MEET ME AT THE MOVIES

Il tempo scarseggia. Già non è facile trovare una fetta di tempo libero. Quando la trovo, difficilmente ho qualcosa di sensato da dire. Di commentare l’attualità non se ne parla, ormai mi sembra che viviamo in un film di Boldi e De Sica. A scrivere arguti saggi su argomenti hi-tech/web/IT non ci penso nemmeno. La mia vita, solitamente tragicomica o grottesca, al momento è prevalentemente piatta (ehi… aspettate almeno che faccia la prima visita con gli stregoni della fertilità). L’unico elemento degno di nota è che anche quest’anno è arrivato il momento del Torino Film Festival.

Il mio momento.
Un momento in cui non ci sono cazzi, mi chiudo nell’oscurità della sala dalle 9 alle 19 e chi s’è visto s’è visto.

Quest’anno ho dovuto faticare un po’ a crearmi un percorso di visioni che non interferisse troppo col resto delle cose della vita. Ma si può fare. Intanto, mi sembra imprescindibile W. di Oliver Stone, il film che apre il festival. Insomma, noi abbiamo avuto Il Divo e loro adesso hanno W. Non riesco ad avere aspettative particolari, ma tra il regista e il cast stellare, mi sembra che il materiale di partenza abbia buone possibilità di trasfigurarsi in un capolavoro.

Poi, va beh, c’è la retrospettiva su Roman Polanski. Uno dei miei autori preferiti. Mi soffermerò a vedere un paio di film che ancora mi mancano, difficilmente reperibili altrimenti, tipo Cul de sac, Repulsion e soprattutto What? – magari introdotto dalla stessa Sydne Rome. Ci sarebbe Polanski stesso che presenta Chinatown, ma ormai ho imparato sulla mia pelle che – finiti gli anni degli accrediti stampa come se piovesse – è troppo difficile per me infilarmi nella bolgia. Largo ai giovani, insomma (e lo stesso vale per Michael Palin che presenta The Meaning of Life, sai che bordello?)…

Altri film che non mi lascerò sfuggire: Filth and Wisdom di Madonna (più che altro per curiosità e per una insana attrazione verso Eugene Hutz), Made in America di Stacy Peralta (un nuovo documentario dall’autore di Dogtown e Z-Boys, wow!), The Edge of Love di John Maybury (i triangoli amorosi di Dylan Thomas interpretati da Cillian Murphy, Keira Knightley e Sienna Miller… vuoi mettere?) e Let The Right One In di Tomas Alfredson (un curiosissimo teen-vampire movie svedese).

Per il resto, mi aggirerò tra via Verdi e via Po con un trancio di pizza fumante in una mano e un libro sulla British Renaissance nell’altra.
E scusate se non vi saluterò.
I miei occhi si saranno abituati al buio.

NO, EMANUELE NO!

E’ arrivato il momento di scoprire le mie carte di italiano medio. Non mento quando dico che guardo poco la televisione. Ci sono solo un pugno di programmi che guardo con assiduità. Un posto al sole all’ora di cena (è un po’ come la collezione di Dylan Dog, non è facile smettere quando sei un fan della primissima ora). Passepartout la domenica a pranzo (perché Philippe Daverio è il mio vero grande mito culturale) e Che tempo che fa la domenica a cena (più che altro per via di Luciana Littizzetto). Le Iene quando capita. E adesso, lo confesso, da otto settimane si è aggiunto X-Factor.

Di X-Factor, format inglese trasportato da noi con altissimo rischio “Amici”, apprezzo soprattutto la scarsa indulgenza in lacrime, polemiche tra i partecipanti, retorica della mamma e della fidanzata (anche se un paio di volte ci hanno provato, specie con i concorrenti campani). Uno show tutto sommato godibile, che nel corso della programmazione ha trovato la quadra dei tempi giusti, con un conduttore perfettamente medio e assolutamente invisibile (in questo Facchinetti è bravissimo, chiunque può pensare di essere più bravo di lui) e tre giudici dalla chimica esplosiva.

Tanto detesto la Ventura, alfiere del nazionalpopolare probabilmente piazzata in giuria proprio per evitare che X-Factor fosse un programma intelligente fino in fondo, quanto adoro la Maionchi, che è diventata la zia che avrei sempre voluto avere, quella che ti parla di musica e ti manda a cagare in un colpo solo. E poi naturalmente Morgan che gioca a fare il personaggio, il fratello maggiore dei musicisti, passando le sue innominabili (in televisione) pillole di cultura tra filosofia, letteratura greca e musicologia.

Tutto bene, insomma. Uno show da guardare in compagnia per commentare le esibizioni e ridere alle spalle dei cantanti più scialbi. Tutto bene fino a quando per la seconda volta il deus ex machina del “pubblico a casa” ha tentato (giustamente) di buttar fuori l’insulso Emanuele, il rocker da oratorio con la chitarra di Linus. Fin dall’inizio, tra tutti, mi è sembrato sospetto. E adesso è ancora lì, a scapito dei 6/8 – i Manhattan Transfer de noartri, che avevano certamente un po’ rotto i coglioni ma che sono mille volte più dotati.

Vabbe’, io mi sono scoperto e mi sono sfogato. E voi, cosa ne pensate? Non dite che non lo guardate, non ci credo. E se è vero vi consiglio almeno una fugace visione. Si ride parlando di musica pop, non è poi così male.

NESSUNO E’ GENTILE

Chi, come me, ha una visione grottesca della vita già di suo non può non identificarsi nel modo di raccontare di Virzì. Tutta la vita davanti – come e più di Ovosodo, My name is Tanino e Caterina va in città – ha questo effetto sullo spettatore. Almeno su chi è stato o è tuttora precario e su chi, appunto, vede la realtà sempre con un po’ di strabismo. A questo proposito, va fatta piazza pulita di un paio di preconcetti che accompagnano il cinema di Virzì e questo film in particolare.

Il film non è una rappresentazione fedele della realtà. Piuttosto, è uno specchio deformante dove gli intellettuali di sinistra sono ricchi e svagati, le burine arricchite hanno le poltrone leopardate e i monitor al plasma sempre sintonizzati sul GF, le operatrici del call center sono quasi tutte lobotomizzate e via dicendo. Non ha senso dire che la realtà ha molte più sfumature. E’ ovvio. Raccontare una storia vuole anche dire selezionare, evidenziare, caricare.  Raccontarla per il cinema, in particolare, vuol dire stabilire conflitti chiari e tirare le fila di ogni arco narrativo in due ore.

Virzì non ha mai fatto mistero di volersi richiamare ad una certa stagione della commedia all’italiana (quella dei primi anni ’70) che cita esplicitamente con lo spezzone di Scola. A chi sostiene che quel tipo di cinema non è più possibile, contrappongo una certezza: è possibile se c’è chi gli dà un’iniezione di vita e di attualità, nella fattispecie il Virzì stesso. Secondo appunto: il film è dichiaratamente di sinistra, come il suo autore. Ci mancherebbe che non fosse un film a tesi. Ci mancherebbe che non manipolasse un minimo la realtà per i fini della narrazione.

Con singolare maestria, Virzì è riuscito ad infilare in una trama da film corale tutte le situazioni possibili del marciume odierno: il precariato dei call center, le studentesse che si prostituiscono, i baroni/cariatidi universitari, la fuga dei cervelli, l’ossessione per il successo, le pensioni minime, la cultura da centro commerciale, l’impotenza e il nonsense dei sindacati. Va da sé che come sempre sceglie solo attori bravissimi e molto in parte per assegnargli “scene madri” molto sopra le righe (ma in un mondo sopra le righe non stonano per niente).

Isabella Ragonese (una Caterina cresciuta) è perfetta come scheggia di normalità in un mondo impazzito. Mastrandrea rappresenta bene la sconfitta di una sinistra che non riesce più ad “unire” e che parla al vuoto, perché le “nuove identità di lavoro” sono identità individuali, fintamente coese in gruppo ma prive di coscienza superiore. Ecco, dovessi dire, non ho gradito la rappresentazione delle telefoniste come un branco di decerebrate: credo che la maggior parte dei precari siano persone laureate che accettano quei tipi di contratto per disperazione. Ma mi rendo conto che per far risaltare la protagonista, le altre dovevano essere diverse da lei e tutte uguali.

Resta il sospetto che in tempi recenti Virzì abbia letto molto Ammaniti, dato l’improvviso calco sul pedale del pulp. Ma son cose che non dispiacciono, come del resto l’abbondanza di pelo fornita da Micaela Ramazzotti (già assurta nel mio personale olimpo della gnocca con Zora la vampira). A parte gli scherzi, mai visto un nudo più naturale. L’espressione di Mastrandrea dice tutto.

Ah, per concludere. Tutta la vita davanti non è un film divertente. Fa paura, ed è anche deprimente in modo quasi insostenibile. E’ veramente un film dove nessuno è gentile.