BEAU IS AFRAID, IL VIAGGIO DELL’ANTIEROE

Beau is Afraid è il terzo film di Ari Aster (che già di suo è un regista che o lo ami o lo odi) ed è secondo me il suo migliore. Per affrontarlo però bisogna essere pronti a un film di 3 ore che non è un horror “tradizionale” (come Hereditary o Midsommar). È piuttosto un interminabile incubo edipico con alcune sequenze molto disturbanti ed altre francamente grottesche.

Beau (Joaquin Phoenix) è effettivamente spaventato, in ansia, paralizzato dalle sue paure per tutto il film. Vive in un quartiere che sembra il sogno bagnato di Salvini (assassini, pazzi e spacciatori a ogni angolo), è in cura da uno psichiatra che gli prescrive farmaci dagli effetti collaterali inquietanti e deve andare a trovare sua madre, ma forse non ne ha tutta questa voglia.

A poco a poco, mentre Beau compie un “viaggio dell’antieroe” pieno di sfide improbabili, scopriamo di più su di lui e sul suo rapporto con la madre, attraverso alcuni flashback o sogni indotti dagli antidolorifici. A un certo punto c’è una sequenza animata quasi biblica, in un altro punto (verso la fine, al momento delle rivelazioni) c’è una sequenza talmente esagerata, splatter e grottesca da far ridere per il disgusto.

Non voglio raccontare nulla perché Beau Is Afraid, più che un film da seguire, è un’esperienza da vivere – anche perché lascia più domande che risposte. A me è piaciuto moltissimo, ma so per certo che l’80% delle persone che dovessero guardarlo spinti dalla mia recensione verrebbero ad aspettarmi sotto casa coi bastoni. È un film “divisivo”.

WANNABE SHYAMALAN: LEAVE THE WORLD BEHIND

Il film di Sam Esmail su Netflix è carino, nel senso che non ti fa sentire che è una perdita di tempo guardarlo, e ci sta che ti incuriosisca caricando la tensione (meglio: la suspence hitchcockiana) e ti metta la voglia di vedere come va a finire.

Il problema è che è un film “wannabe Shyamalan” che carica tantissimo per dare un risultato mediobasso. Il che probabilmente è anche voluto, solo per fare incazzare lo spettatore, sospetto.

Ogni 5 minuti c’è quella che nei siti di stock musicale viene definita “ominous music“, ogni 5 minuti la camera assume progressivamente un’angolazione impossibile in modo tale da comunicare che “c’è qualcosa che sta andando orribilmente storto”, ogni 5 minuti accade qualcosa di inspiegabile tipo apparizioni di animali, signore spagnole terrorizzate che urlano in spagnolo, tempeste di volantini, rumori assordanti, e se ci fate caso i dipinti che ci sono in casa cambiano nel corso del film.

OK, i rumori assordanti dovrebbero quantomeno avere un senso, secondo le rivelazioni della parte finale del film che ovviamente non vi dirò. La premessa è quella (ormai già vista in almeno altri due o tre film) della allegra famiglia (Julia Roberts, Ethan Hawke e figli) che affitta un AirBnB negli Hamptons e si gode la sua bella vacanzina. Ma nel cuore della notte arriva Mahershala Ali (il padrone di casa) con la figlia adolescente: purtroppo devono dormire anche loro lì perché “c’è un blackout”.

La situazione è già ambigua così ma Esmail carica ambiguità sopra ambiguità, inspiegabile su inspiegabile, effettaccio su effettaccio fino ad arrivare a un finale che è uno sberleffo di quelli che ti fanno dire “ma minchia”, e bon. Kevin Bacon sottoutilizzato, peccato.

JAWAN MIGLIOR FILM 2023?

LOL ci ho messo il punto interrogativo perché dai, ci sono altri candidati. Però… Dovete sapere che Jawan (film di Atlee, un regista tamil al suo esordio in hindi), forte anche della presenza esplosiva di Shah Rukh Khan, in pratica il Tom Cruise indiano, è il secondo miglior incasso mondiale (dopo The Nun 2, LOL al quadrato) ed è – credo – il film che in India ha incassato di più nella storia del cinema. E un motivo ci sarà…. Trailer.

Non vi dico molto della trama perché il film dura circa tre ore, è intricatissimo e mescola come tutti i migliori film di Bollywood melodramma sociale, action, poliziesco, musical, guerra e heist movie. Però c’è Shah Rukh Khan che interpreta due personaggi. Come questi personaggi sono connessi tra loro è il colpo di scena che arriva dopo un’ora e mezza, ma siccome uno di questi personaggi ha un gusto per il travestimento che nemmeno Arsène Lupin, lo spettatore si confonde e crede che il personaggio sia uno solo. Invece sono due.

Jawan inizia potentissimo e prosegue senza mai calare: i combattimenti sono tutti montati con rallentamenti e accelerazioni improvvise, spesso sotto la pioggia o nel fango per evidenziare gli schizzi, la cinepresa impazzisce e passa ad angolazioni impossibili, sangue lacrime e saliva sono spesso lanciati contro lo spettatore.

Jawan quando ci sono le scene di ballo (e ce ne sono almeno cinque una più bella dell’altra) costruisce interi set tipo seimila ballerine in uniforme dentro un carcere e fa un larghissimo uso di ventilatori giganti per muovere i giambruneschi ciuffi di Khan.

Jawan è anche un film di denuncia sociale, perché dopo i primi 40 minuti capiamo che il cattivo terrorista non è veramente cattivo ma è una sorta di Robin Hood indiano che ruba agli industriali per dare ai contadini (le sue motivazioni ovviamente le capiremo solo dopo 160 minuti, ma non è questo il punto).

Jawan è uno di quei film dove devi in continuazione fermare per esclamare “Ah ma quindi LUI è imparentato con QUELL’ALTRO” o “Ma certo, quindi LA VENDETTA passa attraverso le generazioni per arrivare a…” – insomma, è un film di agnizioni, di colponi di scenona, di bambini e cani che muoiono malissimo per farti odiare ancora di più la cattivissima nemesi di Vikram Rathore (ah giusto mi ero dimenticato di dirvi che il protagonista si chiama VIKRAM RATHORE, un nome fantastico).

Vabbè. Correte subito su Netflix a guardarlo (magari in due parti) altrimenti vi diseredo.