EXTRATERRESTRE PORTAMI VIA: ELIO

Mi tolgo subito il sassolino dalla scarpa: aspettavo Elio dal 2022 con ansia, e non mi ha (quasi) per niente deluso. Eppure, secondo la misurazione impietosa del box office, Elio è il film Pixar che ha incassato di meno in assoluto. Questo per me è la dimostrazione che quando ci lamentiamo che gli studios non sanno fare altro che sequel o prequel e rimasticare sempre le stesse storie e gli stessi personaggi, non dobbiamo fare altro che dare la colpa a noi stessi. Gli spettatori vogliono prequel e sequel. Semplicemente, non si fidano delle cose nuove. O forse Elio non è stato sufficientemente “spinto”, va’ a sapere.

Comunque, al netto del fatto che ci sono diverse soluzioni poco originali e snodi un po’ tirati via alla cazzo di cane, Elio per me sta nel novero dei Pixar strani, quelli che preferisco, come Il viaggio di Arlo, che non se lo caga mai nessuno e invece per me è bellissimo. Questione di gusti? Probabilmente. Ma come fai a non amare un film che solo nei primi dieci minuti ti mette: il disco d’oro della sonda Voyager lanciata nel 1977 (che immediatamente ti riporta al primo film di Star Trek); la voce di Carl Sagan che parla della possibilità di forme di vita intelligenti nello spazio; Once in a Lifetime dei Talking Heads in una magistrale sequenza a montaggio che presenta il personaggio principale e le sue ossessioni? Non puoi.

Elio è un ragazzino di 11 anni che ha perso i genitori e vive in una base militare con la zia. Il loro rapporto è conflittuale perché Elio percepisce chiaramente che la zia avrebbe fatto una vita completamente diversa se lui non fosse piombato nella sua quotidianità. In più Elio non ha amici, ha un taglio di capelli improbabile, è socialmente inetto. Tutto quello che vuole è essere rapito dagli alieni. La zia invece lo manda in un campo estivo dove Elio viene ulteriormente bullizzato, senonché a quel punto gli alieni arrivano veramente.

La parte terrestre è una delle cose migliori del film, perché quando si va nello spazio, anche Elio, come tutti gli ultimi Pixar e forse ancora di più, cede a quell’estetica tra lo psichedelico e il caramelloso che fa sembrare tutto una fiera anni ’90 di tye&dye e lava lamp. Il Communiverse, questa specie di Nazioni Unite intergalattiche con i suoi ambasciatori da tutti i pianeti, sembra molto la Federazione Galattica di Lilo e Stitch, ma con meno organicità. Gli ambasciatori sono simpatici ma non lasciano il segno (uno è pure doppiato da Lucio Corsi, vabbè).

Si innesca qui la parte di conflitto con Grigon, il guerrafondaio leader degli Hylurghiani, che Elio dovrebbe mediare diplomaticamente grazie ad una non meglio definita “Art of the Deal” (LOL). Elio finisce per diventare amico di Glordon, il figlio di Grigon, una specie di goffo tardigrado spaziale che non vuole diventare un signore della guerra come il padre. Degna di nota, peraltro, l’idea dell’esoscheletro guerresco degli Hylurghiani che rappresenta magistralmente la “gabbia patriarcale” in versione intergalattica in cui i giovani maschi riottosi devono per forza entrare. Segue un po’ di intrigo, qualche casino e un finale dolceamaro che mette d’accordo un po’ tutti.

In molte delle sue tematiche, Elio è un film profondamente spielberghiano, che rientra in quel filone di “ragazzini disadattati che però spaccano” e di “contatto con il diverso”, mantenendo però anche saldamente il punto sul rapporto tra padre e figlio e sul più generale senso di appartenenza alla famiglia – in questo Elio non è banale e fa scendere qualche lacrima agli adulti in sala.

Parlando di un preadolescente alle prese con guerre e diplomazie aliene, Elio non può non ricordare anche Steven Universe, soprattutto nella questione dei cloni, che è una delle idee più intriganti del film e che consente a Elio di toccare con mano quello che potrebbe significare vivere una vita normale sulla terra, lui che vorrebbe solo vivere nello spazio con gli alieni come lui.

Purtroppo il fatto che la lavorazione di questo film sia stata così lunga ha visto il regista originario (Adrian Molina, quello di Coco) abbandonare la sua creatura “personale” – Elio rappresenta lui stesso e la sua infanzia solitaria in un campo militare – e lasciarla in mano a Domee Shi (regista di Turning Red) e all’esordiente Madeline Sharafian. Questo ha voluto dire anche riscritture, semplificazioni e rappezzamenti che in alcune parti del film (specie nel finale un po’ tirato via) si notano.

C’è anche una scena dopo i titoli di coda, ma non è niente di che. Tutto sommato però il film l’ho trovato incantevole il giusto. Se poi hai come me un figlio come Glordon il tardigrado spaziale, il film tocca corde molto personali e non ti pentirai di averlo visto. Ovviamente attenderò il passaggio su Disney+ per rivederlo in originale.

DOC NECESSARI: NO OTHER LAND

Poco da dire su No Other Land, un documentario necessario – sempre di più ogni giorno che passa – e che si può vedere su Mubi. Basel Adra (che si può seguire anche su Instagram) e Yuval Abraham sono i due ideatori, uno palestinese e l’altro israeliano, di questo reportage fortunosamente girato sulla situazione della zona di Masafer Yatta, vicino a Hebron in Cisgiordania, dove le truppe israeliane demoliscono sistematicamente villaggi con la scusa che si tratta di una zona militare israeliana (secondo un ordinanza della Corte Suprema) e poi ci fanno entrare i coloni.

Nulla di nuovo rispetto a quello che già sappiamo, ma il bello di No Other Land (e il motivo per cui ha vinto l’Oscar come miglior documentario, a mio parere) è la dinamica tra Basel e Yuval, la loro amicizia impossibile che nasce e si sviluppa – e dura ancora oggi – con l’obiettivo comune di fermare questa situazione. Un obiettivo che Yuval, ebreo di sinistra idealista, persegue con ardore, mentre Basel, palestinese disilluso da 70 anni e più di oppressione, tende a ridimensionare.

La famiglia di Basel è una famiglia di attivisti da più generazioni, che ha deciso semplicemente e in modo non violento di documentare tutto quanto è in loro potere con le videocamere, per poi farlo uscire dai confini israeliani allo scopo di far conoscere la situazione. 

Al di là della documentazione dei fatti più o meno tragici che gli abitanti del villaggio di Basel e i suoi familiari devono subire, sono belle e importanti le scene di dialogo tra Yuval e i palestinesi, per capire che qui si tratta solo di persone messe nel frullatore della guerra da due governi opachi, estremisti e inumani, quello di Hamas (che peraltro in Cisgiordania nemmeno si vede) e quello di Netanyahu e dei suoi.

Per capire un pezzo della storia, No Other Land è fondamentale. Ma anche per dare un po’ di speranza sulla solidarietà umana al di là delle ideologie.

CUPEZZE DANESI: THE GIRL WITH THE NEEDLE

Grazie a Mubi che ha in cartellone questo film oscuro e affascinante che fa parte di quella categoria di film (danesi, ovviamente) che ti lasciano con la convinzione che la vita è una merda, il mondo è fatto di persone brutte e che non c’è alcuna speranza per l’umanità. Detto ciò, The Girl with the Needle (dove “needle” ha un doppio significato visto che la protagonista fa la sartina in una fabbrica tessile e ha una scena abbastanza insostenibile con un ferro da calza) è un film che presenta un’esperienza di “mostruoso femminile” sul quale non mi avventuro più di tanto in interpretazioni e che mi limito ad accettare.

Il film di Magnus von Horn è gotico, ipnotico, con un che di lynchiano soprattutto nella sovrapposizione di primi piani deformati all’inizio che sembrano suggerire che tutti i personaggi abbiano un che di perverso e di sovrapponibile (e forse è proprio così) e racconta la storia di Karoline (Vic Carmen Sonne), una sarta squattrinata apparentemente vedova di guerra negli anni ’20 del ‘900 che si ritrova incinta a seguito di una tresca con il suo datore di lavoro

L’arcigna madre dell’industriale impedisce un matrimonio che unirebbe due classi sociali troppo diverse e Karoline si ritrova in un bagno pubblico con il suddetto ferro da calza a tentare un autoprocurato aborto. Viene fermata da Dagmar (Trine Lyndhorm), una donna più anziana e leggermente inquietante che le suggerisce di partorire e dare il neonato a lei che gestisce un’attività clandestina di adozioni per coppie altolocate che non riescono ad avere figli.

Nel frattempo fa il suo ritorno anche Peter (Besir Zeciri), il marito sfigurato da una granata che porta una maschera inespressiva sulle impressionanti ferite, ma Karoline non vuole saperne di lui. Si trasferisce da Dagmar proponendosi come balia per tutti i bambini che transitano tra quelle mura, senza sospettare che Dagmar nasconde un orribile segreto

Il film è uno di quelli che richiede molta concentrazione e un po’ di pelo sullo stomaco, il tema (positivo) della solidarietà femminile è inquinato da una rappresentazione della maternità che può essere considerata mostruosa secondo il sentire comune ma che Dagmar sul finale rivendica per sé e per tutte le donne che l’hanno contattata.

Una piccola concessione all’happy ending non scalfisce un monolite filmico che piomba sul tuo stomaco come l’urto di un SUV danese. Da vedere, con riserva.