Grazie a Mubi che ha in cartellone questo film oscuro e affascinante che fa parte di quella categoria di film (danesi, ovviamente) che ti lasciano con la convinzione che la vita è una merda, il mondo è fatto di persone brutte e che non c’è alcuna speranza per l’umanità. Detto ciò, The Girl with the Needle (dove “needle” ha un doppio significato visto che la protagonista fa la sartina in una fabbrica tessile e ha una scena abbastanza insostenibile con un ferro da calza) è un film che presenta un’esperienza di “mostruoso femminile” sul quale non mi avventuro più di tanto in interpretazioni e che mi limito ad accettare.
Il film di Magnus von Horn è gotico, ipnotico, con un che di lynchiano soprattutto nella sovrapposizione di primi piani deformati all’inizio che sembrano suggerire che tutti i personaggi abbiano un che di perverso e di sovrapponibile (e forse è proprio così) e racconta la storia di Karoline (Vic Carmen Sonne), una sarta squattrinata apparentemente vedova di guerra negli anni ’20 del ‘900 che si ritrova incinta a seguito di una tresca con il suo datore di lavoro.
L’arcigna madre dell’industriale impedisce un matrimonio che unirebbe due classi sociali troppo diverse e Karoline si ritrova in un bagno pubblico con il suddetto ferro da calza a tentare un autoprocurato aborto. Viene fermata da Dagmar (Trine Lyndhorm), una donna più anziana e leggermente inquietante che le suggerisce di partorire e dare il neonato a lei che gestisce un’attività clandestina di adozioni per coppie altolocate che non riescono ad avere figli.
Nel frattempo fa il suo ritorno anche Peter (Besir Zeciri), il marito sfigurato da una granata che porta una maschera inespressiva sulle impressionanti ferite, ma Karoline non vuole saperne di lui. Si trasferisce da Dagmar proponendosi come balia per tutti i bambini che transitano tra quelle mura, senza sospettare che Dagmar nasconde un orribile segreto…
Il film è uno di quelli che richiede molta concentrazione e un po’ di pelo sullo stomaco, il tema (positivo) della solidarietà femminile è inquinato da una rappresentazione della maternità che può essere considerata mostruosa secondo il sentire comune ma che Dagmar sul finale rivendica per sé e per tutte le donne che l’hanno contattata.
Una piccola concessione all’happy ending non scalfisce un monolite filmico che piomba sul tuo stomaco come l’urto di un SUV danese. Da vedere, con riserva.