Il film di Sam Esmail su Netflix è carino, nel senso che non ti fa sentire che è una perdita di tempo guardarlo, e ci sta che ti incuriosisca caricando la tensione (meglio: la suspence hitchcockiana) e ti metta la voglia di vedere come va a finire.
Il problema è che è un film “wannabe Shyamalan” che carica tantissimo per dare un risultato mediobasso. Il che probabilmente è anche voluto, solo per fare incazzare lo spettatore, sospetto.
Ogni 5 minuti c’è quella che nei siti di stock musicale viene definita “ominous music“, ogni 5 minuti la camera assume progressivamente un’angolazione impossibile in modo tale da comunicare che “c’è qualcosa che sta andando orribilmente storto”, ogni 5 minuti accade qualcosa di inspiegabile tipo apparizioni di animali, signore spagnole terrorizzate che urlano in spagnolo, tempeste di volantini, rumori assordanti, e se ci fate caso i dipinti che ci sono in casa cambiano nel corso del film.
OK, i rumori assordanti dovrebbero quantomeno avere un senso, secondo le rivelazioni della parte finale del film che ovviamente non vi dirò. La premessa è quella (ormai già vista in almeno altri due o tre film) della allegra famiglia (Julia Roberts, Ethan Hawke e figli) che affitta un AirBnB negli Hamptons e si gode la sua bella vacanzina. Ma nel cuore della notte arriva Mahershala Ali (il padrone di casa) con la figlia adolescente: purtroppo devono dormire anche loro lì perché “c’è un blackout”.
La situazione è già ambigua così ma Esmail carica ambiguità sopra ambiguità, inspiegabile su inspiegabile, effettaccio su effettaccio fino ad arrivare a un finale che è uno sberleffo di quelli che ti fanno dire “ma minchia”, e bon. Kevin Bacon sottoutilizzato, peccato.
LOL ci ho messo il punto interrogativo perché dai, ci sono altri candidati. Però… Dovete sapere che Jawan (film di Atlee, un regista tamil al suo esordio in hindi), forte anche della presenza esplosiva di Shah Rukh Khan, in pratica il Tom Cruise indiano, è il secondo miglior incasso mondiale (dopo The Nun 2, LOL al quadrato) ed è – credo – il film che in India ha incassato di più nella storia del cinema. E un motivo ci sarà…. Trailer.
Non vi dico molto della trama perché il film dura circa tre ore, è intricatissimo e mescola come tutti i migliori film di Bollywood melodramma sociale, action, poliziesco, musical, guerra e heist movie. Però c’è Shah Rukh Khan che interpreta due personaggi. Come questi personaggi sono connessi tra loro è il colpo di scena che arriva dopo un’ora e mezza, ma siccome uno di questi personaggi ha un gusto per il travestimento che nemmeno Arsène Lupin, lo spettatore si confonde e crede che il personaggio sia uno solo. Invece sono due.
Jawan inizia potentissimo e prosegue senza mai calare: i combattimenti sono tutti montati con rallentamenti e accelerazioni improvvise, spesso sotto la pioggia o nel fango per evidenziare gli schizzi, la cinepresa impazzisce e passa ad angolazioni impossibili, sangue lacrime e saliva sono spesso lanciati contro lo spettatore.
Jawan quando ci sono le scene di ballo (e ce ne sono almeno cinque una più bella dell’altra) costruisce interi set tipo seimila ballerine in uniforme dentro un carcere e fa un larghissimo uso di ventilatori giganti per muovere i giambruneschi ciuffi di Khan.
Jawan è anche un film di denuncia sociale, perché dopo i primi 40 minuti capiamo che il cattivo terrorista non è veramente cattivo ma è una sorta di Robin Hood indiano che ruba agli industriali per dare ai contadini (le sue motivazioni ovviamente le capiremo solo dopo 160 minuti, ma non è questo il punto).
Jawan è uno di quei film dove devi in continuazione fermare per esclamare “Ah ma quindi LUI è imparentato con QUELL’ALTRO” o “Ma certo, quindi LA VENDETTA passa attraverso le generazioni per arrivare a…” – insomma, è un film di agnizioni, di colponi di scenona, di bambini e cani che muoiono malissimo per farti odiare ancora di più la cattivissima nemesi di Vikram Rathore (ah giusto mi ero dimenticato di dirvi che il protagonista si chiama VIKRAM RATHORE, un nome fantastico).
Vabbè. Correte subito su Netflix a guardarlo (magari in due parti) altrimenti vi diseredo.
Su TikTok e su Reddit tutti lo definiscono il film più spaventoso e traumatizzante mai visto, al ToHorror di Torino nel 2022 aveva vinto il primo premio, insomma, vediamo questo Skinamarink che è approdato su Shudder, la piattaforma streaming dedicata all’horror.
Dalle prime righe avete intuito che Skinamarink è uno di quei “fenomeni virali” del web, e in effetti dalle estetiche del web prende moltissimo. È un film di “soglie”, che si svolge tutto in spazi liminali, imbevuto di weirdcore e traumacore, debitore dell’immaginario delle backrooms.
Ma è anche un film che viene presentato come “Poltergeist se lo avesse girato David Lynch” (semplificazione, ma ci sta: il primo David Lynch, comunque, quello anteriore a Eraserhead). Ad alcuni potrebbe ricordare i grandi classici del found footage tipo The Blair Witch Project o Paranormal Activity. Niente di più lontano, in realtà.
Skinamarink è semplicemente un incubo. Vuole ricreare le (non) logiche e le sensazioni di un incubo opprimente che può avere un bambino, e se ricordate gli incubi che avevate da bambini… beh, Skinamarink è esattamente quello.
Kyle Edward Ball, il regista, ha un canale YouTube dove raccoglie gli incubi delle persone e tenta di renderli in cortometraggi. Skinamarink è il “salto di qualità”: 100 minuti di buio bluastro – il film si svolge tutto in una casa buia con pesanti filtri di ripresa che emulano una vecchia videocamera VHS e gli ISO sparati innaturalmente al massimo – e di sonoro gracchiante e distorto. Grana grossissima, immagini difficilissime da decifrare, e quando le decifri… stai vedendo angoli di soffitti, ombre di attaccapanni, stipiti di porte, dettagli di balaustre.
Non si vede (quasi) mai un personaggio umano, anche dei bambini protagonisti si vedono quasi sempre solo i piedi. La trama? Se si fa molta attenzione si riesce a capire che ci sono due bambini lasciati soli dai genitori in una casa di notte: le porte e le finestre scompaiono e i bambini sono intrappolati con una entità misteriosa che li richiama verso la cantina, li tortura psicologicamente e fisicamente, forse li uccide o forse no, gli spariglia i lego e gli fa andare in loop i cartoni animati di Max Fleischer in TV.
Tutto questo lo puoi capire dalle voci (prevalentemente sussurri, urla lancinanti o voci demoniache) perché in realtà non stai mai vedendo nulla se non l’occasionale angolo di una cassettiera o la gamba del tavolino del salotto. Inquadrature che durano anche 15 secondi, fisse, ferme, dove tu ti aspetti che a un certo punto succeda qualcosa e invece NON SUCCEDE MAI UN CAZZO.
A un certo punto c’è del sangue, i cui schizzi vengono mostrati ripetutamente, ma non sai di chi sia, come, quando e perché. I bambini sono morti? Sono vivi? Non si sa. L’entità è un demone? Non si sa. I genitori sono veramente scomparsi? O magari sono coinvolti in questo misterioso gioco al massacro? Non si sa.
Come potrete immaginare Skinamarink è un film che o ti incuriosisce e te lo guardi fino alla fine, accettando come un dogma il fatto che tanto non capirai un cazzo, o ti fa girare talmente tanto i coglioni che dopo 10 minuti di buio sgranato e sussurri lanci il telecomando contro la TV.
Vedete voi se vale la pena. Secondo me sì.
PS: “Skinamarink-a dink-a dink, Skinamarink-a doo, I Love You” è uno dei motivetti anni ’30 che si sentono provenire dalla televisione sintonizzata su un canale morto della casa del film, per chi se lo stesse chiedendo.
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