IL NUOVO FILM DI NATALE: THE HOLDOVERS

Passato il mese scorso al Torino Film Festival, The Holdovers di Alexander Payne è un solidissimo film dramedy (dove insomma, si ride ma si piange anche). Ecco, è uno di quei film di cui potrei dire “che bello, ho pianto tanto”, perché in effetti senza trucchetti o sentimentalismi ti fa costantemente stare con gli occhi lucidi.

Come fa? Semplice: intanto costruendo personaggi di cui ti importa veramente e affidandoli ad attori superlativi (Paul Giamatti, voglio dire, basterebbe solo il suo nome per guardare qualsiasi film). Poi immergendo il tutto in una studiatissima fotografia anni ’70, su toni smorti e costruendo le inquadrature e il montaggio come se fossimo nei ’70 (il film si svolge a Natale del 1970, esattamente quando sono nato io).

Persino i titoli di testa sono anni ’70 in un modo così citazionista da far sembrare il film un Grindhouse tarantiniano fuori tempo massimo (nulla di più lontano, comunque). La storia – che in alcuni spunti potrebbe richiamare The Breakfast Club o Dead Poets Society – è quella di un gruppo di studenti costretto a restare nel campus di una prep school durante le vacanze natalizie e di un professore (Giamatti) odiatissimo da studenti e colleghi che è costretto a far loro da guardiano.

All’inizio i ragazzi sono cinque, e assistiamo alle schermaglie tra loro e alle sfuriate diaboliche del professore. Poi, con un espediente, resta solo uno studente, il più “complicato”. E i personaggi si riducono a tre: Angus (lo studente interpretato da Dominic Sessa, bravissimo), il professor Hunham e Mary (Da’Vine Joy Randolph, già vista in Only Murders in the Building), la responsabile della mensa scolastica.

Da qui in poi il film è un divertente (e straziante al tempo stesso) capolavoro di scrittura e di messa in scena, modernissimo anche se fintamente anni ’70, in cui i due uomini, il ragazzo e il professore, si mettono a nudo l’uno con l’altro condividendo poco a poco segreti, traumi e difficoltà che li rendono outsider nella società degli uomini.

Per me non c’è scena che non sia perfetta e funzionale all’evolversi della storia e dei personaggi, è un film misuratissimo che ti tiene agganciato emozionalmente e visivamente fino alla fine, e mentre scrivo queste righe ho deciso che balza di colpo in cima alla lista. The Holdovers per me è il film dell’anno. D’altronde lo sapete che i film stile seventies sono da sempre i miei favoriti.

E tra l’altro è sicuramente il film che vorrò rivedere ogni singolo Natale, alla faccia di Una poltrona per due.

PAST LIVES: CERTI AMORI NON FINISCONO

Mi rivolgo a voi, amanti del mélo asiatico, dei film di Wong-Kar Wai (lo so che ci siete anche voi), degli amori impossibili e delle storie strappacuore che la quotidianità sa regalarci.

Past Lives di Celine Song è il film per voi (per noi). Il film inizia dalla fine, mostrandoci una donna asiatica tra due uomini, un asiatico e un caucasico, e due voci – quelle degli spettatori tipo – che dicono “chissà se lei sta con lui o sta con l’altro”, “ma dai, è evidente che sta con l’asiatico”, e a quel punto lei guarda in camera. Aggancio totale.

24 anni prima, a Seoul, Na Young e Hae Sung hanno 12 anni, vanno a scuola insieme e si amano pur non essendoselo mai detto chiaramente. Quantomeno, lui ama lei, ma lei deve seguire la famiglia determinata ad emigrare in Canada. Flash forward a 12 anni dopo, Na Young (che in America si fa chiamare Nora) vive a New York e fa la drammaturga, ritrova Hae Sung su Facebook e cominciano una relazione a distanza fatta di videochiamate, mail e messaggi.

Si capisce che la cosa sta diventando troppo coinvolgente e Nora decide di troncare. Poco dopo conosce Arthur, un altro scrittore newyorkese, e… OK, cosa succede dopo ce lo si può immaginare. Quello che conta è che altri 12 anni più tardi Hae Sung decide di andare in vacanza a New York e ovviamente di far visita a Nora.

L’ultima parte del film è dolce in quel modo che ti brucia il cuore e il finale è uno dei più commoventi dell’anno. In questa sorta di sliding doors coreano-americano non ci sono vincitori né perdenti, ma solo personaggi che dovranno convivere con il disagio delle scelte che hanno fatto nelle vite passate. Bellissimo. Si trova “in giro”, in Italia uscirà a febbraio.

BEAU IS AFRAID, IL VIAGGIO DELL’ANTIEROE

Beau is Afraid è il terzo film di Ari Aster (che già di suo è un regista che o lo ami o lo odi) ed è secondo me il suo migliore. Per affrontarlo però bisogna essere pronti a un film di 3 ore che non è un horror “tradizionale” (come Hereditary o Midsommar). È piuttosto un interminabile incubo edipico con alcune sequenze molto disturbanti ed altre francamente grottesche.

Beau (Joaquin Phoenix) è effettivamente spaventato, in ansia, paralizzato dalle sue paure per tutto il film. Vive in un quartiere che sembra il sogno bagnato di Salvini (assassini, pazzi e spacciatori a ogni angolo), è in cura da uno psichiatra che gli prescrive farmaci dagli effetti collaterali inquietanti e deve andare a trovare sua madre, ma forse non ne ha tutta questa voglia.

A poco a poco, mentre Beau compie un “viaggio dell’antieroe” pieno di sfide improbabili, scopriamo di più su di lui e sul suo rapporto con la madre, attraverso alcuni flashback o sogni indotti dagli antidolorifici. A un certo punto c’è una sequenza animata quasi biblica, in un altro punto (verso la fine, al momento delle rivelazioni) c’è una sequenza talmente esagerata, splatter e grottesca da far ridere per il disgusto.

Non voglio raccontare nulla perché Beau Is Afraid, più che un film da seguire, è un’esperienza da vivere – anche perché lascia più domande che risposte. A me è piaciuto moltissimo, ma so per certo che l’80% delle persone che dovessero guardarlo spinti dalla mia recensione verrebbero ad aspettarmi sotto casa coi bastoni. È un film “divisivo”.