FROM DUSK TIL PRISCILLA: SLAY

Slay è una horror comedy canadese diretta da Jem Gallard. E niente, farebbe già ridere così. Ma Slay è anche un film di vampiri buzzurri le cui quattro protagoniste sono uscite da RuPaul’s Drag Race: Trinity the Tuck, Heidi N Closet, Crystal Methyd e Cara Melle. Come anche il più stordito di voi potrà immaginare, il film è un pazzo pazzo crossover (anche riuscito, devo dire) tra From Dusk Til Dawn di Robert Rodriguez e Priscilla Queen of the Desert di Stephan Elliott.

Anni ’90 a pacchi, insomma, per un divertimento che più camp non si può: si inizia con un succhiasangue che contagia un redneck e si prosegue con le quattro favolosissime drag queen che viaggiano in camper verso il successivo locale dove dovrebbero esibirsi, sbagliando clamorosamente posto e finendo nel buco del culo del mondo.

Lo spettacolo ovviamente è accolto male, nonostante un paio di superfan in prima fila, un tecnico luci interessato e un titolare non troppo omofobico. Il buzzurro vampirizzato all’inizio, però, ben presto fa irruzione nel locale e stacca un pezzo di collo a un altro avventore. I vampiri si moltiplicano e così le drag queen e i sopravvissuti devono barricarsi dentro, scegliendo di collaborare contro i non morti e di non farsi la guerra tra loro.

Assolutamente prevedibile e molto meta (spesso i personaggi commentano le soluzioni registiche “al risparmio”, all’insegna dell’odìmo, come ci insegna Boris), Slay ha una freschezza e una sfacciataggine che lo candidano a diventare un vero cult movie. Se lo trovate in giro, non perdetelo.

POTREI ESSERE TUA MADRE MA CHISSENE

Della “rinascita” della romcom tradizionale avevo un po’ già detto quando ho parlato di Anyone But You. Con The Idea of You siamo più o meno da quelle parti. C’è sempre “You” di mezzo, insomma. Qui però è Anne Hathaway che ragiona su un ipotetico fidanzato che ha giusto quella ventina d’anni in meno rispetto a lei.

Il toy boy in questione è il gettonatissimo Nicholas Galitzine, un figo da paura che sa pure cantare, e infatti nel film fa parte di una boy band al decimo anno di attività, forse un po’ in stanca, sicuramente un po’ disilluso. Lei accompagna la figlia al Coachella dove incontra lui in una delle poche scene genuinamente divertenti del film (scambia la roulotte di lui per un cesso).

Lui rimane folgorato da lei (che manco a dirlo ha una galleria di arte contemporanea) e compra tutti i quadri e tutte le sculture per la sua casa di Londra. Segue bruciante passione ma lui è così giovane mio dio, ma lei è divorziata e in fondo cazzo gliene, ma gli amici di lui sono un po’ stronzetti e la umiliano, ma lei ha compiuto quarant’anni da poco e insomma, è superiore. Ma quando li beccano i paparazzi e l’amorazzo diventa pubblico, il rappoprto di lei con la figlia si incrina.

E allora, come dice la poetessa, le cose sono due: lacrime mie o lacrime tue. Gli innamorati si devono separare. Non preoccupatevi, c’è comunque il lieto fine, e il film è di quelli “fatti bene”. Per chi cerca “il messaggio” c’è anche una riflessione premasticata sul potere dei media, sul fandom tossico e sulla sessualità femminile dopo i 40.

E poi c’è il sixpack di Nicolas Galitzine. Su Prime Video.

I VAMPIRI DI SALEM’S LOT

Lo aspettavamo da anni, era uno dei più sfigati film del Covid, ora è arrivato. Salem’s Lot, il nuovo adattamento di Gary Dauberman (della factory di James Wan, già sceneggiatore di It 1 e 2) dal secondo romanzo di Stephen King è… diciamo che non fa cagare come si temeva. Non è bellissimo ma si fa guardare.

Difficile fare male con un materiale di partenza così figo (e con una miniserie televisiva di Tobe fucking Hooper alle spalle). Dauberman decide per l’approccio filologico e se la gioca sulla nostalgia per gli anni ’70, che è abbastanza inedita: la nostalgia di solito è riservata agli ’80 e ai ’90 in quanto unici decenni “felici” prima di piombare nel mondo di merda in cui viviamo da 24 anni.

Quindi: Barlow è modellato sull’omonimo vampiro di Tobe Hooper, l’ossatura della storia è quella del romanzo (salvo un climax finale che il regista decide di ambientare… in un Drive In!) però si ha comunque la sensazione che qualcuno abbia detto a Dauberman “taglia, figliolo, taglia” e che quindi alcuni snodi narrativi siano finiti sul pavimento della sala montaggio (vabbè è un modo di dire superato ma ci capiamo).

Come conseguenza tutto sembra un po’ buttato lì: la Marsten House (dove vive il vampiro Barlow) la cui backstory è centrale nel romanzo qui viene risolta in due minuti, tutti i personaggi sono un po’ tirati via ma… ci sono soluzioni visive interessanti e – come nel 1979 – la visione del piccolo Ralphie Glick vampirizzato che fa tap tap alla finestra dell’amico Mark Petrie fa rizzare i capelli sulla nuca. Come del resto un po’ tutte le scene che si svolgono in “quella” casa, o al cimitero, o all’obitorio.

Insomma, bene ma non benissimo. Ma lo salviamo per affetto.