DEMETER, PER COMPLETISTI DI DRACULA

Bella idea ibridare Master and Commander con Alien, di questo va dato atto. Sulla carta Last Voyage of the Demeter di Andre Øvredal, altrimenti noto (da me) per Autopsy e Scary Stories to Tell in the Dark, era una palla smisurata: una stiracchiatura a lungometraggio di un capitolo di Dracula di Bram Stoker che (giustamente) qualsiasi film vampirico risolve in 15-30 secondi di montato.

Il regista però deve aver deciso che era una figata, e comunque va sottolineato che la visione del film non è così atroce e insulsa quanto avrei potuto pensare. 

Anzi, in certi punti è anche divertente. Proprio perché, come dicevo, segue passo passo (con alcune licenze) il diario di bordo del capitano della Demeter da Varna a Whitby, ma è costruito come Alien di Ridley Scott nel contesto di Master and Commander di Peter Weir. E questo lo rende quantomeno un film curioso. 

Per quanto riguarda Dracula, egli appare solo nel buio, nella nebbia o nella tempesta, nella sua forma di gigapipistrello umanoide, e purtroppo la CGI non è al massimo. Questo è il principale motivo per cui il film regge poco.

L’atmosfera però è bella, ottocentesca e malsana, c’è molto sangue, c’è un bambino che muore male ma recita bene (è quello di C’Mon C’Mon con Joaquin Phoenix) e niente, tutto quello che potrei dire di buono è comunque rovinato da un finale che strizza l’occhio allo spettatore e ti fa venir voglia di bestemmiare.

Quindi non so, ho sentimenti contrastanti. Vedetelo giusto se siete completisti di Dracula o amanti di Alien e di Master and Commander.

NATALE CON GLI OSAGE: KILLERS OF THE FLOWER MOON

Perdonami Martin, perché ho peccato. Non ho avuto la forza e la fermezza di vedere il tuo film di tre ore e mezza al cinema, dove tu volevi che io lo vedessi, e invece l’ho visto a casa, spezzandolo in quattro episodi come una miniserie qualsiasi.

Va detto che avevo paurissima del tuo film, Martin. Dopo The Irishman e Silence ero leggermente prevenuto. Ma sbagliavo, Martin, e ti chiedo perdono dal profondo del cuore. Killers of the Flower Moon è evidentemente uno dei tuoi capolavori.

Siccome sono vecchio, per me Osage Tribe era il nome di una band progressive in cui cantava Franco Battiato prima di intraprendere la carriera solista. Ora grazie al tuo film ho scoperto un pezzo per me inedito di storia degli USA. Una storia squallida e violenta di prevaricazione, come quelle che piace raccontare a te.

Leonardo DiCaprio è perfetto nel suo ruolo di fantoccio del capitalismo e del patriarcato, i due mali incarnati nella figura diabolica di Robert De Niro. Lily Gladstone se possibile è ancora più brava dei due protagonisti maschili nel ruolo di Mollie, moglie Osage e vittima predestinata.

Ti sei preso il tuo tempo, punteggiato dalle musiche scarne di Robbie Robertson e dal montaggio sapiente di Thelma Schoonmaker, e hai raccontato la fine di una civiltà, la nascita di un’agenzia, il familismo amorale della borghesia bianca, il crimine reso spettacolo in un finale memorabile in cui ci hai messo la faccia direttamente.

Grazie, Martin, non sono degno, lo sai.
Thah-leen gah-xeh.

SENSAZIONI FORTI: SALTBURN

Ed ecco un altro film perfetto per le feste: Saltburn, di Emerald Fennell, attesissima (almeno da me) opera seconda dell’autrice di Promising Young Woman. Un film che sulla carta ha un po’ di Talento di Mr. Ripley e un po’ di Ritorno a Brideshead, ma è molto diverso da entrambi. Dovessi dire, si colloca meglio nel filone Parasite / Triangle of Sadness.

Saltburn è il nome di una tenuta inglese, tipo Downton Abbey, per intenderci. Il film si svolge nel 2006 e segue le vicende dello studente “povero” Oliver Quick (Barry Keoghan, finalmente in un degno ruolo da protagonista, dato che è stato un fottuto magnete per gli occhi in ogni film in cui è apparso finora). Povero perché ha una borsa di studio e non è all’altezza dei suoi compagni tutti parte della higher class. Come Felix (Jacob Elordi, visto in Euphoria) ad esempio, di cui Oliver riesce fortuitamente a diventare amico.

Dopo aver raccontato a Felix che la sua famiglia è un disastro di alcolismo e droga e che il padre è appena morto, Felix si offre di invitarlo a passare l’estate a Saltburn, per non farlo tornare a casa. Lì Oliver può immergersi in una riccanza mai sperimentata prima, interagendo con i genitori di Felix (i sempre azzeccatissimi Richard E. Grant e Rosamund Pike), la sorella Venetia e il cugino Farleigh che gli è ostile fin dall’inizio.

Fin qui, una storia normale. Ma si capisce fin dalla cornice narrativa in cui Oliver adulto racconta la storia di quell’estate che non è una storia normale, proprio per niente.

Saltburn, poi, non è nemmeno interessato più di tanto a “raccontare una storia”, quanto piuttosto a rappresentare sensazioni, anche violente (vedi le scene della vasca da bagno o della tomba che tanto hanno scioccato il pubblico), a mettere in scena una particolare vibrazione, un desiderio, un’atmosfera. Le scene procedono in modo giustapposto spesso senza una logica precisa, il montaggio è molto libero e creativo (ma potente), i dettagli assumono un’eco incredibile.

Verso la fine, dopo un colpo di scena che ribalta la situazione, tutto tende a precipitare, fino ad un epilogo sconcertante, turbinoso, mortifero e diabolicamente divertente.

Saltburn non è un film per deboli di cuore, ma se riuscite a incassare i pugni allo stomaco (e nelle palle) che Emerald Fennell distribuisce generosamente, è un film che ripaga moltissimo. Sul finale c’è un “momento spiegone” che tutto sommato, data la natura un po’ psichedelica del film, poteva quasi essere evitato, ma è solo il preludio per il vero finale, che a mio avviso è il più bello del decennio.