DIGITAL STRYX

Ecco un altro post di quelli che forniscono indizi ai lettori su come il sottoscritto è diventato il sottoscritto. Ovvero, formazione del gusto dell’artista da giovane. Gusto per l’eccesso, erotismo ambiguo, visione pansessuale della vita, kitsch e camp. Non è solo perché a sette anni ho visto The Rocky Horror Picture Show. Tanto non l’avevo nemmeno capito del tutto. La colpa è di Stryx.

Se lo ricordano in pochi. Si tratta di un varietà in sei puntate trasmesso dal secondo canale (allora si chiamava così) nel 1978. La domenica sera io ero ipnotizzato di fronte ad una delle prime trasmissioni in technicolor della televisione italiana. C’era stato Non Stop l’anno prima (sempre di Enzo Trapani, indimenticato maestro della regia televisiva). Era già una novità, e sarebbe stato saccheggiato (meglio: copiato) da Drive In sei anni dopo. Ma Stryx è stato un caso unico nella televisione italiana, e forse mondiale.

Di varietà si trattava, indubbiamente. Ma di un concept-varietà, come quei concept-album tanto cari ai gruppi progressive che da noi andavano ancora per la maggiore. Stryx prendeva il nome dal termine latino strix (civetta) – ma le “strie” sono anche le streghe in alcune zone d’Italia. Il nome dice già tutto: lo show era improntato ad un satanismo di maniera e ad un erotismo dark e sopra le righe. Lo studio era strutturato come l’antro di un negromante (o un girone infernale, fate voi), con animali vivi che vagavano qua e là, donne a seno nudo (le prime tette viste a Stryx segnavano la vita degli odierni 40-something) e soprattutto tantissimo ghiaccio secco, perché il fumo bianco era d’obbligo.

Sorvolando sul presentatore (un “diabolico” Tony Renis, assolutamente improbabile nei panni dell’adepto di Satana) e su alcuni siparietti comici tra i quali spiccava Ludmilla, la fattucchiera alla camomilla (Ombretta Colli, gente… Ombretta Colli!), quello che importava era il corpo di “ballo” e i numeri musicali. Il primo era costituito da signorine discinte che per lo più mimavano amplessi e si facevano torturare da signori incappucciati che a volte mimavano anche innocenti sacrifici umani. I secondi erano sempre gli stessi, ma ogni puntata diversi e più assurdi.

Ogni artista ospite fisso aveva il suo nick. C’era sempre Patty Pravo (fresca di “Le Ore”): lei era Subliminal Stryx. Poi c’erano Grace Jones (Rumstryx) e Amanda Lear (Sexy Stryx). Grace era nel pieno del suo periodo disco, e Amanda… beh, era il sogno erotico per eccellenza, e aveva appena pubblicato il suo album di maggior successo, Sweet Revenge. Che tra parentesi, a 16 anni vendetti a un collezionista in cambio di Trespass dei Genesis, e ancora oggi non so se ho fatto un buon affare.

Poi c’era Branduardi (il Folletto) in versione medieval-satanica che eseguiva con perizia ineguagliabile i pezzi tratti dai suoi primi due album (gli unici validi a mio avviso). Branduardi in seguito non sarebbe mai più stato così dark. Sembrava il Corvo, o meglio Sandman, con i capelli ricci. Poi c’era Anna Oxa (Stereo Stryx) nel suo periodo androgino/punk che la faceva sembrare una Lisbeth Salander ante litteram. Per finire Gal Costa (Stryx do Brasil), Asha Putli (Indian Stryx) e Mia Martini (Gypsy Stryx). A chi storce il naso va detto che la Martini all’epoca era un gran pezzo di gnocca autoironica.

Ora, a parte Branduardi (e gli Area, che in una puntata irrompono eseguendo il loro meraviglioso Hommage à Violette Nozières), tutte le altre cantanti esponevano in un contesto caro a molti fumetti sexy dell’epoca quanti più centimetri di pelle possibile. Osservare Patty Pravo nel clip di Johnny (capelli alla Madonna, trucco alla Bowie, attitude berlinese e piccoli seni in vista): tra lei, Amanda e Grace, l’eccitazione e la trasgressione erano garantite.

A vederlo oggi, Stryx, c’è da sorridere. Trapani aveva appena scoperto il chroma-key e ne faceva un uso smodato, mentre guardi i clip ti sembra che debba uscire Claudio Simonetti da un momento all’altro e i tempi sono lunghissimi rispetto a una qualsiasi trasmissione odierna. Ma – tette e culi a parte – come trasgressione oggi siamo tornati a livelli da pre-riforma RAI. Quindi, approfittate della mia opera di ricercatore d’archivio, e godetevi la mia playlist Stryx su YouTube. C’è da ammalarsi di nostalgia.

CINECLUB (DA GRANDE)

Sapete quando da piccolo ti chiedono cosa vuoi fare da grande. Io ho sempre risposto l’idraulico (perché avevo già capito che è la categoria che guadagna e tromba di più in assoluto) oppure il papa (non chiedetemi) o il gestore di cineclub. Il cineclub è quella cosa che adesso – forse – sopravvive in piccole città di provincia, in qualche sala parrocchiale o in città d’estate quando fanno le rassegne nelle arene. Quando ero piccolo io il cineclub era un’istituzione. A Torino ce n’era uno (il Movie Club) che ho mancato di poco. Ci andavano personaggi che ammiro, come Steve Della Casa o Roberto Turigliatto. Io però ho cominciato ad andare al cinema da solo nel 1983, ed ero in quell’età idiota dove si preferisce un Flashdance con i compagni di scuola ad un Nostalghia da solo.

Che poi detto così sembra che il cineclub sia un luogo palloso. Tutt’altro. A me ad esempio piace molto stare solo in una sala buia. Ammetto che a Nostalghia preferisco sempre L’infanzia di Ivàn, ma non è questo il punto. Mi piace l’idea di un film guardato con uno scopo. Lo scopo può essere capire il testo, capire qualcosa del mondo, capire qualcosa di un autore. O anche solo (la cosa più divertente) capire i rimandi e i parallelismi tra un testo e un altro. Insomma, tutto quanto va al di là del guardare un film “perché voglio spegnere il cervello per un po’”. Che è poi quello che il lavoratore medio (me compreso) tende a fare quasi ogni volta che guarda un film.

Quando studiavo era diverso, guardavo tre o quattro film al giorno, senza contare la pratica del ri-guardare, che metto volentieri in atto ancora adesso (per alcuni film supero quota 10 visioni, non so voi). Oggi ho una considerevole collezione di DVD, con una larga preponderanza di film anteriori al 1983. Al momento credo siano circa 600 film. E a volte mi trastullo con l’idea di organizzare un piccolo cineclub privato a casa mia. Infattibile per più di cinque spettatori, è chiaro. Ma sarebbe bello. Sarebbe bello non doversi svegliare presto la mattina e poter vedere tre film di seguito. Organizzare mini percorsi tematici e/o autoriali.

Ad esempio: la serata “iper-realismo americano” con triple feature Paris, Texas / Un sogno lungo un giorno / Un bacio romantico. Oppure la serata “video nasties italiani” con L’aldilà / Cannibal Holocaust / Démoni. E che dire della serata “visual gag” con Playtime / Hollywood Party / Mr. Bean’s Holiday. Di percorsi ce ne sarebbero molti. Si comincia alle 21 e si tira avanti fino alle 3. O, nel caso di “saghe tolkieniane” fino alle 9 del mattino successivo, perché la maratona non sarebbe tale senza i director’s cut dei film di Peter Jackson.

Poi, va beh, non lo faccio. Al limite mi esercito con la mia vittima predestinata propinandole oscuri film ungheresi quando è stanca. Di norma scatta il fermo immagine e la mia esclamazione di giubilo per l’inquadratura ben costruita alla quale Stefi risponde con un russo più pronunciato degli altri. Ma spero di poter contagiare con la mia malattia almeno un erede. Fargli/farle vedere Bergman a cinque anni, come il sottoscritto… Un piccolo trauma che auguro a tutti 🙂

DUE FILM TAMARRI CHE HO VISTO

I film tamarri non mi sono mai dispiaciuti. Nonostante abbia la fama di colto cinefilo che “ama François Truffaut e Billy Wilder”, come sta scritto sul retro di copertina del mio unico libro. Cioè, è vero, per carità. Io mi entusiasmo per sequenze come questa, questa, questa o questa. Ma non dico mai di no alla santa trinità tamarra “donne, motori e pistole“. Se ci sono le donne è matematica la scena dell’amplesso; se ci sono i motori è d’uopo l’inseguimento interminabile; se ci son le pistole (o meglio i mitra) non si sfugge dalla sparatoria. Poi quando finiscono i proiettili si può passare a farsi il culo a mani nude. Sesso, velocità e ultraviolenza. Questo è quello che chiediamo ai film tamarri.

Ma non sempre il film tamarro ci accontenta. Intanto, per dirne una, il sesso passa sempre di più in cavalleria. La maggior parte dei film tamarri sono americani, e loro non amano “la visione della figa da vicino”. Perciò dobbiamo accontentarci di gran gnocche semisvestite ma quasi mai in azione. Inutile ricordare i bei tempi del grindhouse. Ormai va così. Sugli inseguimenti e le ammazzatine, invece, si può sempre contare. Perché se i giovani virgulti non devono pensare a trombare, possono e anzi devono pensare a come organizzare il loro piccolo genocidio privato.

Recentemente, il film tamarro vuole elevarsi a genere “nobile”, incorporando storie complicate, frammentazione della narrazione, gusto postmoderno, etc. Non è questo il film tamarro che vogliamo. Il vero film tamarro, come il porno, ha una trama molto elementare e basa tutto il suo appeal sulla velocità e sulla violenza. Ebbene, amanti del film tamarro, ho appena recuperato due perle di rara tamarriade che non potranno non farvi saltare sulla sedia: Death Race dell’ineffabile Paul W.S. Anderson e Doomsday di Neil Marshall.

In Death Race (remake di un poderoso Corman d’annata) c’è il poliziotto sfigato che gli uccidono la moglie e lui va in una prigione futuribile dove organizzano nientepopodimeno che la Death Race. In questa corsa della morte ci sono i più zozzi criminali del comprensorio che gareggiano a chi si impala o si decapita più fantasiosamente. Si vedono più interiora che esteriora, e le macchine sono conciate un po’ come nel buon vecchio Wacky Races (manca solo Muttley). Sulla pista interna al carcere ci sono anche i punti di attivazione armi o scudi di protezione. Anderson non riesce proprio a non buttarla sul videogame. Ci sono diversi one-liner non da poco e poi c’è Jason Statham, che è un po’ lo Steven Seagal dei giorni nostri.

Doomsday invece è descrivibile con la tecnica del “meet” (ricorda X incrociato con Y). Doomsday è 1997 Fuga da NY meets Interceptor meets Timeline meets 28 giorni dopo meets Virus Letale. Pur essendo derivativo abbestia, Doomsday è una totale gioia per gli occhi. Dove altro trovi, nel 2009, punk cattivi coi crestoni, i tatuaggi e i piercing che si dedicano al cannibalismo, alla decapitazione rituale e alla tortura con frullo di lingua annesso? (La scena di tortura con frullo di lingua alla Gene Simmons è quello che distingue un film tamarro da un normale film drammatico). C’è uno Snake Plissken donna – molto gnocca – che va in Scozia (la Scozia ovviamente è una terra di nessuno isolata e devastata dal virus dove ci stanno solo i peggio punx) e scopre che in realtà una delle tribù di punx vive in un castello alla foggia medievale. Alla fine, vi dico solo che c’è l’inseguimento topico accompagnato da Two Tribes dei FGTH.

Mi ringrazierete per avervi consigliato di recuperare queste due perle della passata stagione, lo so. Intanto preparate il popcorn e innaffiatelo di ketchup e maionese.
Vi sembrerà materia cerebrale. Yuk!