OPERAZIONE TABULA RASA

Cloverfield è geniale. Cloverfield è una cagata pazzesca. Non ci sono mezzi termini. Qualunque giudizio di valore si voglia dare sul film, non può lasciare del tutto indifferenti. Arrivando da una riflessione fatta proprio in questi giorni sulla pervasività sociale dello user generated content, non si può non vedere Cloverfield come una sorta di dimostrazione filmica, di trasposizione nel campo del mito di una pratica ormai fin troppo diffusa: riprendere sempre e comunque, perché poi c’è YouTube.

Cloverfield è affascinante, più riuscito e paradossalmente meno furbetto di Blair Witch Project, il film del 1999 cui viene costantemente paragonato dato l’uso di camera a mano e di continue soggettive dei protagonisti (nonché di tecniche di promozione basate su Internet). In BWP c’era in apparenza una maggiore intenzionalità della messa in scena, la scelta precisa dell’inquadratura, un gioco molto studiato tra il campo e il fuori campo. In Cloverfield sembra essere tutto spontaneo, il che favorisce maggiormente l’identificazione dello spettatore.

In realtà è tutto ancora più studiato: il finto montaggio “in camera” (in realtà, ovviamente, c’è un montatore bravissimo nel fare il suo mestiere scomparendo), gli effetti digitali grandiosi ma “imbruttiti”, le riprese che iniziano con una videocamera consumer per poi passare impercettibilmente ad una HD (ma non te ne accorgi perché ormai ti sei fatto prendere dalla storia). Insomma, un film che sottrae più che accumulare, che vuole a tutti i costi nascondere la macchina del cinema. Se non fosse per i titoli di coda, dove la Paramount riesce a sfogarsi inserendo una suite orchestrale che nemmeno John Williams, il finto “nastro ritrovato” risulterebbe credibile. Il colpo da maestro, poi, è il trucco della ripresa cancellata (per riprendere la catastrofe, i protagonisti usano un nastro già inciso in precedenza durante un romantico weekend a Coney Island).

Dal punto di vista della storia, Cloverfield è (a scelta) un film efficace e senza troppe sbavature oppure un compitino senza infamia e senza lode degno di un bambino in età scolare. Bisogna vederlo in relazione a quella che è la “formula americana” per la sceneggiatura di successo, alla quale Cloverfield aderisce perfettamente pur scostandosene a tratti in modo creativo. C’è un mondo felice, nell’Upper West Side, in cui due amanti si abbandonano al loro romanticismo quotidiano. E poi c’è la festa, la presentazione dei protagonisti (compreso lo sfigatissimo “operatore” che si vede due o tre volte in tutto il film) e l’ingresso nel mondo dell’incubo (prima esplosione). Dal lì in poi, un susseguirsi di trovate iconiche azzeccate (la testa della Statua della Libertà, la distruzione dei landmark più famosi di Manhattan) che portano su un piano superiore l’ovvia derivazione da Godzilla, La guerra dei mondi e simili.

Nel terzo atto, Cloverfield rispetta tutti i plot point canonici, compreso il finto finale con rilancio della tensione ad un livello ancora più alto, con annessa esposizione totale e globale del mostrone, che alla fin fine è un incrocio tra Godzilla, mamma Alien, Predator e le creature di Pitch Black (perché è una legge non scritta che, fin dal 1979, la vedette du film, c’est l’alien). Horror, fantascienza, film catastrofico e melodramma giocati in sottotono perché il vero senso del film è “dire i nostri nomi alla videocamera prima di morire”: la società dello spettacolo che vince.

A proposito del titolo: Cloverfield (“campo di trifogli”) è il nome in codice dell’operazione militare in italiano tradotta come “tabula rasa” che dovrebbe appunto radere al suolo l’intera isola di Manhattan lasciando solo un grande prato verde, dove non nascono più speranze. Il grande prato del post 11/9.

C’ERA UN RAGAZZO CHE COME ME…

Al brucio, se mi chiedete "Beatles o Rolling Stones", io vi risponderò sempre e comunque Rolling Stones. Perché è così, perché risuonano meglio dentro di me. Perché toccano le corde giuste. Poi forse c’entra anche Godard, c’entra Wenders, Altamont, gli Hell’s Angels. Quello che è. Però prima di arrivare agli Stones (come molti della mia generazione, credo) sono passato per i Beatles. Tra i 13 e i 18 anni ascoltavo solo il vangelo secondo Lennon e McCartney e l’ho assorbito talmente in profondità da averlo comunque nel DNA, come una cosa che non usi ma alla bisogna puoi estrarre dal cilindro. Ricordo che l’Oscar Mondadori illustrato con i testi dei Beatles era sempre in tasca, con le pagine che si staccavano a forza di impararlo a memoria, tradurlo e andare avanti col sing-along (allora non si sapeva nemmeno cosa fosse il karaoke). Recentemente ho avuto modo di rispolverare la mia conoscenza enciclopedica latente sui Beatles, osservando e ascoltando il musical atipico Across the Universe – il nuovo delirio psichedelico di Julie Taymor. Un film sicuramente da vedere. A me non ha emozionato, l’ho percepito come un’operazione culturale studiata a tavolino incastrando pezzi più o meno noti in una storyline un po’ raffazzonata dove i personaggi si chiamano Jude, Lucy, Sadie, Maxwell, Prudence, JoJo (capito? ci mancavano giusto Lovely Rita ed Eleanor Rigby ed eravamo a cavallo). Però è innegabile che gli attori siano estremamente credibili e interpretino i pezzi in modo quasi sempre originale. Nelle scene di massa le coreografie sono di Daniel Ezralow (che compare anche nell’inquietante ruolo di Mother Superior durante l’esecuzione di Happiness is a Warm Gun, una delle scene più riuscite insieme a I Want You, I Am the Walrus e Strawberry Fields Forever). Il film è quello che negli US si definirebbe "eye-candy", una chicca per l’occhio. E in effetti alla fin fine è un collage di videoclip quasi tutti molto ben riusciti. Poco dopo mi capita di rivedere Help di Richard Lester, nella nuova (ed elettrizzante) versione restaurata in DVD. E il cerchio si chiude. Non ricordavo più l’aspetto camp dei Beatles, che invece è così ben evidenziato in questo film. Il modo di procedere per accumulo di situazioni assurde degno dei Monty Python, il montaggio creativo necessario per nascondere gli strafalcioni recitativi dei quattro scalmanati e soprattutto le scene relative alle sette canzoni del film, veri e propri videoclip ante litteram. Lester racconta che MTV gli inviò una targa d’oro intitolata "Al padre putativo". Lui però l’ha rimandata indietro. Figli illegittimi, a quanto pare, non ne voleva.

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DANZANDO COI CAPELLI COTONATI

Il mio culto per il genere musical è cosa nota ai più, anche se poco condivisa. Non è un caso che i miei generi cinematografici preferiti siano il musical e l’horror, gli unici due in cui la specificità onirica del cinema viene portata allo scoperto senza filtro. Il cappello "serio" serviva a prepararvi al pistolotto entusiastico su Hairspray che segue. La prima volta che ho visto Hairspray avevo 18 anni. Il titolo italiano del film era "Grasso è bello". Era la prima volta che vedevo un film di John Waters (in seguito, sentendo una forte sintonia spirituale con il regista, avrei divorato tutti i suoi film). A 18 anni non ero grasso. Anzi, ero piuttosto anoressico (lo so che sembra impossibile, ma è tutta questione di metabolismo). Però ero grasso dentro. O meglio, ero un outsider, colpito dai personaggi di Waters, che indubbiamente sono tutti outsider. Ad ogni modo, la mia carriera di vittima del trash / kitsch / camp (iniziata a 7 anni quando mio padre mi accompagnò a vedere The Rocky Horror Picture Show) avrebbe presto preso altre strade, macinando altri prodotti culturali. Intanto Hairspray diventava un musical a Broadway, a mia insaputa. Il successo è totale, e lo dimostra anche il fatto che anni dopo, in una puntata di Ugly Betty, il giovane nipote di Betty canta Good Morning Baltimore sulla metropolitana di New York, in attesa di andare a vedere lo spettacolo. Orecchie (mie) drizzate: curiosità. E così arriviamo all’ultima versione di Hairspray, realizzata vent’anni dopo l’originale da un regista coreografo (Adam Shankman) e infarcita di star (Travolta, Pfeiffer, Walken). Una via di mezzo tra un remake del film di Waters e un film tratto dallo spettacolo teatrale. Un ibrido comunque ben riuscito che spinge anche il più refrattario ad entrare nel mondo colorato di Tracy Turnblad (Nikki Blonsky è la vera grande rivelazione del film) cantando e ballando. Il doppio DVD (subito acquistato con grande scorno dei colleghi che a quanto pare avevano deciso di regalarmelo per il compleanno) contiene più di tre ore di contenuti speciali, tra i quali l’imperdibile versione karaoke di tutte le canzoni del film e soprattutto le lezioni di ballo dei coreografi che hanno curato le scene di massa. Ieri sera, mentre provavo i passi di ballo davanti al televisore, mi sono disancato. Ma questo non mi fermerà. Presto imparerò tutte le parti, e potrò allestire una versione spaghettara dello show. Intanto, medito di acquistare i biglietti per vedere il musical a New York. You can’t stop the beat!

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