THE SUICIDE SQUAD E GLI ANNI ’50

Agosto, per me il mese cinematografico per eccellenza. Si riesce magari a vedere qualche blockbuster buttato là (uno dei quali si candida a miglior film dell’anno), qualche perla indie scavata tra i servizi di streaming, e soprattutto, complice una vacanza senza connessione, una manciata di capolavori anni ’50-’60 da riscoprire. Stavolta è un po’ lunga, e so che con ogni probabilità ve ne siete perse qualcuna, perciò condite il rientro dalle vacanze con il listone delle rece! Andiamo senza meno a incominciare.

FIRST COW (Kelly Reichardt, 2019)

Amici, First Cow è su Mubi. Si tratta di un western sui generis – sì, lo so, non è il genere che vi aspettate in una delle mie #recensioniflash, ma si tratta comunque di un film A24 che l’anno scorso (in piena prima ondata Covid) ha discretamente spaccato e ha vinto il New York Film Critics Circle Award, mica cazzi. E allora com’è questo First Cow? Si merita la nomea di film lunghissimo lentissimo indie-issimo? Beh, un po’ sì. Non vedevo un western così fuori dai tempi di Dead Man di Jim Jarmush – anche se qui c’è meno misticismo e più sporca frontiera dell’Oregon. Il film parte molto in stile A24 – rapporto d’aspetto 4:3 e inquadrature che durano 30-40 secondi (la prima è una sorta di lunghissima nave container che attraversa il quadro e te la fanno vedere tutta senza pietà). Quando sei lì che pensi dio mio ma è una palla senza senso, arriva la stecca: una donna non meglio identificata, vestita in abiti moderni (ma non era un western?) scava e scava per buoni due o tre minuti e scopre due scheletri sepolti vicini. Stacco. Siamo nel 1820 e Cookie è un cuoco al seguito di un variopinto gruppo di trapper. Incontra nei boschi King Lu, un cinese fuggitivo e fanno amicizia. Il loro rapporto è il fulcro del film, un inno alla bromance e un calcio in faccia alla mascolinità tossica. Come protagonista di un western Cookie è realmente atipico: alla pistola preferisce la frusta per dolci, cura i bambini durante le risse da saloon, dispone fiori selvatici in casa per abbellire le stanze. A un certo punto, a metà del film che comunque dura più di due ore, ve lo dico, arriva la mucca del titolo. I due ci vedono un’opportunità di business e in pratica mungono la mucca di nascosto durante la notte e fanno una piccola fortuna preparando e vendendo gli struffoli napoletani. Gran parte del secondo atto è imperniato sugli struffoli e su quanto sono buoni e su quanto ci sta bene sopra il miele e anche una spruzzata di cannella, finché non arriva – dall’ignaro padrone della mucca, nientemeno – l’ordine per un clafoutis (calcano molto questa parola, CLA-FOU-TISSS, la dicono almeno cinque volte e sa già di condanna a morte). In effetti quando il padrone della mucca si rende conto che Cookie e King Lu gli stavano rubando il latte sotto il naso si incazza non poco. Il finale come in tutti i film indie-issimi non è un vero e proprio finale ma tanto sappiamo già come va a finire. Dire capolavoro non saprei, comunque un film che per più di due ore ti tiene agganciato alla storia di un pasticciere del 1820 in cui la maggior parte delle inquadrature consiste in azioni umane nascoste alla vista da un’impenetrabile coltre di rami, foglie e felci, è sicuramente qualcosa.

F9: THE FAST SAGA (Justin Lin, 2021)

C’è poco da fare, io dopo che vedo un film della Fast and Furious Saga sono sempre, invariabilmente fomentato a mille. F9 non fa eccezione, anche se – diciamolo pure – il franchise sta mostrando la corda già dall’episodio 6 e ormai fa specie vedere tutti i personaggi così… invecchiati. Torna Justin Lin in cabina di regia e partono le sequenze d’azione sempre più spettacolari: credeteci o meno, stavolta vanno nello spazio con una Ford che monta propulsori a razzo, poi tanto per pompare sul versante dell’assurdo i nostri eroi trovano dei supermagneti potentissimi che montano sulle loro auto per causare delirio e sfasciamento globale di lamiere in un’orgia di incidenti e accatastamenti che il finale dei Blues Brothers gli spiccia casa. Vabbè ma a parte questo, la trama? Ma che davvero? Esiste una trama? Diciamo che c’è una backstory o due che fanno la novità: una storia del passato di Dom Toretto negli anni ’80 e la comparsa del fratello Jacob (John Cena, monolitico) nel ruolo del supercattivo che però poi si redime – un pattern tipico di FF – perché in fondo anche lui è parte della FAMIGLIA. E poi c’è il barbatrucco di Han, uno dei personaggi più amati, morto in FF6 e magicamente risorto qui (eeeh era tutta una finta perché Shaw credeva di averlo ucciso ma no lui era d’accordo con… vabbè non sto a dirvi che tanto è una roba assolutamente da soap opera). Sul fatto della sospensione dell’incredulità (sempre più difficile ma assolutamente NECESSARIA per guardare un film della FFS) ci giocano persino i dialoghi con intere scene a dire “Ma vi siete mai accorti che ci sparano e ci esplodono in continuazione ma non abbiamo nemmeno un graffio?”… In tutto il film di 147 minuti possiamo contare almeno 40 minuti di abbracci tra personaggi perché è sempre tutto un “Minchia è dalla scorsa missione che non ci vediamo, siete troppo la mia FAMIGLIA” o “Porcoddue ti credevo morto e invece eccoti qua” e 107 minuti di esplosioni. C’è anche Charlize Theron che fa l’imitazione di Hannibal Lecter, Helen Mirren che drifta davanti a Buckingham Palace, la tradizionale grigliatona di fine film e una immancabile scena post credits che ripesca dal mazzo anche Jason Statham (in F9 manca solo The Rock e poi ci sono proprio tutti tutti). Bon, se vi piace la saga direi che non potete perderlo, anche se Vin Diesel sembra sempre di più un robot a immagine di Vin Diesel. Se invece non ve ne fotte nulla, avete perso due minuti della vostra vita a leggere una rece inutile… #recensioniflash

VIVO (Kirk DeMicco, 2021)

Avete presente la mia teoria su animazione, musical e horror che sarebbero i tre generi cinematografici per eccellenza in quanto unici nel proporre per forza di cose un mondo radicalmente alternativo a quello reale, in cui sullo schermo può succedere di tutto in barba a qualunque legge della fisica e che QUINDI rappresentano il cinema per eccellenza? Se non l’avevate presente ve l’ho detta adesso. E comunque tutto ciò per dire che è finalmente uscito Vivo su Netflix ed è un bel musical d’animazione e che se avesse anche un lato horror sarebbe il film perfetto. Ma non si può avere tutto dalla vita. Però Vivo è un film da vedere assolutamente, anche se io personalmente non ne amo molto il character design un po’ spigoloso e molto Sony Pictures Animation (stile Mitchell contro le macchine ma più fastidiosamente squadrato, ma questo si spiega con il fatto che il regista è lo stesso dei Croods, forse il film d’animazione più fastidioso dell’ultimo decennio). Ecco, ma torniamo al lato musical. Vivo è un progetto di dieci anni fa di Lin-Manuel Miranda, che ha scritto 11 canzoni per il film con il suo stile riconoscibilissimo. Come per Hamilton e In The Heights lo accompagna alla direzione musicale Alex Lacamoire, i testi sono della librettista di In the Heights Quiara Alegrìa Hudes, la produzione è affidata a Rich Moore (Zootropolis, Ralph Spaccatutto, Ralph Spacca Internet). Con un dream team di questo calibro è difficile che venga fuori un film brutto. Ovviamente Lin-Manuel è il protagonista Vivo, un cercoletto (stranissimo incrocio tra una scimmia e un procione) che fa spettacoli musicali a L’Avana con l’anziano Andrés. Andrés viene invitato al concerto d’addio di Marta, la più famosa cantante cubana espatriata a Miami nonché suo segreto amore da più di 50 anni. Andrés è molto contento dell’invito, talmente contento che… vabbè, no spoiler, comunque per Vivo si prospetta un’avventura caleidoscopica piena di canzoni, animali assurdi, una bambina psichedelica e una missione da portare a termine. In italiano (stringetevi a me) Vivo è Stash dei The Kolors, mentre la cantante Marta (in originale, inevitabilmente, Gloria Estefan) è la brava Simona Bencini dei Dirotta su Cuba. Comunque raga, sempre meglio l’originale con i sottotitoli. Anche se il doppiaggio italiano stavolta non è proprio da strapparsi i testicoli e infilarseli nelle orecchie come spesso succede. Vivo è stato presentato in anteprima fuori concorso al Giffoni Film Festival e finalmente è qua – era pronto dal 2019, hanno rimandato e sperato fino all’ultimo nelle sale e poi lo hanno venduto a Netflix. Come va la vita a volte, eh. #recensioniflash

THE SUICIDE SQUAD (James Gunn, 2021)

I fumetti sono una cosa fica… Lo sono per me dagli anni ‘70 e continuano ad esserlo ancora oggi, anche se non sono più un Marvel e DC fanboy. I cosiddetti cinecomics negli anni ‘80 erano una cosa eccitante soprattutto grazie al talento e al saper fare del compianto Richard Donner. Negli anni ‘90 i cinecomics virano al dark e ci sentiamo tutti più maturi anche se con quella punta di visionarietà con Tim Burton. Negli anni ‘00 arriva Sam Raimi e tutti gridiamo al miracolo. Gli anni ‘10 sono interamente dominati dal Marvel Cinematic Universe e inevitabilmente le cose cominciano a farsi noiose, prevedibili, ripetitive, tranne poche eccezioni. Una delle quali è il salto sulla poltrona che ci ha fatto fare il primo Guardians of the Galaxy. A parte che James Gunn era già nei radar dai tempi della sua militanza nella Troma, ora che ha divorziato da Disney/Marvel ed è approdato alla Warner/DC dove gli hanno affidato una sorta di remake/reboot del moscissimo Suicide Squad lui ti fa il botto, cazzo, e ti tira fuori negli anni ‘20 THE SUICIDE SQUAD, il cinecomic definitivo. Iperviolento, grondante humor nero, con personaggi sopra le righe che si permettono comunque quel minimo di approfondimento che serve per affezionarsi, camei spettacolari (Michael Rooker, Nathan Fillion, Taika Waititi), una Harley Quinn finalmente a fuoco (se ricordo che l’ultimo film che ho visto in sala prima del primo lockdown fu proprio Bird of Prey e quanto mi aveva rotto le palle) e poi King Shark. Grande amore per questo ruolo spettacolare di Stallone che – è proprio il caso di dirlo – si mangia tutte le scene dove appare. Non ci vuole molto, sapete. Basta abbracciare l’estetica fumettistica senza pensare di fare per forza il grande autore ma farlo bene, con amore, con il gusto per il sangue e le mazzate. Come Deadpool, ma meglio perché qui non c’è l’ansia di dover fare una battuta di spirito ogni 30 secondi. L’umorismo (nerissimo) sta nella situazione più che nei dialoghi, pur brillanti. Scene preferite: il massacro nel campo dei guerriglieri dell’isola di Corto Maltese (!!!), il massacro degli aguzzini di Harley Quinn, il massacro dei soldati a Jotundheim, il massacro delle stelle marine fluo aliene quando esce Starro il conquistatore (gran trovata riesumare un villain così stupido eppure così minaccioso). Il mio livello di entusiasmo è pari a quando a 13 anni per la prima volta ho visto in tv 1997 Fuga da New York, e non è poco (del resto la premessa della trama è simile). Insomma, sono contento e amo James Gunn. Tra l’altro colonna sonora eccezionale e non ruffiana (The Fratellis, Jim Carroll Band, Black Francis) e gustose scene mid- e post-credits. #recensioniflash

SHOCK CORRIDOR / THE NAKED KISS (Samuel Fuller,  1963-4)

Amici, questa sera vi voglio presentare il mio amico Samuel Fuller, con un Late Night Double Feature Picture Show a base di Il corridoio della paura (1963) e Il bacio perverso (1964), il primo reperibile su Prime, il secondo su Plex.tv. Samuel Fuller, una introduzione. Si tratta di un regista cuscinetto, nel senso che con altri come Aldrich o Peckinpah ha contribuito a un radicale rinnovamento di Hollywood a cavallo tra i ’50 e i ’60 portando poi alla nascita di quella che conosciamo come la New Hollywood dei primi anni ’70. Samuel Fuller è un mio amico nel senso che l’ho conosciuto prima di tutto di riflesso, per i suoi cameo in film che amavo come Pierrot le Fou di Godard (in cui Fuller nel ruolo di sé stesso programmaticamente dice “Il cinema è come un campo di battaglia: amore, odio, azione, violenza, morte, in una parola: emozione”) o L’amico americano, Hammett e Lo stato delle cose del mio amato Wim Wenders. Fuller è talmente alieno rispetto alla produzione media hollywoodiana che dalla fine degli anni ’60 in avanti gli negano qualsiasi finanziamento di fatto relegandolo al silenzio. Ed ecco cosa vi propongo. Il corridoio della paura (Shock Corridor), rivisto da poco a 30 e più anni dalla prima visione, ha sempre la stessa forza. Non è un film che passa facilmente in televisione: è un thriller / horror / inchiesta in cui il protagonista è un giornalista che – per risolvere un caso di omicidio in un manicomio – si fa internare fingendo di essere pazzo per risolvere il caso. Peccato che a stare con i pazzi… Vabbè. La premessa è abbastanza lineare. La psicoanalisi era stata già sdoganata da Hitchcock con Psyco tre anni prima, ma questo film va oltre. Si parla di incesto, feticismo, sessualità deviata (il protagonista chiede aiuto alla fidanzata, che gli regga il gioco fingendo di essere la sorella molestata). Nel contesto del reparto psichiatrico maschile si mostra una vita claustrofobica, ossessiva, fatta di ombre ed elettroshock, terapia idropinica e schizofrenia con monologhi sulla guerra, la morte, il razzismo sistemico (un tema molto caro a Fuller) ed esplosioni di violenza inaudita. A un certo punto tutto vira sul surreale, mentre la mente del protagonista si spezza, in una sequenza angosciante in cui all’interno del set (il corridoio del titolo, sempre lo stesso) si sviluppa una tempesta di pioggia. Da vedere assolutamente. Ugualmente inquietante è Il bacio perverso (The Naked Kiss) in cui Constance Towers – che in Shock Corridor era la fidanzata del protagonista – è una ex prostituta che cerca di cambiare vita, viene assunta come infermiera in un’ospedale pediatrico e trova l’amore della sua vita, solo che quando sta per sposarsi scopre un’orribile segreto… Vabbè anche qui no spoiler, comunque è di nuovo un film assolutamente di rottura. Intanto c’è un cold opening DELLA MADONNA in cui lei prende per dieci minuti buoni a scarpate in faccia il suo protettore che ha preso più della percentuale dovuta e nella lotta furiosa che ne consegue si capisce che lei porta una parrucca perché in realtà è rasata a zero (la cosa è poi spiegata più avanti). Poi titolo e a seguire una storia di provincia che può sembrare banale e sonnolenta ma è punteggiata di primi piani che rendono tutto sempre molto minaccioso. A mezz’ora dalla fine il punto di non ritorno e da lì l’angoscia. Espressionismo a piene mani nella fotografia, montaggi serratissimi, sovraimpressioni, in una storia sordidissima che rimesta tra prostituzione, pedofilia e criminalità organizzata. Roba che non ti aspetti in un film americano del 1964. E invece è proprio da qui che nascono i nostri amati Tarantino, Jarmusch, ma poi se è per questo anche Scorsese, che lo ha sempre citato come un maestro personale. Fuller si permette persino un’autocitazione, con la protagonista di Naked Kiss che passa incuriosita davanti a una sala cinematografica dove proiettano Shock Corridor. Film straconsigliati per queste calde notti: l’effetto è quello di una bella secchiata d’acqua gelata in faccia. #recensioniflash

SUMMER OF SOUL (Questlove, 2021)

Ciao! Volete la bellezza, anzi la BELLEZZA tutta maiuscola? Su Disney+ c’è da qualche giorno Summer of Soul – un documentario di Questlove. La premessa è intrigante: sapevate voi che lo stesso anno di Woodstock (1969) si tenne in un parco di Harlem un festival di black music con Stevie Wonder, Nina Simone, Sly and the Family Stone, Mahalia Jackson, Mavis Staples, Gladys Knight e molte altre voci soul afro funky jazz latino nuyorican blues e chi più ne ha più ne metta? No, non lo sapeva nessuno perché non fregava nulla a nessuno. Tutto il festival è stato filmato e per 50 anni è stato ad ammuffire in uno scantinato di Harlem. Fino ad ora. Basterebbe questo, poi Questlove monta tutto con interviste ad artisti, attivisti e spettatori del 1969 ritrovati oggi e contestualizza il tutto in maniera discreta. Due ore e qualcosa di beatitudine. Accorrete numerosi. #recensioniflash

ASSAULT ON PRECINT 13 (John Carpenter, 1973)

È sempre cosa buona e giusta guardare Assault on Precint 13 almeno una volta l’anno. Per me sta nella top 3 dei migliori Carpenter di sempre e comunque è un film che non ha mai (ripetete con me) NON HA MAI avuto un remake con Ethan Hawke e Laurence Fishburne. Un film perfetto, con dialoghi perfetti, ritmo perfetto, forse con il primo omicidio di bambina a tutto schermo (è un po’ la causa scatenante di tutto il bordello e non ho mai capito come gliel’abbiano fatta passare, che si sa che a Hollywood cani e bambini sono intoccabili e al massimo devono morire fuori campo). Detto ciò, Amazon Prime ha un grande problema con i film degli anni ’50-’60-’70: ottima resa video ma audio inglese quasi sempre senza sottotitoli. Mi pare un limite grosso. Poi devo dire che i film di quel periodo siamo abituati tutti a vederli doppiati fin dai tempi delle maratone notturne su Italia 1 quindi non infastidice la traccia audio italiana, però cazzo. #recensioniflash

RAW (Julia Ducournau, 2017)

Ero lì che ripensavo a Nanni Moretti e al suo sarcastico post sulla vittoria a Cannes di Julia Ducournau e mi son detto vediamo questo Raw, il suo lungometraggio horror d’esordio del 2017 (l’avevo in canna da tre anni ma sta nel mucchio di quei film “pescati in giro” che poi mi dimentico di guardare). Ora. Da qui a dire che è il miglior horror del decennio secondo me ce ne passa. Però qualche intuizione interessante c’è. Qualche giorno fa ho scritto un post relativo al consumo di carne rossa. Chi lo ha commentato con cognizione di causa (voi sapete chi siete) dovrebbe certamente vedere Raw. In pratica è un film su una matricola che si iscrive a veterinaria, entra nel magico mondo della goliardia universitaria e del nonnismo estremo, viene vessata con tutte le altre matricole in modi anche un po’ esagerati, ma in un certo qual modo riesce a passare gli esami e a far cose con il suo compagno di stanza gay (evidentemente confuso). Ah, dimenticavo di dire che la tipa è vegetariana stretta proveniente da una famiglia di vegetariani strettissimi anche un po’ cagacazzi, e come iniziazione da matricola le fanno mangiare reni di coniglio crudi e robe così (il vomitevole in questo film c’è, ma è quasi tutto riferito alla facoltà di veterinaria tipo la scena della sorella di lei che ravana col braccio infilato fino al gomito nel culo della vacca). Vabbè quindi, veterinaria a parte l’horror dove sta? Nel fatto che dopo aver mangiato il rene di coniglio crudo, la protagonista scopre che le piace assai la carne. Cruda. E possibilmente umana. Da lì in poi inquietanti e ambigue rivelazioni fino al bagno di sangue finale. Interessante è interessante, ma mi aspettavo molte più scene di cannibalismo. Invece, ripeto, è sostanzialmente un film sul disagio della facoltà di veterinaria. #recensioniflash

THE LOUD HOUSE MOVIE (Dave Needham, 2021)

Ciao, se non sapete nulla di The Loud House probabilmente non vale la pena che vi guardiate The Loud House Movie uscito da pochissimo su Netflix. Però sappiate che vi siete persi una delle poche serie animate veramente valide degli ultimi 4 o 5 anni. A casa dei Loud (così passa su Super, canale 47) è una serie ideata e realizzata da Chris Savino, uno che lavorava con Genndy Tartakovsky ai gloriosi tempi di Dexter’s Laboratory e che quindi ha fatto la storia di Cartoon Network. Poi è passato a Nickelodeon dove è riuscito a risollevare un canale in crisi dal punto di vista dell’animazione con la storia di una famiglia di padre, madre, dieci figlie femmine e un solo maschio. Le sorelle Loud hanno ognuna una propria peculiarità (la sportiva, la emo/dark, la stilista, la scienziata, la rockettara, la golfista, etc). Lincoln Loud invece è un po’ un everyman, ma è “l’uomo con un piano” che sa sempre come risolvere la situazione, aiutare le sorelle e così via. In questo film i Loud vanno in Scozia a cercare le loro origini. Il tutto condito da animazione esilarante, umorismo demenziale, canzoni con le cornamuse e soprattutto David Tennant. Per me è un sì convinto, poi bisogna vedere cosa ne pensano i vostri bambini (interiori o meno). Peraltro non è nemmeno così necessario aver visto la serie prima, nei primi 10 minuti di film c’è abbastanza contesto da capire tutto. Enjoy! #recensioniflash

HOUSE ON HAUNTED HILL (William Castle, 1959)

Ci son giornate di pioggia qui al mare che uno non può fare a meno di rifugiarsi nei “comfort movie”, o quanto meno in film mai visti ascrivibili a un genere “comfort”, tipo gli horror anni ‘50. Tipo House on Haunted Hill (La Casa dei fantasmi) di William Castle con Vincent Price. Castle è sinonimo di jump scare (anzi, lo ha inventato lui) e Price è sinonimo di perfidia gigionesca (l’ha inventata lui, di nuovo). Qui Price è il miliardario padrone di casa (una villa modernista per nulla gotica) che invita alcuni personaggi a passarci la notte: chi rimane vivo avrà 10.000 dollari in premio. Ci sono in ballo veri o supposti fantasmi, trame omicide incrociate e una messa in scena a volte un po’ grezza ma efficace. Inquietantissimi i custodi della villa, deliziose le teste mozzate decomposte che spuntano qua e là, immancabile la vasca di acido in cantina (chi non ce l’ha nella sua villa?) che fa il suo dovere nel finale. Divertente, tutto in italiano su YouTube. #recensioniflash

THE BRAIN THAT WOULDN’T DIE (Joseph Green, 1962)

Un altro bellissimo horror anni ‘60 assolutamente da recuperare è The Brain That Wouldn’t Die (Il cervello che non voleva morire, di Joseph Green), una produzione AIP cattivissima e fuorviante fin dal titolo (il cervello in questione vuole tantissimo morire, è che semplicemente non può). La situazione è quella del medico folle un po’ Frankenstein che sostiene di dover sperimentare sugli umani. Cioè, lo ha anche già fatto, infatti tiene chiuso in cantina un mostro che non si vede mai (ma quando si vede alla fine è spettacolare e si capisce da dove arriva il Toxic Avenger della Troma). Comunque sia il presuntuoso e antipatico protagonista ha un incidente d’auto nel quale la bella fidanzata resta decapitata. Ovviamente lui cosa fa, porta la testa nel suo laboratorio e la collega con cavetti e tubicini per farla restare in vita. Nel frattempo lui si aggira nel sottobosco di stripper e prostitute per trovare una giovine da decapitare per impiantare la testa della fidanzata su un corpo nuovo, possibilmente da urlo (sessismo a pacchi). La testa della fidanzata però non è della stessa idea, ma proprio per niente. Tematiche molto cronenberghiane, cicatrici, body horror, e una delle battute finali più ganze di sempre (“Te l’avevo detto che dovevi lasciarmi morire muahahahahah”). Vabbè. Tutto gratis su YouTube. Prego. #recensioniflash

LA REGINA DELLE NEVI (Lev Atamanov, 1957)

Un’ultima recensione da un mese di agosto passato a guardare vecchi film anni ’50 su YouTube. Sul tubo si trova anche La regina delle nevi (Snežnaja koroleva, 1957 di Lev Atamanov), una perla assoluta del cinema di animazione mondiale che ho scoperto guardandolo di aver già visto in tenerissima età probabilmente su qualche canale assurdo tipo Capodistria o TV Svizzera. La regina delle nevi è per l’appunto la fiaba di Andersen, messa in cornice da una sorta di folletto narratore (doppiato da Ernesto Calindri, ocio a recuperare la versione con il doppiaggio originale italiano, i ridoppiaggi anni ’80 e ’90 fanno cagarissimo). Il folletto ci racconta la storia di Kai e Gerda, due bimbi vicini di casa che sì insomma, si chiamano “fratellino” e “sorellina” ma si capisce che vorrebbero portare la loro relazione a un livello successivo. Una notte di tempesta la nonnina gli racconta della terribile Regina delle Nevi, e Kai da buon sbruffone dice sostanzialmente “Con la Regina delle Nevi mi ci pulisco il…” ma la Regina sente e gli manda due schegge di ghiaccio malefiche, una nell’occhio, perché possa vedere solo il male e una nel cuore perché possa sentire e compiere solo il male. Ovviamente Kai diventa uno stronzo e comincia anche a fare ghosting con Gerda. Un bel giorno la Regina se lo porta via e Gerda resta sola, ma determinata a riprendersi il suo “fratellino”. Molte avventure, lieto fine, la forza dell’ammmoreh. Quello che stupisce in un film di 60 minuti (il terzo atto è un po’ tirato via, diciamo) è l’animazione molto ben fatta che regge il paragone se vogliamo con il coevo Alice della Disney – anzi, se possibile il film russo è invecchiato meglio. Il design della Regina è fighissimo e super-iconico (è stato preso a modello da Rebecca Sugar per il design di White Diamond nella serie di Steven Universe). Se come me siete appassionati di storia del cinema di animazione, assicuratevi di vederlo. #recensioniflash

TANTI FILM DI PAURA, DUE PISOLINI E UN MARVEL

Luglio col bene che ti voglio fa caldo e si guardano solo horror con l’ausilio del raffrescatore, perché qui il condizionatore non entra mai anche perché sto al quinto piano, basta aprire le finestre e passa tanta aria fresca, considerando però che si sentono anche i rumori del traffico e vivendo tra due ospedali in tempo di Covid le ambulanze sono parecchie (ricorderete che io sono quello della foto delle ambulanze della seconda ondata) e di conseguenza l’audio dei film si sente sempre poco anche perché devo tenere basso che io sti film li guardo sempre di notte e il bimbo dorme e le #recensioniflash le scrivo tipo alle due con il rischio che siano piene di refusi che poi correggo in seguito (se mi ricordo) e se no comunque sono un po’ bizzarre come ad esempio quando mi addormento mentre guardo un film e ne sogno delle parti che poi non si abbinano con quella che è la trama reale. Ma comunque ho visto anche Black Widow.

CENSOR (Prano Bailey-Bond, 2021)

Censor è un film passato da poco al Sundance che dovreste vedere se vi piace un certo tipo di horror. Il film è ambientato in piena epoca thatcheriana in cui – chi ha la mia età potrà ricordarlo – ci fu una legge contro i cosiddetti “video nasties”, cioè i film ultrasplatter del periodo come Driller Killer di Ferrara, Tenebre e Inferno di Argento, Cannibal Holocaust di Deodato e molti altri film (la polemica era che chi vedeva splatter avrebbe voluto anche performare splatter, una roba che da noi arriva qualche anno più tardi come “crociata contro Dylan Dog”). Quindi: anni ’80, estetica splatter/tristanzuola/VHS, personaggio principale che di lavoro fa appunto il “censor”, cioè l’impiegata statale che taglia tutte le scene tipo crani che esplodono, occhi strappati, cannibalismo vario e tutte le amenità che facevano grande il cinema horror anni ’80. Una riflessione meta-horror, un po’ come Berberian Sound Studio (dove il malcapitato protagonista era un tecnico del suono) che mima lo stile del giallo all’italiana negli eccessi, nei colori, nelle allucinazioni. La protagonista oltre a doversi sorbire ore di splatter da tagliare ha già di suo un trauma grosso come una casa: la sorella è scomparsa quando erano piccole e a lei pare di vederla in uno dei film da censurare. Da lì in poi è una lenta discesa nella follia, perfetta fino a che – nel terzo atto del film – si butta tutto in caciara (o si arriva al sublime, a seconda di come la vogliamo vedere) con un finale matto e disperatissimo. Diciamo che per replicare filologicamente la struttura dei film del periodo la regista (la quasi esordiente Prano Bailey-Bond) ha deciso di far finire il suo film PROPRIO come se fossimo nei primi anni ’80, con un urlo convulso e completamente scollegato dalla realtà. Può piacere, a me è piaciuto assaje. #recensioniflash

FEAR STREET: 1994 (Leigh Janiak, 2021)

Se state pensando di vedere Fear Street: 1994 su Netflix… beh, secondo me vedetelo! All’apparenza un horror all’acqua di rose e derivativo come fosse l’ultimo degli stanchi epigoni di Wes Craven, con il contentino di Maya Hawke fatta sparire quasi subito, in realtà ha il suo perché. Sicuramente è un pastiche di vari archetipi dell’orrore, dallo slasher al film di possessione diabolica / stregonesca, ma non è mai compiaciuto, se capite cosa intendo, e soprattutto si diverte a disattendere le aspettative. Nel senso che le aspettative erano “sarà una cagata” e invece, non sarà Quella casa nel bosco di Drew Goddard, ma è comunque una visione abbastanza spiazzante. Prima di tutto per il lavoro sui protagonisti, che nello slasher classico muoiono male seguendo “le regole” che ormai tutti sappiamo a memoria, e che invece qui – almeno fino ad un certo punto – seguono tutto un altro percorso. Poi per il lavoro sul genere e sui practical effects. A chi piace il gore, siete avvertiti: per tre quarti di film sembra il classico direct to video dedicato a un pubblico di adolescenti, poi esplode la macelleria negli ultimi 20 minuti, con un omicidio talmente disgustoso che nemmeno nei peggiori video nasties anni ’80. Ovviamente Fear Street: 1994 è parte di una trilogia netflixiana che prevede anche tra pochi giorni Fear Street: 1978 e poi Fear Street: 1666. Vedremo come continuerà questo esperimento a metà tra una trilogia cinematografica e una serie TV (c’è il cliffhanger alla fine di questo primo film). A me ha incuriosito e continuerò.  #recensioniflash

FEAR STREET: 1978 (Leigh Janiak, 2021)

Ormai è un po’ che sono indietro con le #recensioniflash quindi ve ne sparo qualcuna a raffica, cominciando dagli altri due film di Fear Street che si agganciano al primo, visto qualche tempo fa e che in effetti dovrebbero viaggiare sul filo della “recensione unica”. Sì perché Fear Street 1978 e Fear Street 1666 non possono essere visti da soli, sono parte di un nuovo “ibrido cinetelevisivo” che mantiene i tempi del cinema favorendo una visione seriale consumabile come una miniserie TV. A sua volta però caratterizzando in modo molto particolare i tre film l’uno rispetto all’altro. Insomma, a mio avviso un esperimento interessante. Intendiamoci, sempre di teen horror premasticato e patinato di nostalgia si tratta. Però schifo non fa, assolutamente. Se il primo film pescava a piene mani da Scream e da un immaginario horror già postmoderno, Fear Street 1978 si attesta pari pari sullo slasher alla Venerdì 13 (il campeggio è proprio QUELLO), con morti ammazzati meno fantasiosi ma con una tensione onesta che recupera certe soluzioni registiche e certe dinamiche anni ’70-’80 in modo gustoso. L’innesto della storia del maleficio della strega permette a questo film – che in sostanza è un lungo flashback – di portarci alla terza parte, che a sua volta è un flashback ancora più indietro nel tempo.

FEAR STREET: 1666 (Leigh Janiak, 2021)

Fear Street 1666 è il più interessante dei tre film della trilogia netflixiana. Leigh Janiak vorrebbe fare Eggers ma non ci riesce, per ovvi motivi di target, direi, ma confeziona un interessante omaggio ai film di caccia alle streghe, rivelando sempre di più quello che Fear Street veramente è (uno studio di personaggi mascherato da film horror per teenager) e insistendo molto sul discorso della diversità. Terminata la storia della strega che lancia il maleficio che come già sappiamo colpisce la sfortunata cittadina di Shadyside e avute le rivelazioni che servivano… si torna di colpo al 1994, dove l’intreccio viene risolto con tanto di inquadratura inquietante dopo i titoli di coda che lascia lo spiraglio aperto per ulteriori seguiti. Oh, a me ha divertito, poi è chiaro che è un’operazione dedicata ad una fascia di pubblico che non è propriamente la mia, ma è un po’ il discorso dei Maneskin: non sono un gran che, ma se li ascolti e ti viene voglia di suonare ben venga. Qui la voglia che ti dovrebbe venire è quella di guardarti tutti gli horror possibili. #recensioniflash

A CLASSIC HORROR STORY (R. De Feo / P. Strippoli, 2021)

A Classic Horror Story su Netflix è un bell’esperimento fuori tempo massimo, uno di quei film che dici “minchia, ma è molto poco italiano” (nel senso di Stanis La Rochelle) e poi invece mi cade di brutto sul finale… peccato! Come dice il titolo è una storia dell’orrore classica, che più classica non si può. Mette insieme slasher, soprannaturale, folk horror e torture porn, spiazzando lo spettatore all’incirca ogni 20 minuti. Ma mentre la prima parte è efficace, con la caratterizzazione dei personaggi sgradevole il giusto e un senso di oppressione che deriva da scelte di regia e fotografia molto azzeccate, è dal momento in cui il film si rivela per un’operazione metacinematografica che comincia a perdere un po’ di colpi per arrivare poi a uno scivolone finale inutile e moralistico (quello sì, “molto italiano”). Eppure ci sono molti punti di forza nel film, a partire dalla volontà di trasformare la Calabria in luogo da incubo e di costruire una mitologia horror credibile con la leggenda di Osso Mastrosso e Carcagnosso (i tre mitici fondatori delle mafie italiane). Ci sono dei colpi di scena non telefonatissimi, ci sono interpretazioni convincenti, ci poteva essere molto più sangue per i miei gusti, dato che gran parte del film ruota intorno al concetto di snuff – quindi speriamo in una versione uncut perché allo stato attuale tutte le torture sono viste da lontano o se viste da vicino si interrompono subito prima del “momento Fulci”. A copiare comunque bisogna essere bravi, e i riferimenti espliciti (Midsommar, The Wicker Man, Quella casa nel bosco soprattutto) risultano un po’ troppo buttati lì. Francesco Russo (l’autista calabrese che si porta nell’incubo tutti gli altri) è bravo anche quando è un po’ sopra le righe e rattuso quando serve. Un’occasione mancata, un bell’horror interruptus. Comunque un grosso daje ai registi Paolo Strippoli e Roberto De Feo. #recensioniflash

WONDERSTRUCK (Todd Haynes, 2018)

Sto perdendo colpi. Nelle ultime sere ho voluto vedere due film di qualche anno fa che da un po’ tenevo in lista (Wonderstruck di Todd Haynes su Prime e BuyBust di Erik Matti su Netflix). Vi dico subito che entrambi i film mi hanno fatto addormentare a più riprese, per cui le #recensioniflash saranno veramente flash, oltre che probabilmente un po’ psichedeliche.
Wonderstruck sulla carta è perfetto, è tratto da un romanzo grafico che ho molto amato di Brian Selznick (anche sceneggiatore), mette insieme due storie di bambini alla ricerca di un genitore, uno nel 1977 e una nel 1927 e riprende il tipo di fotografia e di aspetto dei film delle due epoche, in un montaggio alternato molto interessante. Purtroppo dopo una mezz’ora in cui è tutto molto di atmosfera e i due bambini (entrambi sordi) decidono di andare l’uno alla ricerca del padre, l’altro della madre, mi sono addormentato e il resto della trama l’ho probabilmente sognato. Mi sono risvegliato ai titoli di coda che sono molto ben fatti. Aggiungerei che è tipo la quinta volta che provo a vederlo e non ho mai visto più di mezz’ora.

BUYBUST (Erik Matti, 2017)

BuyBust è un altro film che sulla carta spacca, action filippino con un bodycount impressionante, che consiste quasi totalmente in un bagno di sangue di sparatorie e ammazzamenti al coltello e col machete. C’è un’agente antidroga che partecipa ad un’azione per catturare il boss latitante, ma è una trappola, la squadra finisce nel barrio e gli abitanti del barrio non sono precisamente amichevoli. OK, è uno stile un po’ differente a quello cui siamo abituati, ma Erik Matti gira tutto in camera a mano, montando tipo 80 inquadrature al minuto e dei combattimenti si capisce un po’ poco. Qui sono riuscito a reggere fino al minuto 56, dopo mi sono assopito e risvegliato ogniqualvolta si sventagliava una raffica di mitra. Il finale me lo sono perso ma fidatevi se vi dico che muoiono tutti (tranne la protagonista).
In questi giorni va così. #recensioniflash

BLACK WIDOW (Cate Shortland, 2021)

Ho visto Black Widow con scarsa motivazione ma alla fine mi sono ricreduto: è proprio dove sulla carta c’è meno interesse che i film Marvel mi stupiscono. Finalmente un film dove non per forza devi ricordarti ogni dettaglio dei precedenti o contemporanei film del giro, basta avere un’infarinature di chi sia Black Widow. Finalmente Scarlett che ha un adeguato screen time, fiancheggiata da un ottimo cast (Florence Pugh perfetta nel ruolo della “sorella” Yelena e poi Rachel Weisz e David Harbor). Inizio stile The Americans che già setta il tono del film, e poi via come è giusto che sia, con un action thriller alla Bond (peraltro esplicitamente citato) con scene di combattimento e/o di inseguimento da manuale – a me è piaciuta particolarmente la lotta “casalinga” tra Widows, l’inseguimento in moto/auto, il salvataggio di Red Guardian dal carcere siberiano. Il personaggio di Red Guardian meriterebbe un film a sé, ovviamente. Comprensibile senza essere banale, spettacolare ma in modo “tradizionale”, soddisfacente nelle premesse e nel finale (oltre che nella proverbiale scena post-credits che suscita sempre maggiore curiosità nei confronti del ruolo di Julia-Louise Dreyfus, già vista in The Falcon and the Winter Soldier), Black Widow è il film “medio” che vorrei vedere più spesso, per spegnere il cervello senza però sentirmi veramente idiota. Nella foto, Posawoman. #recensioniflash

ANIMAZIONE PANDEMICA: LUCA, RAYA E GLI ALTRI

Messa così sembra che abbia passato giugno a guardare cartoni su Disney+. Non è stato proprio così, ma insomma, alla fine si avvicina abbastanza alla verità. Anche perché poi per esempio Luca l’ho già visto 5 volte, tre in italiano e due in inglese. Son cose che capitano quando hai una Creatura in casa. Comunque, via alle danze.

LUCA (Enrico Casarosa, 2021)

Cosa dire di Luca se non che è il film estivo perfetto? Un film che inizia con una ventina di minuti “in fondo al mar” che non ti aspetti perché tutti i trailer erano concentrati su Luca bambino umano e sulla cittadina ligure di Portorosso più che sulle profondità del mar Ligure. E ti viene in mente Alla ricerca di Nemo (i banchi di pesci), La Sirenetta (la collezione di oggetti umani), per poi trasformarsi poco a poco in un mix tra Chiamami col tuo nome (solo idealmente, per la scoperta di sé attraverso gli occhi dell’altro), Le avventure di Huckleberry Finn e Pinocchio (esplicitamente citato). Delicato, comico, malinconico, ricco di citazioni disseminate qua e là (la foto di Mastroianni, il poster di La Strada, I soliti ignoti in un televisore, le canzoni che fanno tanto Italia del boom), Luca celebra l’amicizia intensa – è evidentemente un bromance – la scoperta di sé, della diversità, del sentimento vero che ti porta a volere solo il bene dell’altro. OK, in effetti è molto simile a Chiamami col tuo nome. Senza pesche, però. Comunque: mille sono le cose che lasciano a bocca aperta, dalla ricostruzione della cittadina ligure immaginaria eppure così verosimile, i sogni di Luca così vividi eppure così cartooneschi, i disegni dei titoli di coda e alcuni personaggi secondari come la nonna e lo zio dagli abissi (Sacha Baron Coen) protagonista anche dell’immancabile scena post-credits. Il character design fa sembrare tutti i personaggi come pupazzi di plastilina animati in stop motion quando invece è CGI – questa cosa dà un calore particolare al tutto, e tra le nuotate che danno quella sensazione di libertà, il gelato, i temporali e tutto, Luca rappresenta perfettamente l’estate della mente, quella che non dimentichiamo mai. Quella dove abbiamo scoperto tutti l’amicizia. Magari non sarà un capolavoro sorprendente e filosofico come Soul, ma è un film che scalda il cuore. E nella scena finale lo scioglie. Oh, proprio come Chiamami col tuo nome! #recensioniflash

RAYA AND THE LAST DRAGON (Carlos Estrada, Don Hall, 2021)

Qualcuno si ricorda di Atlantis l’impero perduto? Si tratta di un Classico Disney della cosiddetta “epoca sperimentale” un po’ dimenticato, un po’ sottovalutato anche all’uscita (design troppo Gainaxx, storia troppo Nadia e il mistero della pietra azzurra, insomma, dal Giappone non erano contenti). Eppure per me – che comunque sono un amante del musical senza se e senza ma – a suo tempo fu una folgorazione: un film Disney senza canzoni, serio, con tematiche di avventura, mazzate e pericolo vero. Fast forward esattamente a venti anni dopo: Raya e l’ultimo drago rischia di inaugurare una nuova epoca Disney – e di fatto lo fa, siamo già in una New Era dopo il Revival terminato con Oceania. Ma ci pensate, dopo Oceania sono usciti solo due sequel, Raya è la prima storia “nuova” da cinque anni a questa parte. E lo sforzo per ricombinare fiaba, mito, wuxia, carinerie Disney e arti marziali si sente tutto e direi che è abbastanza ben riuscito ed amalgamato. Non sto a dirvi la trama di Raya tanto l’avete visto tutti prima di me perché siete degli impazienti dilapidatori di soldi e non degli oculati risparmiatori come me che col cazzo che spendono soldi oltre l’abbonamento per l’accesso VIP. Raya è come Mulan e Pocahontas più che come Elsa o Moana/Vaiana, il film è un action fantasy abbastanza serio (uno dei registi arriva di Big Hero 6) e rappresenta se vogliamo la compiuta marvellizzazione della Disney – dopo la disneyzzazione della Marvel, ci voleva. Fotografia che credo sinceramente sia la migliore in assoluto vista in un film Disney, film lungo ma con l’impressione che magari alcuni momenti di pausa qua e là avrebbero giovato alla narrazione (un po’ meccanica stile livelli di gioco con boss sempre più pericolosi), combattimenti coreografati alla perfezione, draghi (non Mario) un po’ troppo plush da edicola ma ci sta, anzi immagino sia voluto per il merchandising. La visione familiare è purtroppo funestata dal fatto che il mio sensibile figliuolo vuole le canzoni, i duetti e l’ammmore e ha orrore dei combattimenti, però ha detto “se togliamo tutte le parti dei combattimenti è bello anche se non ci sono le canzoni”. Amante del musical anche lui, capiteci. #recensioniflash

INSIDE (Bo Burnham, 2021)

Credo di aver appena finito di vedere, su Netflix, una delle cose più geniali e coinvolgenti mai viste sul piccolo schermo. Passo indietro. Per me fino ad oggi Bo Burnham era un oscuro regista indipendente che aveva girato nel 2018 un film eccezionale (Eighth Grade) e che più di recente aveva recitato in Promising Young Woman. Non sapevo assolutamente nulla dei suoi trascorsi come youtuber prima e come stand up comedian poi. Dice lui stesso che dopo il suo ultimo comedy tour nel 2016 aveva cominciato a soffrire di attacchi di panico sul palco e che per questo si era dato alla regia, alla recitazione, alla scrittura. A gennaio 2020, dopo un percorso di terapia, si sentiva pronto a tornare sulle scene, ma poi “è successa una cosa divertentissima”. Costretto in casa dal Covid come tutti noi, ma con una bomba inesplosa di talento dentro rispetto a tutti noi, Bo Burnham utilizza l’anno di lockdown per scrivere, girare, musicare, fotografare, interpretare e montare questo Inside. Un film di quasi due ore che è un comedy special sui generis, tutto girato nella stanza di Burham (e si vede chiaramente il suo background da youtuber) e che potrei definire come un misto tra un musical alla Bob Fosse, un film di Lynch, una raccolta di videoclip esilaranti però scritti da Charlie Kaufman, un light show psichedelico, una seduta di autoanalisi bergmaniana. Burham fa ridere in un momento in cui non c’è un cazzo da ridere, analizza tutti i luoghi comuni della contemporaneità (eccezionali i pezzi sull’Instagram delle donne bianche, sulla videochiamata con la madre, sul sexting, sul senso di colpa del maschio bianco etero, su Jeff Bezos, sull’invenzione di Internet, il reaction video del reaction video, la parodia dello streamer di Twitch) e al tempo stesso riesce ad infilare monologhi sulla depressione, i pensieri suicidi, la salute mentale, l’isolamento e non taglia nemmeno i momenti in cui sclera o piange davanti alle videocamere. Salvo poi lanciarsi in pezzi synthpop in cui si riprende l’ombelico in 8K, in un continuo palleggio tra critica della società dello spettacolo e immersione totale in essa, il tutto con una padronanza del suo one man show che mescola luci, proiezioni, musica e monologhi in modo impeccabile, diverso da qualsiasi altro stand up comedian possa venirvi in mente. Inside mi ha fatto pensare molto, più che altro perché risuona con tutte le mie ossessioni e i miei pensieri del periodo e direi che finora è la cosa più vicina allo “spirito del tempo” che potete esperire. #recensioniflash

THE GENTLEMEN (Guy Ritchie, 2020)

Ieri sera, ospite sul mio divano Lorenzo Corvi, abbiamo preso visione di un film che nessuno dei due aveva ancora visto su Prime. Ci siamo subito trovati d’accordo perché – in omaggio alle regole che vogliono l’ospite a proprio agio – io gli ho proposto un qualche film francese un po’ pesantino e del genere che un tempo si sarebbe chiamato cinéma vèrité, ma lui mi ha spiazzato proponendo di vedere qualcosa di molto zarro per “spensierarsi”. Alla fine la convergenza è arrivata con The Gentlemen di Guy Ritchie. Ora, a parte il fatto che un film che presenta degli abiti come quelli in foto va premiato a prescindere e che sto già compulsando Amazon per comprarmi la tuta di Colin Farrell (o anche solo il cardigan smorto di Charlie Hunnam), devo dire che per essere il “solito gangster movie inglese” con una sfilza infinita di personaggi da ricordare e situazioni al limite del grottesco – insomma una roba che sappiamo a memoria dalla metà degli anni ’90 – The Gentlemen è molto godibile. Guy Ritchie è uno di quei registi che soffre del complesso che possiamo chiamare “il mio primo film è un fottuto capolavoro e dopo non sono mai riuscito a fare nulla all’altezza”, ma solo il fatto che dopo Aladdin e King Arthur sia tornato al milieu della mala londinese è qualcosa di buono. Ci sono Hugh Grant che fa il viscido, Matthew McCoso che fa il bello e dannato imprenditore della cannabis, tanta roba, tanti intrecci, poche risate (se voleva essere una gangster comedy). Un po’ freddino e calcolato, alla fine dei conti. Però c’è Michelle Dockery, e ci sono le tute di Colin Farrell. Ah, e immagino che doppiato faccia cagarissimo (in originale la cosa più simpatica sono proprio le voci). #recensioniflash

MEET THE ROBINSONS (Stephen J. Anderson, 2007)

C’è una storia strana e particolare dietro all’unico Classico Disney che non avevo mai visto in vita mia, e che stasera abbiamo deciso di vedere all in the family, quasi 15 anni dopo la sua uscita. Si tratta di Meet the Robinsons, del 2007, e il motivo per cui non l’ho mai veduto è presto detto. Non so quanto abbiate familiarità con le “epoche Disney” (c’è l’età dell’oro, quella d’argento, quella di bronzo, il medioevo Disney, il rinascimento e poi, a partire dal 2000 circa, quella che venne chiamata “età della sperimentazione”). La sperimentazione ha portato inizialmente a dei capolavori (secondo me) che hanno avuto pochissimo successo di pubblico (es. Lilo e Stitch, Le follie dell’imperatore, Atlantis, Koda fratello orso) e infine, nello sclero di inseguire le mode, ad uno dei film animati più orribili di tutti i tempi, Chicken Little. Bruciato da Chicken Little (che fa veramente, ma veramente cagare a spruzzo), mi ero rifiutato di vedere I Robinson – Una famiglia spaziale, terrorizzato dal look vagamente Jetsons del film, dal fatto che tra i doppiatori ci fossero Carlo Conti e Giovanni Muciaccia e non ultimo dal fatto che in quel periodo eravamo tutti per la Pixar, che aveva appena rilasciato Gli Incredibili e si apprestava a sfornare uno dei suoi capolavori assoluti, Ratatouille. Ma ecco arrivare la storia strana dei Robinson. Il film è prodotto da John Lasseter. Ma quindi, mi domando, l’ha prodotto per affossarlo? No! Vado a vedere i dati del box office e I Robinson non è nemmeno criticato male! Cosa è successo? La chiave del film sta nell’altro produttore esecutivo, che è in realtà un soggetto che da fuori ha influenzato Disney, Pixar, Blue Sky, Illumination e molta dell’animazione del nuovo millennio. Si tratta di William Joyce, autore del libro da cui i Robinson è tratto, illustratore notissimo al grande pubblico dallo stile un po’ retrofuturista che era esploso con la serie per bambini Rolie Polie Olie e che solo due anni prima aveva prodotto (e realizzato il character design) per Robots della Blue Sky (infatti i robot dei Robinson sono identici a quelli di Robots, ma questa è un’altra storia). La storia dei Robinson è… diciamo gradevole. Bambino orfano superintelligente inventa cose. Ad un certo punto il tutto si trasforma in una sinistra e psichedelica versione animata di Ritorno al futuro incrociato con Matrix. Il bambino viene trasportato nel futuro e si trova ad interagire con una famiglia di pazzi (i Robinson) e a doversi guardare le spalle da un cattivo delirante in bombetta nera che sembra modellato su Hans Doofenschmirtz (il delizioso scienziato pazzo di Phineas e Ferb). Ci sono mille sottotrame, c’è la ricerca della mamma, il furto di una macchina del tempo, la dominazione del mondo da parte delle bombette robotiche, a un certo punto c’è anche un inseguimento con T-Rex. Troppa roba. Lo slapstick di Le Follie dell’imperatore appiccicato alla lacrima facile di Bianca e Bernie. Ma in un modo tutto sommato originale. L’impressione del 2007 però è ancora viva: il character design, pur essendo anni luce meglio di quello di Chicken Little è assolutamente deludente. Mentre Brad Bird faceva Ratatouille, qui siamo ancora ai livelli di Toy Story 1. Fortunatamente l’anno dopo la Disney si rifà con Bolt, il suo primo vero film BELLO in CGI. I Robinson almeno sono serviti ad imparare qualcosa. #recensioniflash