IL SEQUEL DEL REBOOT DEL REMAKE

Ciao, sono in ritardo con le consegne, ma ci metto a buon prezzo un sacco di recuperi horror di stagione che per la maggior parte sono remake, reboot, sequel, remake di sequel di reboot, reboot di remake di sequel, forse c’è un prequel o un midquel non saprei, di sicuro c’è poco di originale. A parte Triangle of Sadness che merita la cover image del mese essendo essenzialmente più rivoltante di Terrifier 2 (il film che ha fatto vomitare gli spettatori in sala ha ha vabbè quanto a vomito se la giocano alla pari).
E niente, incominciamo.

TRIANGLE OF SADNESS (Ruben Õstlund, 2022)

Un consiglio che mi sento di dare a tutti quelli che vanno a vedere Triangle of Sadness è questo: non sedetevi troppo vicino allo schermo. Chi lo ha già visto capirà, chi lo deve vedere… capirà dopo.

Triangle of Sadness (la ruga triangolare “di tristezza” che ti viene sulla fronte se sei uno degli sfortunati che non può mettere le mani su una dose di botox) è un film ruffianissimo e sopra le righe che però indubbiamente si fa ricordare. Una volta si chiamavano “film a tesi” (dove la tesi sarebbe “guarda quanto fanno schifo i ricchi”, o nella migliore delle ipotesi “guarda come la lotta di classe è ancora alla base delle interazioni umane”). Oggi, non so. La si può definire una satira grottesca della condizione umana.

Un po’ Lars von Trier, un po’ Monty Python (Mr. Creosotos, anyone?), un po’ Marco Ferreri, totalmente Ruben Õstlund – di cui a questo punto urge (per me) recuperare The Square. Lo sguardo è quello dell’entomologo, i tempi quelli dilatati di dialoghi che a poco a poco, per un non detto o uno sguardo in tralice fanno scivolare personaggi e spettatori nel disagio totale.

Carl e Yaya sono due modelli slash influencer che nella prima parte del film litigano a lungo per questioni di soldi, nella parte centrale partecipano ad una crociera di lusso con un ensemble di gente schifosamente ricca, un capitano alcolista (Woody Harrelson) e un equipaggio pronto a tutto. Dopo un plot twist che non svelo, alcuni di loro si trovano a naufragare in un isola dove i rapporti di potere si invertono.

Õstlund procede per accumulo, disagio su disagio fino ad un’apocalisse di disgusto che dura tantissimo e porta la definizione di “grottesco” a livelli altissimi. Poi dopo devo dire che la parte sull’isola sembra un po’ più sfilacciata e soprattutto emerge più chiaramente quel discorso del “film a tesi” che un po’ disturba.

Tutto procede verso un finale aperto di quelli che alimentano le discussioni fuori dal cinema e oltre. Mi ha ricordato un po’ l’effetto che mi fece Parasite, tutti fuori dalla sala a commentare le varie scene. Anche in questo caso, devo dire, attori in stato di grazia che hanno dovuto sopportare parecchie cose.

Non lo eleggerei mio film preferito dell’anno, ma è sicuramente memorabile. #recensioniflash

BARBARIAN (Zach Cregger, 2022)

Allora, ho visto Barbarian su Disney+, ché da noi non ce lo fanno uscire in sala. Prima di tutto devo dire che non ho capito perché si intitola “Barbarian”, io lo avrei intitolato “Non prenotare quell’AirBnb” o “Be My Baby” o al limite “Patriarcato e barbarie”.

Comunque sia, è indubbio che Barbarian è uno degli (se non “il”) horror dell’anno. Perché è onesto ma allo stesso tempo ti spiazza, perché non è virtuosistico o serioso ma segue invece la traccia dei grandi film di genere anni ’80-’90 (vengono in mente a più riprese soprattutto Wes Craven, Tobe Hooper, John Carpenter).

Barbarian non è un film troppo splatter (oddio, un po’ sì, se vi disturbano crani sfondati, occhi cavati e braccia strappate meglio evitare), ma è un film soprattutto di tensione. Tensione giocata magistralmente e classicamente tra campo e fuori campo, tra primo piano e sfondo, veramente con pochi mezzi ma in modo efficace.

Basta poco: una casa affittata dalla protagonista su AirBnb in un quartiere degradato, una notte buia e tempestosa, il disguido inquietante iniziale che consiste nel fatto che la casa in realtà è già stata affittata anche a un giovanotto ambiguo (Bill Skargard, cioè, ha fatto IT, tutto urla maniaco stupratore lontano un miglio).

E invece poi. E invece poi? Non vi dico nulla, perché per 45 minuti (metà film) assisterete all’evolversi di questa situazione un po’ cringe, un po’ creepy, un po’ uncanny, e dopo 45 minuti BUM il film diventa un’altra cosa. Molto, ma molto più spaventosa.

Basta, vedetevelo. #recensioniflash

SLUMBERLAND (Francis Lawrence, 2022)

Ieri sera ho visto Slumberland su Netflix: il mio parere è sì, ma no. È un film per famiglie ben confezionato con un Jason Momoa che fa la sua migliore imitazione di Johnny Depp scoppiato, ma è anche un adattamento tragicamente insulso di uno dei fumetti più belli e importanti di tutti i tempi.

Quindi, intendiamoci. Se siete appassionati di fumetti e amate Winsor McCay (e come potrebbe essere altrimenti) questo Slumberland vi farà cagare a spruzzo. Se siete dei bambini o non avete mai sentito parlare di Little Nemo in Slumberland, potrebbe anche piacervi. Al netto di una CGI molto convenzionale e poco emozionante e di una sceneggiatura talmente da manuale da risultare un po’ una raccolta di cliché.

Ma Umberto Eco, non ricordo dove, diceva che due cliché fanno sorridere, cento cliché fanno commuovere, perciò…

Vabbè comunque la bambina che fa Nemo è brava, il Flip di Jason Momoa vale tutto il film e poi c’è una trama (bimba orfana viene affidata allo zio anaffettivo e per affrontare il lutto entra nel mondo dei sogni alla ricerca di un ricordo del padre morto, accompagnata da uno strano personaggio clownesco e da un maiale di peluche vivente).

Il fatto della trama secondo me è un problema, nel senso che certo funziona, è una raccoltona di cliché che magari commuove anche, ma il vero Little Nemo non ha trama, è surrealismo puro. Paradossalmente sarebbe stata mille volte meglio una versione animata affidata per esempio a Pendleton Ward (nell ‘89 ne uscì una versione animata estremamente orribile di Masami Hata, dimentichiamola velocemente).

Va beh comunque se avete bimby guardatelo. Anche se avete bimbi. #recensioniflash

AMBULANCE (Michael Bay, 2022)

Michael Bay ha fatto un film che si svolge tutto su un’ambulanza. Questa è la prima cosa che mi viene in mente quando apprendo di Ambulance (peraltro remake di un film danese omonimo).

In realtà no, non è che si svolge tutto su un ambulanza, anche se potrebbe. Ma Michael Bay prende un high concept di solida serie B e lo gonfia all’inverosimile producendo un film stordente di due ore secche che comunque per lui è l’equivalente di un progettino low budget rispetto ai suoi standard.

C’è Los Angeles, ci sono i paramedici, c’è adrenalina, c’è un protagonista ex militare in crisi perché non riesce a pagare le spese mediche della moglie malata e quindi si rivolge al suo fratello adottivo bianco (Jake Gyllenhaal che tenta la carta Nicolas Cage) che GUARDA CASO è un capoccia della malavita locale che lo coinvolge OVVIAMENTE nella rapina del secolo.

La rapina manco a dirlo va in vacca ma loro riescono a scappare, su cosa? Ma certo, sulla AMBULANCE, dove la paramedica più cazzuta di LA viene presa come ostaggio. Insomma, roba adatta a spegnere il cervello, MA – se non vi fanno venire il mal di mare le continue riprese in plongée coi droni – abbastanza godibile nel suo essere a rotta di collo, esplosiva, sopra le righe in un modo quasi tenero.

Come finisce non vi sto a dire tanto è prevedibilissimo, ma posso assicurare che è un po’ come un giro sull’ottovolante. Una di quelle cose divertenti che poi ti dici “non farò mai più”, come diceva quello. #recensioniflash

BULLET TRAIN (David Leitch, 2022)

Cos’è un film derivativo? Si tratta di quei film che ti fanno dire “Ah, ma questo è tipo Kill Bill con un protagonista maschile” o “ma qui si prende a piene mani dal cinema di Hong Kong degli anni ’80”. Poi certo, il maestro indiscusso del cinema derivativo è proprio Tarantino, ma lui ci ha costruito una carriera e dietro le sue derivazioni c’è anche una certa idea di cinema.

Bullet Train invece è un film derivativo senza troppe pretese. Derivativo di Tarantino, diranno i miei venticinque lettori? No. Derivativo piuttosto di Guy Ritchie, che a sua volta ho sempre visto come un wannabe Tarantino senza altra qualità se non quella di essere un simpatico cazzone cockney.

Tratto da un romanzo giapponese che già di base era considerato merda, Bullet Train procede nell’ordine a: agitarci davanti lo star power di un Brad Pitt in versione killer sornione rintronato; presentarci due personaggi come Tangerine e Lemon, coppia di killer “simpatici” uno dei quali cita sempre il trenino Thomas (divertente le prime due volte poi anche basta); presentarci una serie di altri personaggi pulp tutti strettamente connessi tra loro e tutti presentati con il loro nome a caratteri cubitali su schermo.

La trama sembra incasinatissima poi si risolve in una classica storia di vendetta in cui tutti vorrebbero/dovrebbero/potrebbero ammazzare tutti e un deus ex machina che è il più cattivo tra i cattivi del mondo collega tutti i personaggi tra loro. Meglio non dire nulla, per lasciare almeno qualche sorpresa se non lo avete ancora visto.

Insomma, il film è abbastanza divertente, e del resto da David Leitch mi aspettavo qualcosa di esaltante. Paga il fatto di svolgersi tutto su uno shinkansen da Tokyo a Kyoto (e non è che ti puoi inventare chissà quali scontri e lotte in uno spazio così angusto), di essere forse un po’ lunghetto e di voler essere a tutti i costi “simpatico”. Tra virgolette, proprio.

Meno simpatia e più cattiveria avrebbero secondo me giovato. Ah, alla fine c’è Sandra Bullock. #recensioniflash

NOPE (Jordan Peele, 2022)

Nope di Jordan Peele era ovviamente uno dei film che attendevo maggiormente quest’estate e poi mi son perso. Quindi con aspettative altissime l’ho recuperato e boh, forse le mie aspettative erano troppo alte. O forse la contaminazione col western non è cosa per me.

Sta di fatto che – pur riconoscendo a Peele una padronanza incredibile dello spazio filmico (fotografia di Hoyte Van Hoytema) e della gestione del fuori campo, della tensione, etc – io ho trovato Nope moscio. Cioè, un po’ Shyamalan (che per me è un mezzo insulto).

Nope ha la sua ragion d’essere in un richiamo al primo Spielberg (ma – appunto – filtrato da Sciamalaia), nelle atmosfere che ibridano l’horror contemporaneo con la fantascienza quasi anni ’50 dei dischi volanti, nei grandi spazi aperti del western, insomma: è un film profondamente americano.

In più, è un film a tesi. Anche Get Out e Us lo erano, ma in modo meno cervellotico. Qui la critica sociale sta in un gioco di scatole cinesi, dallo sfruttamento dei neri a quello degli animali, dallo sfruttamento delle tragedie personali allo sfruttamento dell’alieno, tutto per nutrire il mostro omnifagocitante che è la Società dello Spettacolo.

Intendiamoci, i film brutti sono altri (Hellraiser nuovo, ad esempio), e tutto è ben costruito, gli attori sono bravi, i personaggi convincenti. Ma sono rimasto un po’ perplesso. #recensioniflash

TERRIFIER 2 (Damien Leone, 2022)

A me fanno sempre molto ridere le recensioni in cui dicono “metà degli spettatori ha vomitato” o “ci sono stati svenimenti in sala” o “le donne incinte hanno partorito per lo spavento vedendo questo film”. Tutte (o quasi) frasi usate per descrivere Terrifier 2, il nuovo film di Damien Leone.

Terrifier 1 è un film del 2016, vogliamo dire da cestone DVD a 2 euro al supermercato? Diciamolo. Ma ha stabilito questa icona horror dei nostri anni che è Art the Clown, un misto tra Freddy Krueger, Jason Voorhees, Michael Myers e Chucky. Terrifier è uno slasher puro, dove Art il clown arriva, ammazza in modi ultrasplatter e se ne va, senza spiegare nulla.

Damien Leone è un tecnico di effetti speciali prostetici di quelli di una volta, probabilmente abbonato di lunga data a Fangoria che vive tra lattice e sangue finto. Nel 2016 ha fatto il passo forse più lungo della gamba diventando regista, ma (e qui arriviamo al dunque) Terrifier è piaciuto. Molto.

E quindi Damien Leone fa il crowdfunding per girare Terrifier 2, al quale arriva dopo 6 anni di produzione e (probabilmente) più di 4 ore di girato, che riduce a 150 minuti prima di distribuirlo. Sì, avete capito bene, due ore e mezza di slasher in cui il sangue, le budella, gli occhi cavati, il cervello spiaccicato e la carne lacerata appaiono dal minuto uno e non smettono di stare in scena fino al delirante minuto 150 (vi giuro che c’è una scena post credits che fa impallidire i film Marvel).

Terrifier 2 è talmente demente (ma non demenziale) da essere un’esperienza quasi trascendente. Confermo che non va visto mentre si mangia (come del resto ho fatto io) e che i malcapitati che incontrano Art muoiono male in vari modi (armi da taglio ma anche mazze chiodate, fruste con uncini, acido, soda caustica, lanciafiamme, martelli e quant’altro).

L’esilissima trama mette in scena due teenager, fratello e sorella che in qualche modo (tipo che il padre morto conosceva in qualche modo non specificato Art il clown?) sono connessi al killer e devono sfuggirgli mentre in torno a loro muoiono tutti malissimo.

Agli horror fan consiglierei certamente di vederlo, anche perché Leone a quanto pare è riuscito addirittura a candidare il film agli Oscar 2023 (LOL), per tutti gli altri forse è meglio soprassedere. #recensioniflash

HELLRAISER (David Bruckner, 2022)

Non so perché ogni tanto mi metto a guardare i remake o i reboot di saghe horror anni ’80. Più che altro è la curiosità di vedere se hanno fatto un minimo di aggiornamento – per dire, a me gli Halloween di David Gordon Green non dispiacciono mica.

Hellraiser nuovo no, Hellraiser nuovo è una merda assoluta. Inizia in modo promettente a Belgrado, tra uno squallore urbano e un cubo demoniaco, prosegue nel corso di un’orgia all’acqua di rose, ma vabbè. Poi il cubo viene manipolato e arrivano gli uncini e tu ti aspetti, beh, Hellraiser.

Invece è una risciacquatura di piatti con protagonista femminile in lotta con una o più dipendenze che manipola il cubo (o meglio lo manipolano i suoi cari) e arrivano dei supplizianti molto glamour e lucidi, quasi tutte femmine (che di per sé non è male, anche Pinhead col gender swap è curioso), ma si vedono pochissimo e c’è pochissimo splatter.

A meno che non mi sia addormentato per noia proprio nelle parti splatter. Comunque, è un decisissimo no. #recensioniflash

HALLOWEEN ENDS (David Gordon Green, 2022)

Hallowen Ends: ma finisce veramente o è il solito scherzone? No, a quanto pare vedendo le immagini finali del film sembrerebbe essere finita veramente. Eppure.

Vabbè, ormai mi sto facendo un punto d’onore di vedere tutti i remake/reboot/sequel di remake di reboot che sono usciti quest’anno, direi che mi manca ancora il nuovo Scream e poi ho finito. Questo ultimo Halloween è… un po’ moscio, diciamolo subito.

Il punto è che non puoi accozzare a un archetipo, a un babau delle fiabe, un’allegoria sociale e portarla avanti per più di un film. Già Halloween Kills era giocato sull’anima nera degli abitanti di Haddonfield che bramavano linciaggi. In Kills c’è addirittura la trasfigurazione di Michael Myers in Pennywise, quasi uno spirito nero che abita nelle fogne e contagia la città con il Male.

Capirete anche voi che è un po’ pasticciato. Peccato perché Halloween Kills ha una scena iniziale sorprendente e cattivissima che presenta il nuovo personaggio di Corey, che purtroppo poi si evolve in una sorta di allegoria personificata di come una persona può accogliere il male dentro di sé.

Poi bon, di gente che muore male ce n’è (molto notevole il DJ della radio) e il combattimento finale tra Batman e Jok… ehm, tra Laurie e Michael è molto brutale. Dai, diciamo che è così così. #recensioniflash

HORROR CHE NON LO ERANO

Ottobre è il classico mese in cui in casa ci dilettiamo con i film horror in attesa dei festeggiamenti di Halloween. Di horror questo mese abbiamo avuto anche nella vita reale diverse sfighe familiari tra cui il Covid e devo dirvi in tutta sincerità che anche i film “non horror” (come Blonde, o Vortex) che abbiamo visto in realtà secondo me erano più horror dei film di zombie (e il film in quota zombie di questo mese… in realtà non è un film horror!)… Insomma, un bel casino. Ma non indugiamo oltre e andiamo ad elencare.

MORBIUS (Daniel Espinosa,  

Non so perché tutta l’Internet ha decretato che Morbius = merda. A me non è dispiaciuto per nulla, avendolo ovviamente affrontato con aspettative pari a zero.

La storia è nota a chi frequentava i fumetti Marvel quando in Italia si chiamavano “Editoriale Corno”: Morbius il vampiro vivente è uno dei nemici storici di Spider-Man, che qui non compare (anche se nella scena post credits arriva un personaggio conosciuto).

Questa è la origin story di Morbius da quando era piccolo e sperava di trovare una cura per la sua condizione medica con il suo migliore amico a quando diventa Jared Leto e il suo amico diventa Matt Smith (che coppia improbabile, e comunque Matt Smith ruba la scena a più non posso). Matt Smith è ovviamente il buono ricco che diventa villain per un motivo apparentemente nobile, e Jared/Morbius l’eroe riluttante che noi sappiamo già diventerà cattivo (ma perché ce lo costringono).

indubbiamente è uno dei film più stupidi che si possano guardare, tutto a base di faccette demoniache, combattimenti in volo malamente digitalizzati e finti spaventoni, ma… è divertente! #recensioniflash

LA SIGNORA SENZA CAMELIE (Michelangelo Antonioni, 1953)

Il cinema nel cinema secondo Antonioni: non avevo mai visto La signora senza camelie con Lucia Bosè, e devo dire che anche qui ho trovato una sorpresa.

Clara (Lucia Bosé) è una commessa milanese “scoperta” dal regista Gianni (Andrea Checchi) e dal produttore Nardo (Gino Cervi). Viene lanciata nel mondo del cinema ma c’è sempre il dubbio che sia in realtà una “cagna maledetta”, come direbbe Renè Ferretti.

Il regista la sposa, e ovviamente non vuole più che lei abbia i ruoli da stellina sexy che il produttore le offre. Anzi, scriverà per lei un grande ruolo tragico, quello di Giovanna D’Arco. Ovviamente andrà a finire malissimo, tra un divorzio e una caduta professionale.

Nella cornice del melodramma borghese ibridato con il sottogenere (allora non ancora così codificato) del “film nel film”, Antonioni apre squarci di disagio esistenziale essenzialmente nella composizione delle inquadrature e nel silenzio di alcune immagini. #recensioniflash

VORTEX (Gaspar Noè, 2021)

Guardare Vortex di Gaspar Noè (su Mubi) è un’esperienza totalizzante che mette fortemente a disagio. Perché guardarlo dunque? Essenzialmente, per me, soprattutto curiosità: un film con due protagonisti bizzarri come Dario Argento e Françoise LeBrun (di La maman et la putaine).

Ovviamente non sapevo null’altro del film, ed ecco la mazzata: è la storia di una coppia anziana lui cardiopatico lei con alzheimer che convivono in un appartamento asfissiante e pieno di libri, medicinali, stoviglie, ricordi le cui azioni vengono viste per più di due ore di film sempre in split screen.

C’è un unico momento in cui i due coniugi si prendono per mano e attraversano la cornice nera che li divide sempre. La camera di Gaspar Noè li segue di spalle o frontalmente mentre fanno le loro cose quotidiane, accompagnandoci sempre di più sull’orlo dell’abisso. Perché ovviamente non finirà bene.

C’è anche un figlio (Alex Lutz) che insiste perché i genitori si trasferiscano in una casa di riposo e che a sua volta ha problemi (apparentemente risolti) di tossicodipendenza.

È un film sulla morte, che parla di malattia, vecchiaia e decadimento fisico e mentale. Che ti porta proprio in quei posti lì, e che può risultare intollerabile. Il finale è straziante più che altro per come mette tra parentesi tutta l’esistenza umana, oggi ci sei, domani chissà. #recensioniflash

BRIAN AND CHARLES (Jim Archer, 2022)

Una piccola chicca inglese, un bizzarro fairytale a base di manichini robot e inventori un po’ pazzi che trovano l’amore nonostante il bullismo dei villici.

Brian (David Earl, riconoscibile dalla sua carriera televisiva con Ricky Gervais) è un po’ lo sfigato del suo paese nel Galles: vive in un cottage malandato, non sembra avere un lavoro e passa il tempo a progettare invenzioni assurde. Prende dei “pezzi” in discarica e se li porta a casa trasformandoli in altro. Quando trova una testa di manichino decide che è il momento di costruire un robot.

Il robot, chiamato Charles (Chris Hayward) parla con voce alla Stephen Hawking, è una IA inizialmente stupita e meravigliata di ogni cosa nel mondo, uno spirito puro e libero la cui massima aspirazione è conoscere e vedere il più possibile.

Ma nel villaggio ci sono dei loschi bifolchi che stanno organizzando l’annuale falò celebrativo, e indovinate che vogliono mettere tra le fiamme? Brian and Charles è un buddy movie, una commedia che si candida ad essere il bromance dell’anno, ma è anche un po’ folk horror nella misura in cui la campagna inglese sembra sempre molto inquietante. Il film mantiene il giusto equilibrio tra i due generi: sorprendente. #recensioniflash

Athena: un piano sequenza iniziale così non lo vedrete in nessun altro film. La storia, si capisce subito, è di quelle tipo La Haine di Kassovitz: giovane immigrato ucciso dalla polizia nelle banlieue, segue rivolta. Ci sono tre fratelli, ognuno con il suo carattere e il suo background, che reagiscono alla morte del quarto fratello.

All’inizio del film, appunto, Abdel (eroe di guerra, integrato nel sistema) tiene una conferenza stampa; Karim (il fratello inquieto) lancia una molotov e semina il panico. Da lì, sequenza da far esplodere il cervello, senza stacchi, in cui c’è l’assalto della folla alla stazione di polizia. Fidatevi che non avete mai visto nulla di così esaltante.

Purtroppo poi Athena (che incidentalmente è di Romain Gavras, figlio del più noto Constantin Costa Gavras), non mantiene la stessa tensione della prima mezz’ora e si perde un po’, tra il terzo fratello gangster (Moktar) che pensa solo a sé stesso e una sorta di terrorista il cui ruolo sembra essere quello di farci pensare che i tre fratelli non sono poi così violenti, insomma, c’è di peggio. Ma comunque, insomma, avercene di film così (si vede su Netflix). #recensioniflash

ONE CUT OF THE DEAD (Shinichiro Ueda, 2017)

È quantomeno curioso rivolgersi a Mubi per scovare uno degli horror più freschi degli ultimi anni. One Cut of the Dead di Shinichiro Ueda è un film da vedere senza saperne nulla, o sapendone molto poco. Cercherò dunque di dire molto con poche parole.

Nei primi 40 minuti di film vediamo una troupe che gira un film di zombie in una location abbandonata nella campagna giapponese. Si suppone che fosse un luogo dove l’esercito sperimentava per trasformare i soldati in zombie. Il regista è un po’ dispotico, gli attori sono stanchi, le dinamiche da metacinema si sprecano. Poi alcuni zombie veri iniziano ad attaccare i membri del cast (a loro volta truccati da zombie).

Smettete di leggere qui se non avete ancora visto il film.

Quello che si capisce da metà film in poi è che One Cut of the Dead essenzialmente non è un film di zombie, ma un film sul cinema, sul fare cinema, sull’industria cinematografica in genere. È un horror che non è un horror, o meglio lo è finché il regista ci fa credere che lo sia. Spiazzante, ironico, da rivedere daccapo dopo averlo finito. Nonostante sia del 2017 per me una delle sorprese di quest’anno. #recensioniflash

BLONDE (Andrew Dominik, 2022)

Ho visto Blonde con molto ritardo rispetto all’hype (negativo) che circondava il film. Detto sinceramente, non avevo molta voglia di vederlo perché i film “divisivi per forza” non sono molto nelle mie corde. Poi mi sono fatto attirare da un paio di recensioni positive e ho capito che ovviamente, come sempre in questi casi, la shitstorm era più che altro strumentale, e non era riferita al film in sé.

Blonde è un horror di tre ore che per caso ha Marilyn come protagonista. Blonde è un film sui traumi dell’infanzia che segnano per tutta la vita, è uno studio sul patriarcato, un film a tesi sul rapporto tra la maschera e il volto.

Dico horror perché Blonde mi ha fatto pensare a Lynch, a Cronenberg, a Polanski molto più che non ai film di Marilyn stessa, così filologicamente ricostruiti da Andrew Dominik da lasciarti in confusione se si tratti di materiale d’archivio o meno. Blonde è tratto da un libro di Joyce Carroll Oates che già di suo si presentava come un’opera di fiction sulla vita della diva – non certo un documentario.

Ana De Armas si cala completamente in questo personaggio/Marilyn, metafora del corpo sessualizzato della donna, mostrandoci esplicitamente tutte le storture della società degli uomini. Tanti formati e stili diversi all’interno del film (e anche la musica di Nick Cave e Warren Ellis) ci aiutano a “prendere le distanze” da un materiale incandescente.

Certo, Marilyn non era solo questo. Ma Blonde, è evidente, non è un film biografico. #recensioniflash

WENDELL & WILD (Henry Selick, 2022)

Ottimo film di Halloween per famiglie, Wendell & Wild è un film in stop motion di Henry Selick (il maestro indiscusso del settore) scritto e prodotto dal re mida dell’horror (post)moderno Jordan Peele. Se avete visto Una vita da zucchina (anche quello un film scritto da una persona che normalmente ha poco a che fare con il mondo dell’animazione, Céline Sciamma), le premesse sono simili.

Scena straziante di morte dei genitori, sequela di orfanotrofi, carcere minorile, occasione di redenzione in una scuola di suore. Da lì però si parte con una giostra colorata ed estremamente ironica di punk rock, satanismo, cadaveri resuscitati con crema per i capelli, gentrificazione, omicidi, scuole cattoliche, cacciatori di demoni e via dicendo.

Wendell e Wilde sono due giovani demoni che si connettono con Kat, la ragazzina coi capelli verdi che all’inizio perde i genitori in un incidente. Loro vogliono costruire un luna park satanico nel mondo dei vivi e lei vorrebbe resuscitare i suoi: un’ottima base per un patto demoniaco… cosa potrebbe andare storto?

Tra un orrore e l’altro (ma il tono è molto Scooby Doo, non c’è nulla di veramente spaventoso, o comunque non più di Nightmare Before Christmas o La sposa cadavere) si parla di traumi, di come superarli, di accettazione di sé e di crescita. Il risultato finale è veramente interessante.

Character design spigoloso ma affascinante, musica di Tv On The Radio, X-Ray Spex e Death, una chicca da non perdere. #recensioniflash

NIGHTBOOKS (David Yarovesky, 2021)

I bambini hanno bisogno di orrore, e Nightbooks (su Netflix dall’anno scorso, ma l’anno scorso la Creatura aveva 8 anni e rifiutava di vederlo, adesso invece no) è un perfetto film horror entry level per bambini che non fa sconti e fa veramente abbastanza paura (considerando il target, dico).

Prodotto da Sam Raimi e Robert Tapert (già una garanzia), Nightbooks è una variazione sul tema delle Mille e una notte incrociato con le classiche fiabe dei Grimm (in particolare Hansel e Gretel). Alex è un bambino un po’ nerd appassionato creatore di storie paurose che viene rapito da Natasha, una strega superglamour e molto cattiva (Krysten Ritter).

La strega vuole ogni sera un racconto di paura diverso (il che permette di incastonare nella trama principale alcuni gustosi cortometraggi horror realizzati in tecnica mista) per lasciar vivere Alex le la sua compagna di sventure Yasmin (un’altra bimba che vive nell’appartamento della strega, che già di per sé è un set fantastico).

C’è moltissimo lavoro sui personaggi (pochi e ben scritti), il production design, i costumi, le creature e la colonna sonora sono degnissimi e contribuiscono a creare un’atmosfera da vero scary movie.

Ci sono misteri da svelare, colpi di scena, azione, momenti di schifo (splatter caramelloso, lo definirei) e un “mostro finale” diciamo degno di Raimi, quindi fottutamente spaventoso. Il bambino che è in me ha goduto molto, devo però capire se verrò svegliato stanotte dal bambino che dorme di là. #recensioniflash

ELVIS E GLI ALTRI

Questi mesi sono stati avari di tempo e soddisfazioni, ma non ho smesso di vedere film e di annotare le mie impressioni per ricordarmeli e per presentarveli, se vi fa piacere. Questa è la tornata di settembre, a breve arriva anche quella di ottobre.

LIGHTYEAR (Angus McLane, 2022)

L’altra sera, per accontentare la Creatura, ho visto Lightyear con zero aspettative e zero interesse (diciamo che riconosco il valore dei film di Toy Story, più che altro il terzo, ma non sono mai stati tra i miei preferiti).
E invece dai, l’ho trovato gradevole. Sì, è vero, è una sorta di origin story di uno dei personaggi più pallosi dell’universo Pixar, ma si muove su un territorio diverso, più vicino a The Incredibles, fantascienza già vista ma inedita in un film animato, come se avessero sviluppato in meglio gli spezzoni alla Call of Duty di Ralph Spaccatutto.

Ci sono un sacco di strizzate d’occhio ai classici della fantascienza con la F maiuscola che capiscono solo i più grandi (Alien, 2001, Interstellar, per dire) e c’è un gatto robot che intrattiene i più piccoli (la recensione della Creatura infatti è “meno male che c’è il gattino, io seguo solo lui”). C’è anche una sequenza a montaggio verso l’inizio del film che – maledetta Pixar – fa di nuovo lo scherzetto dell’inizio di Up.

La storia in brevissimo: Lightyear è uno space ranger che vive di sensi di colpa per aver condannato un equipaggio di centinaia di persone a vivere su un pianeta ostile. Prova quindi in tutti i modi a recuperare la velocità smodata™️ con la quale l’astronave potrebbe portare tutti a casa. Ogni giro di prova che lui fa per testare nuovi carburanti dura 4 minuti per lui e 4 anni per chi rimane ad aspettarlo. Seguono paradossi temporali, invasioni robot e un cattivo inedito e molto convincente.

Si spara molto, per essere un film Pixar, quindi boh se come me avete bambini che aborrono l’uso delle armi magari potete saltarlo. Comunque non è affatto male. #recensioniflash

THOR: LOVE AND THUNDER (Taika Waititi, 2022)

Impossibile non definire Thor: Love and Thunder una gigantesca cacat… ehm, baracconata. Eppure, il film si fa amare (se siete fan del personaggio) proprio per alcune delle sue trovate più tamarre o surreali (le capre urlanti, o la colonna sonora nella sua interezza, per dire).

Il personaggio più centrato del film è sicuramente Gorr il macellatore di dèi (un nome fottutamente jackkirbyano), interpretato da un Christian Bale esageratamente sopra le righe ma anche unico vero personaggio tragico della storia (anche Jane Foster lo è, ma è meno incisiva).

E niente, è uno di quei film di Taika Waititi fatti con i soldi (e si vede) ma un po’ meno belli di altri film di Taika Waititi fatti con meno soldi. C’è tutto quello che i fan Marvel vogliono vedere e si continua nel filone un po’ smargiasso di Ragnarok, suonando un po’ sempre lo stesso tasto. Non c’è molto altro da dire. #recensioniflash

PINOCCHIO (Robert Zemeckis, 2022)

Il peggior live action Disney mai visto? Finora, tristemente, sì. L’unico credito che dò a Zemeckis per questo orribile pastrocchio è l’aver riportato la storia in Italia e precisamente nei dintorni di Siena. Per il resto, dio mio, che papocchio.

D’accordo, non è un film di Marco Bellocchio, ma un guizzo creativo in più non avrebbe guastato. Il Pinocchio di questo film è volutamente identico (ma in 3D) a quello del 1940. Le canzoni nuove sono orribili e quelle vecchie rifatte in modo moderno e corretto, ma poco appetibile.

Geppetto (Tom Hanks) è caratterizzato come un anziano un po’ svitato che ha perso il suo marmocchio e costruisce un burattino come surrogato del vero figlio che aveva (assolutamente non necessario e non in linea con il Pinocchio di Collodi). Alcune creature in CGI sono sinceramente imbarazzanti (il gallo e la volpe su tutti, ma anche il grillo non scherza un cazzo). Nel paese dei balocchi non si fuma ma si beve birra (vabbè). Il concetto di easter egg disseminate negli orologi a cucù di Geppetto è tristissimo.

Insomma, imbarazzante, cringe, tempo perso. #recensioniflash

GULLIVER’S TRAVELS (Dave Fleischer, 1939)

La curiosità è questa. Ma nel tempo intercorso tra Biancaneve e Pinocchio, momento di massima fioritura e di alacre lavoro degli studi Disney, esisteva qualche altro pazzo che aveva pensato di fare un lungometraggio di animazione? Ovviamente sì: Max e Dave Fleischer!

Gulliver’s Travels si trova tutto su YouTube, è bellissimo (se vi piace quel periodo di storia dell’animazione) ed è ovviamente molto diverso dal canone Disney. Più cattivo, più surreale, più “deformato” (in alcuni personaggi) e più realistico in altri (tipo Gulliver stesso).

Alcune scene sono famose ancora oggi, anche se non le avete mai viste forse potreste riconoscerle (Gulliver che si libera dai lacci, Gulliver che parla col re lillupuziano). La cosa strana del film è appunto la giustapposizione all’interno dello stesso lungometraggio di due diversi stili di animazione, uno dedicato a Gulliver che è al limite del rotoscoping e uno dedicato ai lillupuziani, al limite del rubber hose animation.

A Disney, con Biancaneve da un lato e i sette nani dall’altro, questa commistione era venuta decisamente meglio. #recensioniflash

MEMORIA (Apichatpong Weerasethakul, 2022)

Mi è un po’ difficile parlare di Memoria di Apichatpong Weerasethakul (ovviamente ho copincollato il nome, non crederete mica che sappia scriverlo da solo). Si tratta di un film misterioso, una detective story, nientemeno, dove però l’investigazione si basa essenzialmente su un… rumore.

All’inizio Tilda Swinton, inglese espatriata a Bogotà, sente un rumore durante la notte, si sveglia e si chiede “ma stanno ristrutturando nell’appartamento a fianco?” (ovviamente no, non stanno ristrutturando). Poi tipo di colpo tutti gli antifurti delle macchine di un parcheggio iniziano a suonare di colpo insieme. Poi smettono (dopo due minuti buoni di piano sequenza con antifurti a palla).

Poi scopriamo che Tilda sente spesso questo tonfo (e lo sente solo lei). Curioser and curioser, come direbbe Alice Liddell. Tilda consulta un ingegnere del suono, forse parte una sorta di storia romantica, non è molto chiaro.

L’investigazione prosegue, e Tilda si ritrova nella foresta amazzonica a casa di un pescatore che si chiama come l’ingegnere del suono (e potrebbe essere un suo doppio nel multiverso) e ha con lui un’esperienza extracorporea o di premorte o salcazzo che ci fa capire che il tonfo potrebbe essere un rumore che viene dal passato e riverbera nel presente… o addirittura, come nell’inquadratura finale del film che non voglio spoilerare perché è uno dei WTF più enormi della storia del cinema), dal futuro!

Comunque sia, fidatevi che è un gran film, non a caso ha vinto a Cannes, però non è il classico film da consumo veloce. Richiede attenzione, partecipazione, meditazione, e un po’ di sostanze stupefacenti non guastano. #recensioniflash

LAST AND FIRST MEN (Jòhann Jòhansson, 2018)

Last and First Men è un film che trovate solo su Mubi, e solo se cercate veramente bene. È un film con Tilda Swinton, e io l’ho guardato per quello. Ma Tilda in realtà è solo la voce narrante. Il film, in realtà, è una sequenza infinita di inquadrature di architettura brutalista yugoslava. E basta.

Il film segna il debutto alla regia di Jòhann Jòhannsson (il compositore islandese) che però è morto dopo averlo terminato. Mi viene da dire che me lo aspettavo. Le musiche sono dello stesso regista e sono ovviamente ipnotiche, angoscianti, a tratti soporifere.

È dura arrivare alla fine (e capirci qualcosa). Last and First Men (che Wikipedia sostiene essere tratto da un romanzo di fantascienza degli anni ’30) non è un film per tutti. Però le immagini sono molto belle, e se non riuscite a prendere sonno è meglio di un Roipnol. #recensioniflash

ELVIS (Baz Luhrmann, 2022)

Baz Luhrmann ci ha da sempre abituato a film ipertrofici, barocchi e postmoderni, ed Elvis ovviamente non fa differenza. Confrontandosi con il Mito con la M maiuscola, il regista non perde la sua “mano pesante” e confeziona un biopic a doppio taglio in cui la storia personale di Elvis si intreccia con quella del demoniaco colonnello Parker (Tom Hanks) – il vero deus ex machina e narratore della storia – che apre e chiude le danze dal suo letto di morte.

Da Tupelo a Beale Street, da Graceland a Las Vegas, la storia di Elvis come tutti la conosciamo si dipana tra un colpo d’anca di Austin Butler e uno sguardo diabolico di Tom Hanks. Luhrmann ovviamente spinge il pedale al massimo, divide lo schermo, mette in scena tic, droghe, musica e luci, si prende qualche libertà con lo speciale ’68 Comeback e chiude con una morte fuori campo.

In mezzo, la nascita del merchandising, la tensione poi replicata da ogni rockstar tra indie e mainstream, il grande gioco del gossip, le droghe, lo show che must go on, la (Memphis) Mafia, il gioco d’azzardo, il TCB (Taking Care of Business), Gladys e Priscilla vittime degli eventi. Un film-mostro di due ore e quaranta che ha l’aspetto di un incubo americano e che rimane negli occhi per un bel po’ dopo che si sono spente le luci. #recensioniflash

I USED TO BE FAMOUS (Eddie Sternberg, 2022)

Netflix fa leva sulla nostalgia (la mia almeno) per un periodo di synth pop e boy band con questa storia di un tizio che appunto era in una boy band e poi 20 anni dopo finisce a suonare la tastiera in strada e/o a bussare alle porte dei pub per vedere se può alzare qualche sterlina.

Mentre è lì che armeggia con la tastiera un bel giorno gli si avvicina un teenager autistico che lo segue facendo percussioni su un bidone ed ecco che scatta la scintilla: i due potrebbero diventare un duo (e in effetti lo diventano) e smuovere le folle di South London.

Come avrete capito è un film a tratti un po’ sentimentalistico sull’amicizia vera, su suonare insieme e sul potere della musica, e dell’amicizia, sul rapportarsi con persone neurodiverse (l’attore stesso è nello spettro autistico) e via dicendo.

Però devo dirvi che l’ho trovato ben fatto, per nulla ricattatorio e poi ha delle bellissime musiche e un finale non troppo prevedibile. Quindi, consigliato. #recensioniflash

IL GRIDO (Michelangelo Antonioni, 1957)

A un certo punto quest’autunno mi è preso il trip di vedere tutto l’Antonioni possibile su Mubi, e in particolare film che non avevo mai visto, come quelli precedenti a L’avventura. Il Grido, nella fattispecie, è il film perfetto per rallegrare una giornata piovosa.

Scherzi a parte, non voglio mettermi qui a dirvi quanto vale la pena vederlo, è un capolavoro a metà strada tra neorealismo e disagio esistenziale tipico dell’Antonioni più tardo, è la storia di Aldo, operaio la cui vita va sempre più alla deriva in senso sentimentale, professionale, esistenziale. La moglie Irma lo lascia e lui se ne va con la bambina in un vagabondaggio nelle terre del Po (teatro del primo documentario di Antonioni stesso) fino all’inevitabile finale.

Le feste, i balli, il sesso, le possibilità di lavoro, il fango, gli argini, gli incontri, tutto è svuotato di senso e si completa nel “grido” finale. Curiosa, almeno per me che non lo avevo mai visto, l’applicazione del “neorealismo interiore” alla classe operaia. #recensioniflash

DRIFTING HOME (Hiroyasu Ishida, 2022)

Mi è piaciuto molto questo anime su Netflix che parte da una premessa molto disaster movie (un palazzo in rovina si ritrova misteriosamente in mezzo all’oceano e il gruppo di bambini che è nel palazzo deve sopravvivere tra tempeste e navigazione, trovando cibo e aiutandosi tra loro) ma che ovviamente è il pretesto per una storia di passaggio dall’infanzia all’età adulta (o più adulta diciamo).

Kosuke e Matsume sono come fratello e sorella, ma qualcosa di misterioso li ha allontanati. Si tratta della morte del nonno di Kosuke (che era come un nonno anche per Natsume, che era stata accolta nella famiglia pur non facendone parte). Il nonno abitava in un complesso di appartamenti che sta per essere demolito e i ragazzi, seguiti da un gruppetto di amici, vanno a visitarlo un po’ per sfida, un po’ per curiosità.

Da lì in poi la logica fantastica del film prende il sopravvento, ovviamente poi nel palazzo c’è anche uno strano ma rassicurante bambino fantasma albero, e tutto l’equipaggio dovrà capire come tornare a casa.

Il film si perde spesso in lungaggini che probabilmente allo spettatore occidentale potrebbero sembrare inutili, ma dopo un paio d’ore arriva al punto. Visivamente comunque è una gioia per gli occhi. #recensioniflash