I MIGLIORI ALBUM DELLA MIA VITA

Recentemente avevo fatto un post, breve ma incisivo, tanto da essere ripreso da una delle mie newsletter italiane preferite (Polpette®) sui migliori album del decennio in corso, i tanto vituperati anni ’10. In un impeto di retromania, invece, riprendo qui una serie di interventi estemporanei fatti su Facebook a seguito di coinvolgimento in una di quelle catene di S. Antonio tipiche dei social, che di solito rifuggo come la peste bubbonica ma che nello specifico (liste di album? Pane quotidiano!) mi aveva abbastanza infoiato. Siccome però siamo qui proprio per ristabilire la prevalenza del longform sul post breve ed estemporaneo, ecco che adesso vi beccate 20 album fondamentali del XX secolo (a mio insindacabile giudizio) che non è umanamente possibile non ascoltare. Non siate pigri, per ognuno vi metto il link a Spotify. Magari, se non conoscete qualcosa, può essere una gradita sorpresa. O altrimenti, una passeggiata sul viale dei ricordi, come si suol dire.

TELEVISION – MARQUEE MOON (1979)
A pelle, il primo album che mi viene in mente è Marquee Moon, perché mi ha folgorato come pochi altri album, e dopo questo ascolto (per me avvenuto verso la metà degli anni ’80 su un vinile comprato usato) non sono più stato lo stesso. Post punk americano, chitarre intrecciate melodiche ma nervose e oblique, voce paranoide alla Talking Heads e pezzi esaltanti come Friction, Venus, See No Evil ma soprattutto la monumentale title track che sta al post punk come Bela Lugosi’s Dead dei Bauhaus sta al goth (e che comunque fa tesoro della tradizione rock americana trasfigurandola). Un album che non mi stanco mai di ascoltare ancora oggi. 

DAVID BOWIE – LOW (1977)
A Berlino con Eno (fa anche rima), Bowie concepisce il capolavoro art-rock-ambient-electronica che influenzerà gran parte della new wave a venire, per tacere del post-rock. Ci sono dentro quelle cose stile coro delle voci bulgare nell’atto di tagliarsi le vene, come Warszawa o Weeping Wall, e ci sono gemme brillanti come Speed of Life, Sound and Vision ma soprattutto Always Crashing in the Same Car, che alla fine dei conti è “il” mio pezzo di Bowie. Il mio vinile di Low è consumato. E il vostro?

MASSIVE ATTACK – BLUE LINES (1991)
Correva l’anno millenovecentonovantaerotti, e io entravo in folgorazione per via del fatto che l’hip hop incontrava le frange più oscure del post punk, del reggae e del dub. Echi di Slits e PIL, labirinti sonori ipnotici che sfoceranno in altri capolavori dei Massive e che influenzeranno tutto il trip hop a venire, la voce di Horace Andy, il basso che pompa, Shara Nelson che canta “You can free the world, you can free my mind, just as long as my baby’s safe from harm tonight” e la consapevolezza acuta per la prima volta che si può assemblare un capolavoro prendendo pezzi di basso di qua, break di batteria di là e riscrivere la storia della musica.

PIXIES – SURFER ROSA (1988)
La storia è un po’ strana perché io, darkettone che son io, ero tutto perso nelle atmosfere 4AD di Ivo Watts-Russell, che nel frattempo, sul finire degli ’80, scopre e produce questa band americana con la bassista carismatica, il cantante/songwriter melodico-folle, il chitarrista violento ma con stile. Cosa sentono le mie orecchie? Un’urgenza incredibile, linee melodiche accattivanti, canzoni che parlano di mutilazioni, incesto, follia religiosa, handicap mentali, rabbia punk e pop zuccheroso, con una vena di inquietudine. Per l’album vero e proprio Ivo si affida a Steve Albini (cioè quello che poi produrrà In Utero dei Nirvana)… e che altro dobbiamo dire. Un album del cuore, senza se e senza ma. Contiene anche Where Is My Mind, chevvelodicoaffà.

VELVET UNDERGROUND – THE VELVET UNDERGROUND (1969)
The Velvet Underground, l’album eponimo, quello con copertina nera e foto sfocatona della band. Insomma, il terzo album. Quello del ’69, per capirci. Quello con dentro la tracklist perfetta. Quello che è già Lou Reed ma senza troppa decadenza glam. Quello che è ancora Velvet-sperimentale ma senza insistere troppo sul feedback (a parte i 9 minuti di The Murder Mystery). Quello che è in equilibrio precario tra pulsioni diverse e che per questo motivo resta uno degli album più semplici, potenti e affascinanti della storia del rock. Inizia con Candy Says ed è già beatitudine. Poi c’è Pale Blue Eyes, Jesus e soprattutto I’m Set Free, uno dei pezzi più belli dei VU. E quella piccola delizia finale di After Hours. Tenetevi Nico, preferisco Maureen Tucker…

JESUS AND MARY CHAIN – PSYCHOCANDY (1985)
Questo album ha per me una valenza specifica, è nel mio Guinness personale per diversi motivi. Non ho mai posseduto il vinile originale ma solo una cassetta Maxell C90 logorata dall’uso e a seguire tante versioni digitali dell’album. Ma Psychocandy non è MAI mancato in qualunque walkman, discman, lettore mp3, Zune, Zen, iPod, iPhone, iTunes io abbia mai posseduto. Perché Psychocandy è semplicemente l’album a cui ricorro quando voglio stare bene, e non si tratta di una delle mie band preferite in assoluto, e non si tratta (solo) del fatto che è uscito in un anno per me di grandissimo cambiamento, è piuttosto una sonorità, un feedback morbido, un ronzio che avvolge, un mixaggio sporco e indistinto, un ritmo trascinato che attacca con Just Like Honey e non ti molla più e non distingui forse neanche bene le tracce. Proto-shoegaze di derivazione Velvet immerso in un bagno acido di wall of sound alla Phil Spector: cosa vuoi di più dalla vita?

JOY DIVISION – UNKNOWN PLEASURES (1979)
Io ai Joy Division e a Ian Curtis mi sono avvicinato relativamente tardi. La loro parabola si era rapidamente conclusa mentre io appena scoprivo i Cure, i Bauhaus, Siouxie and the Banshees, Echo & The Bunnymen, Cocteau Twins, Dead Can Dance. Poi niente, è successo che anche i “dark” potevano ballare (si era scoperto con i New Order, no?) e mi sono innamorato di quel basso, di quella batteria secca e metronimica, di quelle tastiere desolate, di quella voce che non era (più) quella di Ian Curtis ma era comunque disperata e cavernosa pur facendoti muovere il culo senza sosta. A quel punto ho dovuto andare alla fonte, ed è stata la folgorazione. Intanto quel vinile ha la copertina credo più iconica mai vista al mondo. E poi che cazzo, inizia con quel ritmo pazzo e velocissimo e quella linea di basso distorto di Disorder e non ti molla più fino alla fine, come una mano stretta alla gola. E non possiamo nemmeno dire che i JD siano “goth” in senso stretto, sono puro post-punk immerso in un distillato di angoscia esistenziale. Per cui, insomma, l’album perfetto. 

VAN MORRISON – ASTRAL WEEKS (1968)
Si tratta di un album che non mi stanco mai di ascoltare, da quando l’ho scoperto per caso intorno alla metà degli anni ’90. Sono rimasto colpito dalla copertina e dal titolo. E quando l’ho ascoltato, poof! non sono più stato lo stesso. Astral Weeks, come lo posso definire… è folk-rock impressionistico da camera, è Bon Iver quarant’anni prima, è un flusso di coscienza con testi pari a Dylan ma se possibile ancora più incomprensibili, cantati con una tale grazia e una tale estasi che ti fanno rimescolare dentro. Leggenda vuole che Morrison timidissimo stesse chiuso in una cabina con la chitarra acustica e i sessionman che suonavano con lui (flauto, sax, basso acustico, batteria, tutti jazzisti peraltro) non lo vedessero mai. Il disco quindi è una jam session improbabile che risulta in un puro gioiello di traccia in traccia, dalla title track agli episodi più intensi come Cyprus Avenue e Madame George. Per Lester Bangs e per Wim Wenders è l’album migliore di tutti i tempi. E chi sono io per contraddirli? 

SMASHING PUMPKINS – SIAMESE DREAM (1993)
C’erano pochi anni ’90 nei primi 8 album e ciò non era bene. Il primo album che mi viene in mente che definisce (forse anche e più a posteriori) i miei anni ’90 è Siamese Dream degli Smashing Pumpkins. Più dei Nirvana, dei Soundgarden, dei Mudhoney e dei Pearl Jam che pure amavo molto. La distorsione qui si accompagna ad un gusto per la melodia catchy che trova in Today uno dei risultati più rappresentativi del decennio. E poi l’album parte con Cherub Rock, che per me è uno degli attacchi migliori del secolo. Produzione di Butch Vig (già con Nirvana e Sonic Youth) e partecipazione di Mike Mills dei REM alle session, Siamese Dream sembra un album positivo, ma è tutto all’insegna della droga, della malattia mentale, della depressione e del suicidio. Perfetto per me.

THE SMITHS – HATFUL OF HOLLOW (1984)
Un album che per me ha una storia particolare. A parte contenere praticamente tutti i miei brani preferiti degli Smiths, da What Difference Does It Make a How Soon Is Now?, da Heaven Knows I’m Miserable Now a Please Please Please Let Me Get What I Want. Nei gloriosi anni ’80 (seconda metà), mi dividevo tra questo album e il primo eponimo The Smiths. Ma mentre The Smiths è un filo monotono come album (ecco, l’ho detto), Hatful of Hollow con la sua caratteristica di raccogliere anche molte versioni alternative di brani già presenti nel primo album eponimo è migliore, più fresco, con un mixaggio più accattivante – erano comunque sessioni per BBC Radio con John Peel, mica pizza e fichi. Curiosità: l’oscuro cantante francese Fabrice Colette è il tizio ritratto in copertina (che le copertine degli Smiths, si sa, sono sempre un po’ una sciarada).

KRAFTWERK – MAN MACHINE (1978)
I Kraftwerk costituiscono un po’ un mondo a parte nella galassia dei miei amori musicali. Credo non ci sia un gruppo importante quanto loro nell’influenzare ormai quasi 40 anni di musica pop. Senza i Kraftwerk con ci sarebbe stato Afrika Bambaataa per come lo conosciamo, non ci sarebbero i Daft Punk, non ci sarebbero gli LCD Soundsystem, e molte altre band di cui non faccio il nome. Ah, non ci sarebbero stati nemmeno i Rockets, buffa band francese che dai Kraftwerk ha preso essenzialmente uno spunto per il look. Comunque. Man Machine è già il settimo album, ma contiene hit stratosferiche come The Robots e The Model e tanto basta. La copertina ha una delle grafiche più belle della storia del rock.

THE STOOGES – THE STOOGES (1969)
No Fun, 1969, I Wanna Be Your Dog. Basta? Senza questo album non ci sarebbe stato il punk, punto e basta. Appena partono i primi accordi senti già la devastazione, la puzza di vicolo marcio, la malattia, il disgusto. Garage rock brutale con un pizzico di psichedelia alla Doors e un altro pizzico di art-rock alla Velvet (John Cale suona in We Will Fall). Uno degli incroci più famosi della storia del rock, da cui è partita molta musica a venire. Fa tenerezza sapere che Iggy è ancora vivo e lotta insieme a noi, sempre incredibilmente uguale a sé stesso, sempre fottutamente punk.

SONIC YOUTH – GOO (1990)
Se Daydream Nation era il White Album del rock alternativo, Goo è il suo Abbey Road. I Sonic Youth sono qui all’esordio per una major dopo aver già prodotto numerosi album ed EP per etichette indipendenti: io li avrei recuperati tutti dopo essere stato folgorato da Goo. Goo ha una delle copertine più fighe della storia del rock. Goo contiene Kool Thing, Dirty Boots, Tunic (Song for Karen) e Mary-Christ. Goo è l’apoteosi dell’alt-rock. Amo tutto quello che Thurston Moore e Kim Gordon hanno combinato negli anni, ma soprattutto amo Goo. I know a secret or two about Goo, she won’t mind if I tell you… My friend Goo just says “hey you”!

WHO – WHO’S NEXT (1971)
Quando si parla di “rock”, io penso sempre a questo album iconico (a partire dalla copertina col monolite pisciato). I Who sono da sempre tra i miei gruppi preferiti, li ascoltavo fin da bambino, ma alle ossessioni narrative e un po’ barocche di Tommy o di Quadrophenia ho sempre preferito Who’s Next, con le epiche aperture e chiusure di Baba O’Riley e Won’t Get Fooled Again e soprattutto con la ballata Behind Blue Eyes che rimane ancora oggi per me uno dei migliori pezzi rock di sempre. Anche qui, come sempre avveniva con Pete Townsend, dietro c’era un concept naufragato (una rock opera mai realizzata dal titolo Lifehouse), ma l’abbandono della gabbia narrativa ha regalato maggiore freschezza a tutti i pezzi dell’album.  

AIR – MOON SAFARI (1998)
Anche questo album entra di diritto nel mio Guinness personale perché dal 1998 non è mai uscito dal mio Winamp/lettore mp3/iPod/iPhone. Moon Safari ci deve sempre essere, per le emergenze, un po’ come Psychocandy. È stato il primo album che ho scaricato in MP3 da Internet, ai tempi in cui la frase chiave dei musicofili sul web era “It really whips the llama’s ass”. I francesini fanno un frullato di elettronica, trip-hop, easy listening, downtempo, jazz, soul, funk, usano moog, mellotron, vocoder. Il risultato è una pietra miliare che aprirà la strada a Groove Armada, Thievery Corporation, Royksopp e compagnia sognante. La Femme d’Argent mi pare ancora oggi una delle opening track più fighe dell’universo conosciuto.

A TRIBE CALLED QUEST – PEOPLE’S INSTINCTIVE TRAVELS AND THE PATHS OF RHYTHM (1990)
Nel mondo dell’hip-hop, per me hanno sempre contato più le crew che non gli artisti solisti. E nessun album (a parte forse l’esordio dei Wu-Tang, vedi sotto) è stato più seminale dell’esordio di A Tribe Called Quest, parte di un collettivo “Native Tongues” (con De La Soul e Jungle Brothers) che promulgava un approccio più morbido, afrocentrico e jazzato al boom-boom-tchak. È l’album di Bonita Applebaum, I Left My Wallet in El Segundo e di Can I Kick It? con il suo sample di Walk on the Wild Side che ancora oggi fa muovere i culi nel mondo. Pharrell, D’Angelo e Kendrick Lamar non esisterebbero senza Q-Tip e compagni, lo sapete, no?

RAGE AGAINST THE MACHINE – RAGE AGAINST THE MACHINE (1992)
C’è questa cosa, che io non sono un grandissimo fan del guitar rock duro, puro e fine a sé stesso. Ma il trattamento che Tom Morello riserva alla sua chitarra in questo album che ha posto le basi per tutti quelli che in seguito si sono definiti “nu-metal” o “crossover” è esaltante. I RATM prendono tutta la rabbia degli MC5 e del rock di protesta e lo distillano in urla animalesche come FREEEEEDOOOOOM o FUCK YOU I WON’T DO WHAT YOU TELL ME. Headbanging a palla, inevitabile. Zack De La Rocha mai più a questi livelli. Quando parte questo album si sente l’elettricità e la tensione nell’aria, c’è poco da fare.

WU-TANG CLAN – ENTER THE WU-TANG (36 CHAMBERS) (1993)
Fin dagli anni ’80 in me convivevano (facendo a volte a pugni) l’anima goth e quella del b-boy. Ma finché si trattava di Bambaataa o di Grandmaster Flash stavo a posto così, era musica per ballare. Con l’avvento dei Wu-Tang e del loro primo, cupissimo album l’hip hop diventa improvvisamente musica da ascoltare, paesaggio sonoro di cui non si può più fare a meno. Spezzoni di film di kung fu in mezzo alla tracklist (non a caso RZA poi collaborerà con Tarantino, maestro delle compilation di questo tipo), questo è l’album di Protect Ya Neck, Shame on a Nigga e C.R.E.A.M., brani che hanno cambiato la storia del genere e hanno influenzato Nas, Notorius BIG e Jay-Z. Tanta, tantissima roba.

DREAM SYNDACATE – THE DAYS OF WINE AND ROSES (1982)
La summa di un movimento, il cosiddetto Paisley Underground, che nei primi ’80 mi prendeva assai, questo album dei Dream Syndacate è perfetto nel suo unire la psichedelia degli anni ’60 all’urgenza del punk instillandoci però anche una bella dose di Velvet Underground (gli assoli di Karl Precoda sono molto White Light / White Heat, pur avendo una propria personalità e riconoscibilità). In questo senso i Dream Syndacate non sembrano quasi un gruppo californiano come i Rain Parade, le Bangles o i Green on Red: il loro album d’esordio rivisita più il lato oscuro del sixties rock. Poi vabbè, ci sono perle come When You Smile, Halloween e la title track che valgono mille ascolti.

THE CURE – SEVENTEEN SECONDS (1980)
Per il grandissimo amore che porto ai Cure, chiudiamo in bellezza con Seventeen Seconds, che esprime al meglio il suono dark e mimimalista che di lì a poco sarebbe andato verso un pozzo di angoscia (Faith) e autodistruzione (Pornography) per poi rinascere sotto forma di pop sghembo (da The Top in poi) e tornare in forma barocca e sovraincisa al termine del decennio (Disintegration). In questo album c’è già tutto, da At Night a Play For Today, all’atmosfera da brivido di The Final Sound. Ma soprattutto c’è A Forest, il pezzo che tutti i bassisti in erba provano a suonare, e la copertina con la foto in motion blur che ha praticamente influenzato tutta la mia percezione della fotografia nei trent’anni a venire (foto scattata da Robert Smith stesso, pare). Una chicca particolare: Frankie Rose ha realizzato un “cover album” di tutto Seventeen Seconds. Credo sia l’unico album ad aver mai subito un trattamento così. Ed è bellissimo.