GRANDI FILM, GRANDI RESPONSABILITÀ

Vi appoggio qui, mentre è ancora festa, la raccolta delle rece di dicembre: un mese tutto sommato dominato – almeno in sala – dall’uscita del nuovo Spider-Film, che inaspettatamente ha richiamato grandi numeri pur con obbligo di FFP2, distanziamento, Green Pass potenziato e sticazzi. Cioè, forse potevano intitolarlo Spider-Man: Una nuova speranza… (Ba-dum! Tss…!). Vabbè ho fatto la battuta d’ordinanza, possiamo passare alla raccoltona, che in un certo senso in retrospettiva dice molto del mio avvicinamento al santo Natale.

REAZIONE A CATENA (Mario Bava, 1971)

Negli ultimi giorni, per celebrare il clima natalizio, in famiglia stiamo rivedendo (o vedendo per la prima volta, in alcuni casi) alcuni grandi classici di Mario Bava. L’altra sera è stata la volta di Reazione a catena (altrimenti noto come Ecologia del delitto, Bay of Blood per gli anglofoni, ma a me piace ricordare il geniale titolo di lavorazione “Così imparano a fare i cattivi”). Se poco poco amate gli slasher, i gialli e gli horror in generale riconoscerete, (ri)vedendo Reazione a catena che è del 1971 tutta una serie di “semi” che germoglieranno poi nell’horror americano di fine anni ’70 / inizio anni ’80 (Venerdì 13 e Halloween, soprattutto, vedi foto). Bava qui fa anche da operatore, con le sue soluzioni storte e psichedeliche (la sequenza dell’omicidio della vecchia contessa all’inizio del film, per dire). Sanguinoso come non mai, con le classiche musiche di Stelvio Cipriani, Reazione a catena è cattivissimo ma anche ricco di humor nero acidissimo (vedere ad esempio il colpo di scena finale da teatro dell’assurdo). Machete, arpioni, coltelli, corde e asce protagonisti assoluti, in una fiera dello splatter il cui testimone verrà raccolto pochi anni dopo da Argento e Fulci. Della trama, confesso, si capisce poco. Cioè: è una storia intricatissima di eredità, proprietà immobiliari e speculazione edilizia in cui tutti ammazzano tutti, ci vanno di mezzo anche quattro giovinastri e in cui sostanzialmente non si salva nessuno perché sono tutti irrimediabilmente stronzi. Il fatto è che a Bava probabilmente interessa poco, e noi ci distraiamo con gli effetti speciali (Rambaldi) e con le continue transizioni fuori fuoco / a fuoco. Comunque imprescindibile. #recensioniflash

CANI ARRABBIATI (Mario Bava, 1974)

Altro grande capolavoro di Mario Bava (perduto fino a pochi anni fa) che qui non si era colpevolmente mai visto è Cani arrabbiati (internazionalmente noto come Kidnapped), che tanta influenza ha evidentemente avuto su Tarantino ed epigoni vari. Qui siamo in territorio che – per essere Mario Bava – non mi aspettavo assolutamente. Parte da un genere caro all’Italia dei ’70 (il cosiddetto poliziottesco, pieno di centrali operative fantascientifiche e di Alfa Giulia verde oliva all’inseguimento pazzo) per sfociare in un thriller claustrofobico e nerissimo, tutto girato nell’abitacolo di una macchina (una Opel Rekord Caravan del ’74, tanto per farci stare dentro tutti, anche George Eastman che è una pertica). Senza speranza, violentissimo e sanguinoso, Cani arrabbiati è la storia di una gang di rapinatori che scappa da una rapina finita male. Gli hanno fatto fuori l’autista quindi sequestrano la macchina di un distinto signore che sta portando il figlio malato gravemente all’ospedale, intanto hanno anche una tizia in ostaggio (ne avevano due, ma una la sgozzano per sbaglio). C’è Don Backy nel ruolo di Bisturi, quello bravo col coltello. George Eastman nel ruolo di Trentadue (si scopre poi nel film perché si chiama così) e Maurice Poli nel ruolo del capo, il Dottore. L’autista estemporaneo è Riccardo Cucciolla. Il livello di tensione, violenza malata e brutalità è molto alto, tanto che oggi secondo me manco lo farebbero uscire, un film così. Ha avuto una storia produttiva comunque travagliatissima già allora (esistono tipo sei versioni diverse del finale, per dire). Su Amazon Prime (dove risiedono tutti i maggiori film di Bava) c’è comunque il finale quello figo con il plot twist che non ti aspetti. Geniale. #recensioniflash

THE POWER OF THE DOG (Jane Campion, 2021)

Allora, c’è il nuovo film di Jane Campion (è in sala oppure su Netflix) che è un capolavoro. Sicuramente nella lista dei migliori film dell’anno che – non temete – arriverà presto sulle vostre bacheche come un colpo di mannaja natalizio. Intanto c’è Benedict Cumberbatch che fa il cowboy cattivo, e già solo per questo avrei detto la magica frase “SHUT UP AND TAKE MY MONEY”. Ma in realtà poi io amo Jane Campion da almeno 30 anni, l’ho scoperta con Sweetie nell’89 e con lei ho cominciato la mia carriera di wannabe critico cinematografico su miriadi di fanzine universitarie italiane (figuratevi poi come sono finito bene a fare le #recensioniflash del menga su Facebook, LOL). Eppoi c’è un cast sottotono ma azzeccatissimo e molto interessante: Kirsten Dunst imbruttita e alcolista, Jesse Plemons nella parte del fratello buono e boccalone (Jesse Plemons per me è uno degli attori più sottoutilizzati di Hollywood, fatelo lavorare, perdio!) e soprattutto Kodi Smit-McPhee nella parte dell’inquietante figlio adolescente. E c’è questa cosa del western atipico. Cioè, è un western a tutti gli effetti (incrociato ad arte con il mélo più straziante che possiate immaginare). Quindi non è un western revisionista. Ma è un western crepuscolare, nel senso che si svolge nel 1925, esistono già le macchine, i piaceri lussuosi come la vasca da bagno con l’acqua calda, i vestiti da dandy. Lo scontro è per l’appunto tra George, il fratello buono e desideroso di vivere nel presente e Phil, il fratello apparentemente stronzo, attaccato alle tradizioni da cowboy di 100 anni prima, sempre lì a strimpellare un banjo che fa molto Deliverance, che vive nel ricordo di tal Bronco Henry che in passato ha insegnato loro tutto quanto fa il vero cowboy. Ma a George fottesega dell’etica del cowboy brutto sporco e cattivo, e vuole sposare la minuta e piacente vedova Rose, che si porta appresso un attrezzo di figlio nerd e spilungone che ovviamente viene accusato di frociaggine da Phil e dai suoi mandriani. Avrete già capito che si vira verso il melodramma queer, perché chi di frociaggine ferisce di frociaggine perisce, ma non mi addentro nei particolari. Diciamo che dal momento in cui moglie e figlio adottivo entrano nella vita di George, la famiglia diventa sempre più disfunzionale e i rapporti sempre più esercizi di crudeltà senza limiti. Ma il “potere del cane” (metafora biblica che sta ad indicare Satana, o comunque il male) alla fine sta dove meno te lo aspetti. Io l’ho trovato un film abbagliante, che ti lascia senza fiato con poco, che si prende tutto il tempo di raccontare una parabola agghiacciante e che ha uno dei suoi punti di forza nella performance degli attori (sì, anche di Kirsten “cagna maledetta” Dunst). Guardatelo, poi mi dite.

THE LAST DUEL (Ridley Scott, 2021)

Ciao carissimi, oggi è la volta di The Last Duel di Ridley Scott che in verità, in verità vi dico ho visto due o tre sere fa ma mi ha lasciato talmente interdetto che non sono riuscito a scriverne prima. Ovviamente i film brutti sono altri, per carità. E poi c’è sempre Adam Driver. E poi è una sceneggiatura di Matt Damon e Ben Affleck, dai. I due si ritagliano anche due ruoli importanti nel film. E poi che bella fotografia, e quei fiocchi di neve che volteggiano e baluginano e gli spadoni medievali, il sangue e le urla delle battaglie e tutto grigio grigio grigio e Notre Dame in costruzione aaah che bel vedere. E poi la costruzione narrativa alla Rashomon, con le “tre verità” intorno a un fattaccio, quella di Matt Damon, quella di Adam Driver e quella di Jodie Comer (che diciamolo subito è la migliore del gruppo, poi vi spiego). Con Ben Affleck a fare da contraltare malefico in tutte e tre le storie. Insomma, sulla carta fico, no? Eppure The Last Duel ha qualcosa di stonato. Due ore e mezza di film per raccontare l’amicizia poi rivalità tra Jean de Carrouges (Matt Damon), legnoso scudiero con un terrificante mullet nu-metal anni ’90 e Jacques Le Gris (Adam Driver), sinuoso scudiero con la capigliatura goth/piratesca di un Ian Astbury nel 1987. Il primo impalma la bella Lady Marguerite ma c’è una storia acida di doti, tasse, feudi, feudatari, valvassini e valvassori per cui insomma ad un certo punto Le Gris stupra Lady Marguerite e ovviamente i due scudieri non sono più amici, anzi, si affrontano in THE LAST DUEL. Last nel senso che è una storia vera ed è proprio l’ultimo duello all’ultimo sangue autorizzato in Francia. Ora, è chiaro che Affleck (che nel film interpreta il perfido CONTE PIERRE con capello e pizzetto biondo platino molto pop punk anni ’90) e Damon, aiutati anche da Nicole Holofcener che ha scritto la “parte femminile”, hanno voluto scrivere un film che affrontasse di petto le ORIGINI DEL PATRIARCATO. Solo che è tutto estremamente didascalico, della serie “vedete come trattavano le donne nel medioevo?” (e non si capisce se la risposta implicita debba essere “adesso va molto meglio” o “fondamentalmente adesso è uguale”: se dipende dallo spettatore, cioè da me, io propenderei per la seconda ipotesi). Cioè: ad un certo punto c’è il dialogo ultradidascalico che dice proprio qualcosa tipo “Hahaha ma lo stupro mica è un crimine contro la persona è un crimine contro la proprietà”. Nel procedere delle “tre verità” (quella di Lady Marguerite è l’unica “verità vera”, se non ce ne rendiamo conto da soli ci pensa la didascalia didascalica) scopriamo che tutti i maschi del film sono dei pezzi di merda chi per un motivo e chi per l’altro, ma scopriamo anche che il personaggio di Lady Marguerite è l’unico che salva il film, grazie all’interpretazione di Jodie Comer che lascia margine a un minimo di ambiguità e mistero. Per il resto, è proprio il caso di dirlo, un film a tesi tagliato con l’accetta. In sostanza, in questo film tematicamente parlando io ci vedo della buona volontà: però c’è qualcosa che stona, sulla quale non riesco a puntare bene il dito. Magari se anche voi l’avete visto mi sapete dire (al momento è disponibile su Disney+). #recensioniflash

È STATA LA MANO DI DIO (Paolo Sorrentino, 2021)

È stata la mano di Dio di Sorrentino: non so se arriverei a dire uuuh il capolavoro di Sorrentino. Perché Sorrentino (che io amo assai) ha fatto almeno due film che mi fanno venire l’orchite, lascio a voi indovinare quali, ma tutti gli altri per me sono eccelsi. Questo è… diverso. Che non vuol dire meno bello o più bello, è proprio un altro approccio, un’altra angolazione. Ho amato molto e con molta tenerezza il fatto che lui si sia messo in gioco così, sulla sua storia personale. Ho apprezzato molto che i cosiddetti “sorrentinismi” siano decisamente ridotti (in foto uno dei sorrentinismi più efficaci del film, la signora Luciana). A dire il vero già il film inizia con un paio di sorrentinate mica da ridere, poi però si assesta sulla descrizione agrodolce di una famiglia allargata non disfunzionale ma comunque peculiare con il protagonista Fabietto alter ego del regista (Filippo Scotti, bravissimo e secondo me anche somigliante a Sorrentino stesso), il padre (Toni Servillo), la madre un po’ lunare (Teresa Saponangelo), la zia bona e un po’ matta (Luisa Ranieri) e via dicendo. La prima parte del film si dipana tra una strizzata d’occhio a un certo Fellini (di cui si sente anche la voce) e situazioni che in linea di massima non abbiamo mai molto visto nei film di Sorrentino (nella prima metà si ride, diciamo così per semplificare). Poi accade il fattaccio e nella seconda metà non si ride più. O meglio si ride ancora (epocali le scene della faccia d’o’cazz o della superfessa) ma solo per esorcizzare il dolore e le lacrime: tutto il discorso vira sul metacinematografico e su come trasformare il dolore in arte. Per questo È stata la mano di Dio dà l’impressione di essere due film in uno: ma “non ti disunire”, come dice Antonio Capuano a Fabietto verso la fine. E il film stesso “si tiene”. Mi ha fatto piacere questo ritorno a Napoli (che non si vedeva dai tempi de L’uomo in più”). Il film si conclude con l’unica canzone possibile: prima di quella non sentiamo mai cosa c’è nelle cuffiette del walkman di Fabietto. E l’ultima sorrentinata ha luogo alla stazione di Sessa Aurunca, un non-luogo tra Napoli e Roma da cui sono passato moltissime volte da adolescente, e anche questo mi ha colpito assai, anche se non ve ne potrà fregare di meno. Comunque, è ancora in sala ed è pure su Netflix, io direi che vale la pena. #recensioniflash

THE FRENCH DISPATCH (Wes Anderson, 2021)

Com’è come non è, l’altro giorno mi dirigo col mio amico Lorenzo a recuperare The French Dispatch prima che lo facciano sparire dalle sale del regno. Non si trova più in V.O. e vabbè, poco male. In foto c’è la mia inquadratura preferita del film (sta più o meno all’inizio). Cita una famosa sequenza di Mon Oncle di Tati mentre la voce fuori campo parla e parla di questo giornale (The French Dispatch, appunto), e del suo editore (Bill Murray). Il film, ma lo sapete già, è una collezione di cortometraggi molto wesandersoniani che dovrebbero rappresentare altrettanti articoli dell’ultimo numero della rivista in un curioso tentativo di connubio tra giornalismo e cinema (e anche un po’ metacinema). La sequenza con Owen Wilson infatti richiama tantissimo Tati, quella con Timothée Chalamet è molto Godard, e via inquadrando. Nel film c’è una valanga di attoroni, alcuni dei quali in brevi cameo, che assicurano che tutto sia ben fatto, ben recitato, ben inquadrato. Il problema con The French Dispatch è che è una collezione fighissima di potenziali sfondi per il mio desktop o per il mio smartphone, ma non è un film che coinvolge altro che l’occhio. Il santo Graal del film wesandersoniano perfetto, lo stesso Wes Anderson l’ha trovato giusto due o tre volte (I Tenenbaum, Steve Zissou, Moonrise Kingdom): film dove ti importava dei protagonisti, oltre a godere delle inquadrature perfettamente simmetriche, dell’accumulo di oggetti, dell’ossessività dei colori pastello, dei movimenti millimetrici e dei set a orologeria. The French Dispatch, un po’ come Grand Budapest Hotel, per me è un film da domenica pomeriggio. Nel senso che devi essere perfettamente riposato per vederlo senza ad un certo punto assopirti. E ve lo dice uno che adora le inquadrature perfettamente simmetriche, l’accumulo di oggetti, l’ossessività dei colori pastello, i movimenti millimetrici e i set a orologeria. Detto ciò, vado a scaricarmi qualche immagine per i miei sfondi. #recensioniflash

RON’S GONE WRONG (Sarah Smith, JP Vine, 2021)

Spinto dalla Creatura che lo voleva fortissimamente, abbiamo visto Ron’s Gone Wrong, che sta da poco su Disney+ ed è un fulgidissimo esempio di come anche nella vecchia Inghilterra sappiano fare i film animati ad alto livello quando vogliono. La storia è quella che ormai appartiene ad un preciso sottogenere di film animato che annovera tra i suoi esempi Ralph Spacca Internet, Next Gen, Emoji Movie, I Mitchell contro le Macchine. Il sottogenere “spieghiamo le big tech ai bambini strizzando l’occhio agli adulti e facendo vedere che internet e i device sono il male ma poi in fondo sono anche il bene”. Qui però la coppia di protagonisti, lo sfigatello Barney (Jack Dylan Grazer) e il robot difettoso Rob (Zach Galifianakis, tanto amore) è di quelle che funzionano alla grande. Tutte le parti del film che ruotano intorno al loro rapporto sono vere, coinvolgenti, mai stucchevoli (anche il finale, è un finale che non ti aspetti e infatti la Creatura l’ha gradito poco). Comunque, in due parole: Barney soffre perché è l’unico bambino della sua scuola a non avere un B-Bot, un device che sta a metà tra un Facebook che prende le decisioni al posto tuo, un hoverboard senziente e Baymax di Big Hero Six. Quando il padre e la nonna gliene regalano uno di seconda mano si scopre che è fallato e “non ha il codice giusto”. Seguono bizzarre avventure e rocambolesche fughe. Per il resto c’è tutto un contorno di compagni di scuola delle medie che sembrano usciti da un episodio di Black Mirror, una famiglia di origini bulgare che da un lato è la fiera dello stereotipo dall’altro aggiunge follia a un film già bizzarro, e ovviamente i tecnocrati (quello buono e quello cattivo) che vivono per i keynote, guardano ai profitti, ai dati personali degli utenti, agli algoritmi e alle vendite. Tolto tutto il folklore tecnologico, Ron’s Gone Wrong è un film sulla difficoltà di relazionarsi che i preadolescenti possono sperimentare, un saggio animato su “la maschera e il volto”. Certo, va bene per un pubblico più giovane. Se avete un dodici-tredicenne in casa, sulle stesse tematiche meglio il mai troppo celebrato Eight Grade di Bo Burnham. #recensioniflash

LA VETTA DEGLI DEI (Patrick Imbert, 2021)

Una cosa bellissima che potete guardare è il film La vetta degli dei su Netflix. Premetto, io ho una paura fottuta di tutto ciò che riguarda la montagna, l’alpinismo, l’arrampicata, le valanghe, etc. Quando ero piccolo diverse persone che conoscevo sono morte in montagna e ancora oggi non posso vedere film tipo 127 ore o Alive – Sopravvissuti e simili. Però riconosco un bel film (anche se doloroso) quando lo vedo. Tratto da una delle opere più recenti di Jiro Taniguchi (a sua volta tratta da un romanzo), La vetta degli dei non è propriamente un anime. Si svolge in Giappone (e più che altro in Nepal sull’Himalaya) con personaggi giapponesi, ma è in tutto e per tutto un film francese, di Patrick Imbert. Quindi un curioso ibrido tra animazione asiatica ed europea, con una storia intrigante a metà tra il documentario e la fiction, un sacco di ossessione per la montagna e per il superamento del limite e parecchie sequenze di scalata impressionanti. La storia è quella di un reporter che cerca la fotocamera dei primi scalatori dell’Everest scomparsi nel nulla negli anni ’20. Pare che la fotocamera ce l’abbia un famoso alpinista giapponese che però ha fatto perdere le sue tracce… Seguono investigazioni, scalate, flashback, scalate, momenti di contemplazione delle montagne, scalate, gente che muore, scalate, valanghe, ipotermia e hybris. Uno dei migliori film animati dell’anno, sicuramente. #recensioniflash

THE CARD COUNTER (Paul Schrader, 2021)

Ora, amici, vi dico perché The Card Counter è uno dei migliori film del 2021. Intanto perché è un film di Paul Schrader e voi ed io sappiamo che ogni film di Paul Schrader che esce è automaticamente nella top ten dei film dell’anno in cui è uscito. Poi perché è un noir bellissimo e atipico, tutto in sottrazione, il che non è facile per un film che ha le sue basi nello scandalo delle torture del carcere di Abu Ghraib. Poi anche perché probabilmente è il ruolo migliore mai interpretato da Oscar Isaac, nel ruolo del protagonista William Tell (haha ma non è il suo vero nome) che non è un collezionista di carte come dice il fuorviante titolo italiano ma “uno che conta le carte”, quindi uno che ha “il metodo” per vincere nei casinò. Comunque sia, lui lo vediamo che fa quello di mestiere ma vola basso e vince poco e spesso, per non farsi sgamare. Un bel giorno incontra La Linda (Tiffany Haddish) che è una sorta di scopritrice di giocatori di poker che lo assolda per fare i tornei. Lui accetta ma solo perché la sera prima ha incontrato Cirk (Tye Sheridan, il bietolone di Ready Player One che qui invece è figo e tormentato) che gli fa una misteriosa e inquietante proposta che rimesta le acque torbide del suo passato (suo di William), e lui rimane colpito da questa proposta ma in un modo un po’ strano, come se volesse quasi prendersi cura di questo ragazzo, e infatti accetta di giocare per vincere soldi per lui. William peraltro è uno che dorme solo in motel scrausi e prima di dormire toglie tutti i quadri e impacchetta metodicamente tutti i mobili in lenzuola bianche che si porta dietro per l’occasione, tanto per aggiungere mistero al mistero. Guardi un film così ed è impossibile non pensare alla follia di Taxi Driver. Poi pensi “adesso esplode la follia” e poi niente, non esplode mai. Allora pensi “dai è un bel film anche senza mazzate” e lì la mazzata arriva quando meno te lo aspetti, magari fuori campo, che ti sembra che ti arrivi di meno e invece arriva comunque. Occhio alla sequenza dei titoli di coda giocata su un’unica inquadratura che quantomeno offre uno spiraglio di redenzione. Azzardo un flash in due parole: un film squallidamente ipnotico. #recensioniflash

ENCANTO (Byron Howard e Jared Bush, 2021)

Mentre siamo ancora qui che ce la meniamo, due parole su Encanto, da oggi su Disney+. Vabbè, allora, visione pressoché obbligata e comunque, dato che per Natale ci siamo regalati un televisore nuovo eravamo lì a dire ooh aah come si vede bene come si sente bene. A parte il folclore di CasaIzzo, è ovviamente un film tecnicamente ineccepibile, che porta al limite estremo del sopportabile i musical di Lin-Manuel Miranda che secondo me (qui lo dico anche se può risultare impopolare) meglio farebbe a tornare alla sua antica passione, l’hip hop, invece di propinarci costantemente salsa, cumbia, ritmi latini e va bene che sei immigrant e you get the job done, ma hai anche un po’ rotto il cazzo. Detto ciò, è indubbio che le canzoni del film, specie in originale, hanno quella qualità per cui ti si appiccicano in testa e non ti lasciano più e la cosa bella è che tutti i numeri da musical (non tantissimi) sono messi in scena con la tipica follia Disney al cubo (tipo: La bella e la bestia + Alladin + Le follie dell’imperatore ma con un reparto tecnico spettacolare, decisamente sopra la media). Comunque Encanto è la storia tutta colombiana di una famiglia che ha ricevuto in dono una magia alla morte del nonno e da lì in poi vive in una casa magica e tutti sono magici in qualche modo tranne Mirabel che non sa fare un cazzo. Ovviamente poi invece sarà lei a salvare la situazione quando la casa e la famiglia stessa saranno in pericolo. La storia è esile, i personaggi tanti (e io già non ci capivo nulla perché poi parlano e cantano velocissimi e mi fanno vorticare le balle a colpi di cumbia, vallenato e merengue) ma non hai tempo di annoiarti, perché effettivamente è come assistere ad uno spettacolo di fuochi d’artificio dove ogni inquadratura ti lascia senza fiato (o forse è il televisore nuovo, chissà). Comunque sia, io che son vecchio ho pensato tutto il tempo a Saludos Amigos e ai Tre Caballeros e a quanto è cambiato il rapporto della Disney con l’America Latina. Però tutto sommato è un film veramente con poca sostanza, con l’unico messaggio di “quando sei sotto pressione non cercare la perfezione ma stai scialla che va bene uguale” e con il blando richiamo a Garcìa Marquez delle farfalle gialle nel finale. #recensioniflash

SPIDER-MAN: NO WAY HOME (Jon Watts, 2021)

Che posso dire di Spider-Man: No Way Home? Che la baracconata (intesa in senso positivo come “attrazione cinematografica da luna park”) funziona e funziona anche bene. Si recupera quel senso di meraviglia che era proprio dei primi film di Raimi abbinandolo allo Spidey che più di ogni altro ha funzionato (questo di Tom Holland, che con buona pace di Maguire e Garfield è la faccia giusta per Peter Parker). L’idea del multiverso già pompata in Into the Spiderverse e richiamata a più non posso nell’ultimo anno da WandaVision, Loki, What If (nonché protagonista assoluta del prossimo Dr. Strange, guarda caso di Raimi) è sfruttata appieno con tutte le apparizioni del caso. Le scene di combattimento funzionano bene (ottima quella tra Spider-Man e Strange), gli approfondimenti e lo spessore dato al Parker di Holland anche. I comprimari di gran lusso servono a far crescere sempre più la figura eroica di questo giovane Spider-Man che finalmente, al terzo film, è diventato il supertizio che tutti conosciamo dai fumetti. Ci arriva tardi ma ci arriva. Il resto è fan service servito in maniera impeccabile, con le battutine, gli easter egg, le strizzate d’occhio e via così. L’ultima scena tra Peter, MJ e Ned è di una bellezza e una melanconia infinita, nemmeno Tobey Maguire riusciva ad essere così cane bastonato. Menzione speciale per i bellissimi titoli di coda con “Three is a magic number” dei De La Soul (LOL) e – parlando di pezzi iconici – chapeau per “I Zimbra” dei Talking Heads nella sequenza iniziale. Non so se vale ancora lo spoiler (ho resistito almeno 15 giorni senza leggere nulla su questo film, anche se immaginavo tranquillamente tutte le sorprese positive e negative della storia), comunque nel caso se ne discute nei commenti. #recensioniflash

BELFAST (Kenneth Branagh, 2021)

Confesso alla Universal e a voi fratelli che ho molto peccato perché ho visto il film dell’anno con metodi non propriamente legali, ma – a mia discolpa – mi è capitato sotto gli occhi e non ho potuto fare a meno di cliccare play. Domani, dopodomani al massimo, esce il mio personale listone dei film dell’anno, e stavolta ho deciso di farvi uno spoilerone grosso così: al primo posto ci sarà questo film (che in Italia temo uscirà tra un paio di mesi), di cui però voglio parlarvi un po’ più diffusamente oggi. Il film è Belfast, il regista è Kenneth Branagh. Sì lo so, pazzesco, vero? Belfast non è il solito film di Branagh (diverso nello stile, nella storia, nei contenuti) ma alla fine è 100% un film di Branagh (cinematico ma teatrale, con una grandissima attenzione ai personaggi e alla direzione degli attori). Belfast è un film autobiografico, che racconta il 1969 dell’inizio dei troubles nell’Irlanda del nord dal punto di vista di Buddy (Jude Hill), un bambino di 9 anni che è Branagh stesso. Branagh, come Buddy, è originario di Belfast ma – proprio come il piccolo protagonista del film – è costretto a trasferirsi in Inghilterra a causa delle tensioni tra protestanti e cattolici. Questa la premessa. Incorniciato da alcune inquadrature silenziose a colori di viste della Belfast odierna, il film passa al bianco e nero scavalcando il muro di un quartiere e inizia la rievocazione della memoria, tra giochi di bambini e bottiglie molotov, esplosioni di violenza e prime cotte, cattolici e protestanti, fumetti Marvel e televisione, litigi dei genitori e nonni che danno consigli bizzarri, piccoli furti al supermercato e l’esperienza della morte, giorni di scuola e pomeriggi al cinema o a teatro (i film che il piccolo Buddy guarda, “Un milione di anni fa” e “Chitty Chitty Bang Bang” sono le uniche cose a colori di Belfast, una scelta un po’ naif ma che si sposa bene con il punto di vista infantile). Buddy è sempre il centro della narrazione, le inquadrature sono quasi sempre basse, ad altezza bambino, dove lui non è in campo si scopre che è nascosto da qualche parte, in un angolo dell’inquadratura o ai margini del campo perché tutto è filtrato dal suo sguardo, dalla sua sensibilità. Eccezionali i genitori (Caitriona Balfe e Jamie Dornan) che sembrano usciti da un vecchio film di Truffaut e ancor più i nonni (Ciaran Hinds e Judi Dench, cui è riservato l’intenso primo piano finale) che rappresentano lo spirito e la saggezza dell’Irlanda che fu. Mi rendo conto che dalle mie parole esce fuori l’idea di un film tutto sommato moscetto, ma non è così. Belfast ti tiene incollato allo schermo per il mix di storia personale e Storia che si riversa nelle inquadrature tramite schermi televisivi, radio o direttamente barricate, filo spinato, spranghe che entrano a far parte della quotidianità. Quando esce, insomma, non perdetelo. Io lo andrò a rivedere in sala. #recensioniflash
EDIT: Ho dimenticato di parlarvi della colonna sonora IMMENSA costituita da tutti pezzi stratosferici di Van Morrison che praticamente si comporta come un personaggio a sé (ogni canzone parte nel momento giusto e commenta nel modo più giusto possibile l’azione) e lo so che detta così sembra un videoclippone, ma Van Morrison, capite…?!?