CACCE ALL’UOMO, ELFI E TESORI NASCOSTI

Giugno, e le #recensioniflash ti arrivano come un pugno…! Non so perché oggi mi sento così poetico. Intanto sta per cominciare luglio e in pratica ancora non siamo tornati al cinema. Almeno, io non metto piede in un cinema dal 21 febbraio. Quindi anche stavolta abbiamo solo le recensioni da Netflix, Prime, dalla new entry Disney+ e – ovviamente – dagli infiniti torrentelli della rete. Il menu oggi prevede qualche horror, due minchiate e un capolavoro. A luglio ci sarà solo qualche rimasuglio (ba-dum tsssss)!

DOCTOR SLEEP (Mike Flanagan, 2019)

Quando ho letto il libro l’ho trovato un King minore, che probabilmente tornava sui suoi passi per il cash. Perciò non ero troppo ansioso di vedere Doctor Sleep. Partendo con aspettative a zero, ora che finalmente l’ho visto non è poi così male. Si prende i suoi tempi (due ore e mezza di cui i primi venti minuti di flashback sugli avvenimenti immediatamente post-Shining e gli ultimi quaranta tutti all’Overlook Hotel), più di una volta genera forti perplessità, ma regge abbastanza. Doctor Sleep, proprio come il romanzo da cui è tratto, soffre di una dualità interna: vorrebbe essere una storia, ma sono due storie. Vorrebbe farti paura con Rose Hat e la sua combriccola di vampiri psichici, ma tutti aspettano i fantasmi dell’Overlook Hotel, e in particolare quello della stanza 237. C’è dietro un lavoro filologico pregevole, che definisce Shining come una chiave di volta del cinema horror (non fosse bastato Ready Player One l’anno scorso e anche il documentario Room 237). I set ricostruiti e invecchiati: emozione! Le riprese col drone dall’alto, il dies irae, la colonna sonora sommessamente cacofonica, il sound design. Tutto è un rimando a Kubrick. La cosa funziona un po’ meno bene quando nuovi attori sono chiamati a interpretare il piccolo Danny, Wendy, Jack, Halloran e gli allegri spiriti dell’Overlook. In particolare l’imitatore di Jack Nicholson fa sollevare più di un sopracciglio. Ma Mike Flanagan è l’uomo giusto per gestire un film che rischia lo sbraco ogni dieci minuti. La linea narrativa di Danny adulto (Ewan McGregor) e della bambina con lo shining Abra Stone è portata avanti inizialmente con un forte richiamo a Trainspotting (cessi sporchi, vomito, cadaveri di bambini che si muovono, Ewan McGregor, appunto), poi si attesta sugli stessi territori della serie tv The Outsider (sempre da King, che ultimamente si sposta su territori quasi western). Flanagan arriva da un’altro adattamento kinghiano quasi impossibile (Gerald’s Game) e da un’altra serie tv in cui ha saputo gestire bene gli spaventi (Hill House). Se un merito va dato a Doctor Sleep è che non è un film di jump scares. Il terrore, per quanto prevedibile, striscia e sale senza scampo, senza ironia, senza insistenze postmoderne. Jacob Tremblay (il migliore attore bambino di questa generazione) ha un cameo nel ruolo della vittima sacrificale: la scena in cui viene torturato e ucciso da Rose Hat è indicativa del tono del film. Come ho detto, ci sono pro e contro, non è facile mettersi in relazione con Shining e citare anche le inquadrature di Kubrick (l’ascensore con la cascata di sangue, come Linda Blair che vomita verde o lo xenomorfo che esce dallo stomaco di John Hurt è ormai un segno riconoscibile dell’horror universale). Però Doctor Sleep ci prova, in certi punti ci riesce anche, e di questo gli va dato atto. #recensioniflash

THE INVISIBLE MAN (Leigh Whannell, 2020)

L’uomo invisibile targato Blumhouse inietta nuova linfa nelle stanche vene della Universal, che a rilanciare il suo Dark Universe ci ha pensato più volte, ma sempre senza troppo successo. Qui Leigh Whannell, supportato da un’ottima Elizabeth Moss nel ruolo della protagonista Cecilia si discosta dall’originale, dal romanzo di Wells e anche dalle versioni di Carpenter o di Verhoeven. L’uomo invisibile del 2020 è un thriller secco, di quelli che ti incollano alla sedia, fin dalla sequenza iniziale. Capiamo che Cecilia è in una relazione malata, la vediamo fuggire da una vita apparentemente da sogno e intuiamo la violenza di Adrian, il suo compagno che incidentalmente ha un misterioso laboratorio nel seminterrato. Cecilia si nasconde da amici della sorella, viene a sapere che Adrian si è suicidato ma a poco a poco qualcosa incrina la sua ritrovata serenità: qualcosa, qualcuno, la stalkera. L’uomo invisibile, appunto. Potrebbe essere un film estremamente prevedibile, ma non lo è (non del tutto). Potrebbe mettere in scena soluzioni risapute ma lo fa solo una volta, verso l’inizio, probabilmente per mettere lo spettatore nella condizione di “sapere” mentre i personaggi del film ancora “non sanno”. L’invisibilità è un elemento fantascientifico inserito come macguffin in una solida trama di tutt’altro genere, che nel terzo atto sbraca un po’ ma ci porta dove tutti vogliamo arrivare. L’uomo invisibile è un film di cigolii, di inquadrature fisse che spingono l’occhio a vagare per trovare un particolare fuori posto, di continui rimandi visivi all’atto del vedere, dello scrutare. Alle immagini di una videocamera viene affidata una verità costruita ad arte. A me è piaciuto: poi una volta mi piacerebbe vedere Elizabeth Moss anche in un ruolo leggero, eh. #recensioniflash

DA 5 BLOODS (Spike Lee, 2020)

Da 5 Bloods è il nuovo Spike Lee joint, online da qualche giorno su Netflix. Devo dire che è una pietanza piuttosto difficile da digerire, ma ha delle cose sorprendenti. Diverse chiavi di lettura, una stratificazione di generi, formati e discorsi molto densa, nulla di diverso a quello cui Spike Lee ha abituato gli spettatori nel tempo, ma, come dire… di più. Si parla di Vietnam perché lo spunto della sceneggiatura è quello (dovevano essere 5 veterani bianchi e doveva forse dirigere Oliver Stone). Invece è andata così e ci troviamo di fronte a 5 “fratelli” (in realtà 4, dato che il quinto, interpretato dall’unico attore “giovane”, Chadwick Boseman è morto in azione nel 1971). La storia è semplice, i quattro protagonisti tornano in Vietnam con la scusa di recuperare il corpo del commilitone ma in realtà per riprendersi un tesoro sepolto di lingotti d’oro. Li aiutano alcuni personaggi locali ma c’è un villain francese (Jean Reno) che li ostacola. Seguono grossi casini. Parte come una commedia sugli acciacchi dell’età, prosegue come un war movie classico in 4:3 (ma attenzione, nelle scene di guerra gli attori NON sono ringiovaniti, in contrasto assoluto con la presenza di Boseman, giovane recluta), si inserisce in un filone di avventura esotica, termina con monologhi brechtiani in camera e un montaggio alternato nello spazio molto coinvolgente. Ci sono i soliti intermezzi con materiale d’epoca (all’inizio e alla fine del film), c’è tantissimo Marvin Gaye, c’è il tema della fratellanza, del Black Lives Matter, del rapporto tra padri e figli, del significato dei corpi dei neri (vedi Ta-Nehisi Coates). Bisogna resistere quelle due ore e mezzo, ma vi assicuro che Delroy Lindo nel ruolo del soldato nero che ha votato Trump è gigantesco. #recensioniflash

THE HUNT (Craig Zobel, 2020)

Vedere i film senza saperne un cazzo, a volte, paga. Mi incuriosiva questo The Hunt, con un maialino su fondo nero nel manifesto, venduto come action / horror. Dalla prima sequenza capisci che è una delle diverse variazioni sul tema “ricchi degenerati danno la caccia per sport ad altri uomini uccidendoli in modi fantasiosi”. Solo che è un film Blumhouse, e il twist inaspettato è che la premessa si tramuta in “ricchi liberal preoccupatissimi del politically correct danno la caccia per sport a redneck complottisti ed elettori di Trump uccidendoli in modi fantasiosi”. Non si sa per chi parteggiare in quella che fin dai primi minuti è un’orgia splatter e cartoonesca (come era cartoonesco il primo Peter Jackson, per intenderci) di occhi cavati, teste esplose, arti mozzati, organi interni in volo e quant’altro. L’elite istruita e democratica, tra un discorso sugli aiuti umanitari ad Haiti e uno sull’opportunità o meno di mostrare “appropriazione culturale”, usa granate, trappole da animali, frecce, fucili, pistole e coltelli per decimare i bifolchi (a loro volta armati in una sorta di simpatico Hunger Games politico): un po’ come se da noi facessero un film sui radical chic frequentatori di salotti romani che si trovano per far esplodere le teste a salviniani e pentastellati vari. Poco a poco viene fuori il motivo della “caccia”, ed è forse la parte più debole del film, meglio sarebbe stato aver lasciato tutto nell’ombra, senza ragione. Quello che i cacciatori non si aspettano è che tra le prede c’è una reduce dall’Afghanistan che ne sa una più del diavolo, e ovviamente a questo punto sono i cacciatori stessi a diventare prede. Betty Gilpin fa le sue solite faccette e quando alla resa dei conti se la deve vedere con il boss finale Hilary Swank (un catfight lungo e sanguinoso, degno di quello tra Uma Thurman e Daryl Hannah in Kill Bill), mi son trovato a desiderare che l’avversaria fosse Alison Brie, nel ruolo di Zoya The Destroya. Comunque, il vero colpo di scena finale è che il film è scritto da Damon Lindelhof e (un parente di) Carlton Cuse. Funziona, è divertente, ci sono un sacco di mazzate e una pletora di effettacci. Vedetelo. #recensioniflash

BECKY (Jonathan Milott / Cary Munion, 2020)

Cari amanti del gore, oggi vi parlo di Becky, un film che doveva passare al Tribeca Film Festival ma poi, COVID. Quindi, diciamo che “si trova on line”. Per settarvi le coordinate, vi metto sul piatto: Mamma ho perso l’aereo incrociato con Hostel. Con un piglio da rape&revenge movie che manca del rape ma sul revenge ci siamo alla grande. Allora, Becky è questa nella foto, una tredicenne incazzata col mondo perché la madre è morta e il padre si vuole risposare e l’ha portata nella casa sul lago per presentarle a tradimento la futura matrigna. Nessuno sa che un gruppo di neonazisti suprematisti svasticoni appena evasi di galera sta andando nella stessa casa sul lago perché lì è nascosta una misteriosa chiave nazista importantissima per i cattivi ma non si sa perché, e in fondo non frega un cazzo a nessuno perché sono già passati tipo 20 minuti e noi vogliamo IL SANGUE. La piccola Becky è fortunata perché quando i neonazi (il cui capo è Kevin James, quel Kevin James, nel suo primo ruolo serio da psicopatico) irrompono in casa lei sì è nascosta nella casa sull’albero per mettere il muso al padre. Che ovviamente, per cominciare, fa una brutta fine. Ma del resto, per settare il mood, i neonazi hanno già ucciso due bambini e un cane, che è come dire che devono morire malissimo. E qui parte la fantasia di Becky, che con una manciata di pastelli colorati, un righello, un motore fuoribordo, un asse chiodato, un martello e un tagliaerba, fa strage di neonazi con punte di sangue e budella che in patria hanno fatto decidere per il Rated R. Per i fan del gore, c’è una cosa molto alla Lucio Fulci (occhio cavato pendulo che viene poi tagliato via), ma possiamo dire con serenità che quella è forse la scena più tranquilla del film. Nemmeno il neonazista “buono” si salva dalla furia assassina di Becky, che al termine del film si produce in uno sguardo alla Norman Bates che fa quasi presagire un Becky 2 (La vendetta, LOL battutone). E niente, è un film che ha una trama del cazzo, assolutamente pretestuosa, per poter vedere una pischella molto indie che fa un bagno di sangue, non so cosa stiate ancora aspettando. #recensioniflash

EUROVISION SONG CONTEST: THE FIRE SAGA STORY (David Dobkin, 2020)

Le cose sono due: l’Eurovision Song Contest o ti fa cagare male o lo adori, non ci sono vie di mezzo. Io ovviamente lo adoro, quindi non potevo esimermi dal vedere questo ESC: The Fire Saga Story che sta su Netflix da oggi, con Will Ferrell e Rachel McAdams. E niente, è un fan service dal principio alla fine mescolato con quella comicità un po’ slapstick e un po’ cringe tipica di Will Ferrell. I Fire Saga sono un duo islandese di Hùsavik (peraltro una delle cittadine più belle che io abbia mai visitato) che canta pezzi a metà tra il folk fantasy e il synth pop con titoli improbabili come Volcano Man o Ja Ja Ding Dong. Ovviamente vogliono vincere l’ESC ma contro di loro tramano il primo ministro islandese che non vuole la vittoria perché poi l’Islanda sarebbe costretta ad ospitare l’edizione successiva della gara con conseguente bancarotta del paese e la star russa (Dan Stevens, bravissimo) che canta un pezzo ultrakitsch. Il lieto fine è scontato, ma al centro del film sta il momento più bello: un mash up di pezzi di Cher, Madonna, ABBA cantati dai partecipanti a una festa in cui spuntano vere star delle passate edizioni dell’ESC come Bilal Hassani, Aleksander Rybak, Netta o Conchita Wurst. Per dare un tocco di Islanda in più c’è anche un uso smodato di Sigur Ròs in colonna sonora. Insomma, una simpatica cazzata che però è molto feelgood. Se sei un fan dell’ESC. Altrimenti meglio mantenere una notevole distanza di sicurezza. #recensioniflash

ARTEMIS FOWL (Kenneth Branagh, 2020)

Dopo aver visto Artemis Fowl mi sono alzato pensosamente dal divano, sono andato verso la libreria, ho tirato fuori il primo dei romanzi di Eoin Colfer, ne ho sfogliato le pagine che avevo amato 20 anni fa e ho sospirato di sconforto. Il film lanciato in questi giorni su Disney+ è… beh, non una delusione totale, ma… un film sbagliato. Dalla sua l’Artemis Fowl di Kenneth Branagh ha un paio di grosse giustificazioni: sono circa 20 anni che si parla di questo film. Quando sembrava che le cose iniziassero a funzionare, la produzione si è incagliata nello scandalo Weinstein. Quando sembrava che il momento fosse propizio a un’uscita in sala, è arrivato il Covid-19. Ma sono giustificazioni che non reggono a fronte di una scrittura raffazzonata e piatta, che non ci permette di empatizzare con nessuno dei personaggi, tantomeno il protagonista. Cioè, se l’idea era quella di lanciare un nuovo, maggggico franchise fantasy, direi che il fallimento è totale. Per avviare un franchise è necessario che lo spettatore abbia voglia di approfondire la conoscenza dei personaggi e qui hanno reso Artemis Jr. un personaggio insulso e incomprensibile (nonostante l’impegno dei giovane attore per sembrare arrogante, antipatico e geniale come l’Artemis del libro). Se invece l’idea era quella di far uscire un film-carrozzone da ooh e aah per gli effetti speciali e le scene di azione allora, sì, va bene. C’è tutta una scena (lunga) ambientata a un matrimonio pugliese a Martina Franca dove irrompe un gigantesco troll. Cioè: troll, Martina Franca, questo da solo potrebbe già essere il selling point per il film. E niente, c’è Colin Farrell nel ruolo di Artemis Sr. che viene rapito dalla perfida fata Cobol per ottenere un magico artefatto (una ghianda luminosa) e Artemis Jr. che è genialissimo ricatta il mondo fatato per farsi aiutare a liberare il padre. Lo aiutano l’elfo Spinella Tappo e il nano Bombarda Sterro (raramente nella fiction young adult si sono mai sentiti nomi più ridicoli, ma tant’è, sono comunque i personaggi migliori del film, e ho detto tutto). Oh, comunque, dai. Ai bambini può piacere (anche se il mio, giustamente, pur non sapendo cosa sia un buco di sceneggiatura continuava a chiedermi “ma perché?”, “ma come?”, “ma chi?”). Però, che delusione. #recensioniflash