come vedete dall’immagine è tutto molto infantile, tanto che la Creatura mi chiede in continuazione “possiamo vedere questo cartone insieme?” (spoiler: NO, non possiamo).
Vado un attimo sul tecnico e metto il cappello da otaku: Made in Abyss è ingannevole perché con il suo stile moé e il character design al limite del chibi sembra una storia con bambini e per bambini. Nulla di più sbagliato. Chi legge manga da una vita sa che le derive sessualizzate dei mangaka sono abbastanza all’ordine del giorno, e pur non essendoci scene esplicite, in più di un’occasione ci sono accenni di lolicon, shotacon, furry e quant’altro (googlate, non fatemi spiegare tutto). C’è una certa fissazione sulla pipì, sui genitali, su punizioni corporali fantasiose che può dar fastidio. 
Inoltre, non si scherza con l’abisso. Le avventure di Riko e Reg possono diventare molto drammatiche, sanguinose, violente e la presenza di creature che sembrano uscite da un film di Cronenberg non lo rende assolutamente catalogabile come prodotto per bambini. Detto ciò, se arrivate preparati, io l’ho trovata una storia potente che mi ha fatto pensare anche alla trilogia di Queste Oscure Materie (anche lì, bambini venivano torturati per il bene del progresso scientifico, e non dico altro). Per me è un grande sì, e attendo con ansia il seguito sotto forma di lungometraggio che dovrebbe uscire il prossimo gennaio. Però mi rendo conto che non è per tutti i palati. Vedete voi. #recensioniflash

WOLF CHILDREN (Mamoru Osoda, 2012)
Nella mia enorme lista di recuperoni c’è da mesi Wolf Children, altrimenti noto come Ame e Yuki i bambini lupo. Inutile dirvi che è un capolavoro, d’altra parte se un film non mi piace non è che spreco tempo a parlarne. Qui stiamo in equilibrio perfetto tra un anime adulto e una favola alla Miyazaki. Hana, la mamma protagonista, ha concepito Yuki e Ame con un affascinante uomo lupo. Quando rimane sola, la condizione di madre single si fa pesante, soprattutto per il problema aggiuntivo che i bambini tendono a trasformarsi in lupi nei momenti più disparati. Ne consegue un continuo contrappunto tra natura e cultura, nel percorso prova ed errore di un genitore che tenta di mettere i figli in grado di trovare la propria strada nella vita. “Volete vivere come umani o come lupi?” è la domanda che Hana fa ai figli dopo aver portato la famiglia in una enorme casa di montagna da ristrutturare (molto Tonari no Totoro) e da lì si dirameranno le scelte dei due bambini, mai facili, che porteranno ad un’evoluzione inaspettata dei personaggi. Scrive e dirige Mamoru Hosoda (che ha rischiato di vincere l’Oscar come miglior film d’animazione quest’anno con Mirai no Mirai – poi il premio è andato a Spider-Man, giustamente, però gran risultato comunque) e soprattutto disegna i personaggi Yoshiyuki Sadamoto già su Evangelion, Nadia – Il mistero della pietra azzurra, Le ali di Honneamise. Cioè, praticamente, il dio dei character designer. (Ri)scopritelo. #recensioniflash

ERASED (A1-Pictures, 2016)
Anime night again! Oggi vi voglio parlare di Erased – Boku dake ga inai machi, una serie su Netflix che ho trovato davvero sorprendente. Tratto da un manga di Kei Sanbe (che non ho letto, ma pare sia un po’ più articolato della trasposizione animata) e realizzato da A-1 Pictures (Sword Art Online, Seven Deadly Sins) con character design di Keiko Sasaki (non a caso una che si è fatta le ossa con Detective Conan), Erased è in pratica un thriller claustrofobico alla David Fincher con una spruzzata di fantascienza che complica le cose. Satoru Fujinuma è un trentenne mangaka fallito e disilluso che per stare a galla lavora come fattorino in una pizzeria. Ma ha la capacità di tornare indietro nel tempo di qualche minuto quando il suo “senso di ragno” gli fa presagire un incidente di qualche tipo. Fa amicizia con Airi, sua giovane collega in pizzeria e ha un rapporto conflittuale con la madre. Ma c’è un assassino in giro, e a quanto pare ce l’ha proprio con Satoru e con i suoi cari… A causa di un evento drammatico, Satoru improvvisamente torna indietro nel tempo di vent’anni, e si risveglia nel suo corpo di undicenne. Rifrequentando la scuola capisce che deve sventare una oscura trama di omicidi, pedofilia e violenze domestiche per poter cambiare il futuro e risolvere i guai della prima linea temporale. Quando tutto sembra aggiustarsi, succede un’altra cosa clamorosa e parte una terza linea temporale. Sembra complicato, ma è assolutamente appassionante. Tra l’altro parte come un giallo con ricerca dell’assassino, poi la cosa viene abbandonata a favore di una pervasiva suspence puramente hitchcockiana (nel senso che l’assassino, quando salta fuori, probabilmente avrete già capito chi è, ma non è quello il punto). Va beh. Comunque, tiene svegli, fa fare il tifo per tutti i personaggi e ha una versione live action sempre su Netflix che mi sta venendo voglia di vedere per “cogliere le differenze” (dicono sia più aderente al manga). Per la cronaca, dicono un sacco di volte “Itadakimasu”. #recensioniflash