WEAPONS E GLI ALTRI FILM DI SETTEMBRE

Whoa! Sono quasi quattro mesi pieni che non scrivo qui sopra. A volte mi domando se ha senso avere ancora un hosting, poi mi dico che è un vezzo che vorrei mantenere. Il ritmo con cui guardo film (e poi magari me li dimentico pure) è abbastanza sostenuto, e non ci sto dentro a continuare a scrivere un post per ogni visione. Credo quindi che tornerò alla formula di un post riassuntivo al mese magari con i link a Letterboxd, che è un profilo carino che sto cercando di far crescere. Facciamo così, scelgo il film migliore che ho visto nel mese e lo vediamo per esteso, gli altri li metto in coda solo con qualche riga poi voi cliccate sul titolo e leggete tutto su Letterboxd. Partiamo con Weapons! (Ah, ci sono anche film che ho visto ad agosto, in ordine sparso).

Weapons
★★★★½

Weapons di Zach Cregger è uno di quei film che restano addosso anche dopo i titoli di coda. Tutto parte da un evento inspiegabile: diciassette bambini di una stessa classe scompaiono nel cuore della notte, lasciando un unico superstite, Alex Lilly (Cary Christopher), e un’intera comunità che inizia a cedere sotto il peso del sospetto.

La struttura è la sua trovata più riuscita: la storia è divisa in capitoli che si riavvolgono e ripartono ogni volta dal punto di vista di un personaggio diverso, mostrando gli stessi eventi sotto nuove, inquietanti angolazioni. Ne nasce un racconto frammentato ma ipnotico, dove la verità sembra sempre a un passo — e poi sfugge di nuovo.

Cregger gioca con l’horror psicologico fino a farlo virare nel pieno territorio del soprannaturale. L’ultima parte, raccontata attraverso gli occhi del piccolo Alex, è un cambio di tono potente: improvvisamente il mistero assume contorni stregoneschi e il film si apre a una dimensione più cupa, quasi mitologica. E non dico altro, altrimenti entriamo in territorio spoiler.

Tra le interpretazioni spicca quella di Amy Madigan, perfetta nei panni della zia Gladys: una presenza quieta e perturbante, di quelle che ti restano in mente anche quando non è più in scena. Julia Garner e Josh Brolin tengono alta la tensione, ma è Madigan a dare al film la sua sfumatura più sinistra.

Weapons non è un horror per chi cerca risposte facili, ma uno di quei racconti che lasciano un’eco, un disagio sottile. Forse non chiarisce tutto, ma nel farlo diventa molto più interessante di molti film che ci provano.

Ballerina
★★½

Non serve essere fan sfegatati di John Wick per divertirsi con Ballerina. Il film di Len Wiseman fa esattamente quello che promette: due ore di violenza coreografata, luci al neon e gente che cade dai balconi come se non ci fosse un domani. E per una sera va bene così.

Bring Her Back
★★★★

Dopo Talk to Me, i fratelli Philippou hanno deciso di non replicarsi: con Bring Her Back restano nell’horror ma cambiano registro. Meno jump scare, più disagio puro. Un film che ti scava addosso invece di farti sobbalzare — e che conferma come i due registi amino spingere lo spettatore in un territorio emotivo instabile, dove non sai mai se provare pietà o terrore.

Dangerous Animals
★★½

Dangerous Animals non cambierà la storia del cinema, ma per un’ora e mezza di puro intrattenimento estivo funziona eccome. È un thriller marino sanguinoso e onesto, che mescola lo slasher più classico al “film di squali” con un gusto un po’ anni Novanta, tutto sudore, carne e morsi improvvisi.

Thunderbolts*
★★½

Lo ammetto: sono stanco dei film di supereroi – troppi scontri stravisti, troppa CGI, troppe saghe che sembrano girare su se stesse. Ecco perché Thunderbolts* mi ha colpito — non è perfetto, ma tenta qualcosa di diverso.

DEVO
★★★

Da fan che è cresciuto con i DEVO (e con la primissima era di MTV), posso dire che questo documentario funziona perché finalmente riporta al centro quello che per troppo tempo è stato frainteso: non erano solo i ragazzi delle tute da lavoro e dei caschetti rossi a torretta, ma un progetto radicale, estetico e politico.

The Phoenician Scheme
★★★

The Phoenician Scheme è quel tipo di film di Wes Anderson che ti martella di “wesandersonismi” già prima dei titoli di testa: simmetrie perfette, tavolozze pastello che diventano marroni eleganti, e oggetti che paiono reliquie (gli immancabili shoebox, il rosario riccamente cesellato).

Honey Don’t!
★★★★

Honey Don’t! di Ethan Coen è uno di quei film che non si fanno dimenticare facilmente. La detective privata Honey O’Donahue (Margaret Qualley) viene chiamata su un incidente stradale che sembra ordinario, ma che si rivela l’inizio di una catena di morti sospette legate alla chiesa del reverendo Drew Devlin (Chris Evans) e al suo carismatico culto.

Superman
★★★

In parole povere: ho smesso di esaltarmi per i film Marvel e DC 6 o 7 anni fa. Superman di James Gunn ho voluto vederlo solo perché mi piace la sua visione e in tempi non sospetti avevo apprezzato sia Guardians of the Galaxy che Suicide Squad.

Karate Kid: Legends
★★★

Definizione di guilty pleasure: qualcosa che non vorresti che qualcuno ti beccasse a fare, ma che ti fa godere molto. Come vedere l’ennesimo Karate Kid che sfrutta ogni possibile briciola di successo pregresso del francherà, Cobra Kai compreso e che tenta (peraltro con discreto successo) di cucire insieme daga originale e Cobra Kai con lo spin-off/remake con Jackie Chan (a proposito, che fine ha fatto Jaden Smith)?

The Life of Chuck
★★★

Mike Flanagan, esperto “traduttore” di Stephen King sul grande e piccolo schermo, si prende questo intrigante racconto contenuto nella raccolta If it bleeds e ne ricava un film sulla carta assurdo, alla prova del Toronto Film Festival del 2024 un successo strepitoso.

The Naked Gun
★★

Su questo remake di La pallottola spuntata (uno dei classici Zucker-Abrahams-Zucker) bisognerebbe spendere 4 parole: ce ne era bisogno? A quanto pare sì, dato che comunque Liam Neeson sembra nato per interpretare Frank Drebin Jr. (il figlio del detective Drebin di Leslie Nielsen). Sguardo vacuo, mani che gli porgono la proverbiale cup of coffee da ogni parte dello schermo, impermeabilità assoluta (e molto divertente) a tutte le gag fisiche e verbali di cui il film è ovviamente disseminato.

The Fantastic 4: First Steps
★★★

Che gli vuoi dire a un film del Fantastici 4 che si svolge in un universo parallelo dove sono effettivamente gli anni ’60 (ma quegli anni ’60 un po’ futuribili alla Jack Kirby e soprattutto un po’ Jetsons), in cui i 4 sono più una famiglia borbottona che non un supergruppo di supereroi e in cui arriva Galactus e ha la faccia da Galactus?

KPOP DEMON HUNTERS: IMPOSSIBILE RESISTERE

Buon ultimo, arrivo anche io a vedere il fenomeno dell’animazione 2025, K-Pop Demon Hunters, un film Sony Pictures Animation distribuito a livello mondiale da Netflix che al momento in cui è uscito (20 giugno) nessuno se lo sarebbe mai inculato, per usare un francesismo, e invece a partire dai primi di luglio è stato (e credo continui ad essere) uno dei film più visti dell’anno in assoluto sulla piattaforma.

Il motivo è molto semplice: Kpop Demon Hunters unisce tre cose che garantiscono un successo assicurato. Punto primo, un’animazione allo stato dell’arte, magari non a livello di Spider-Man o dei Mitchell (due altri successi Sony), ma creativa abbastanza per elevarsi sopra una produzione “media”, soprattutto nelle (molte) sequenze d’azione. Punto secondo, una storia semplice, universale, accessibile a tutti che però non è un sequel un prequel un midquel un legacy sequel un remake o simili. Punto terzo, le canzoni. Che sono in classifica in tutto il mondo e hanno soppiantato con le Huntr/x e i Saja Boys persino i BTS e le BlackPink (veri gruppi KPop).

La trama è presto detta, trio di cantanti/maghelle/guerriere (le Huntr/x) deve proteggere il mondo dai demoni che spingono per succhiare le anime degli umani creando uno scudo protettivo mentre sono in tour. Demone affascinante crea una boy band demoniaca (i Saja Boys) che ruba i fan alle Huntr/x. Rumi, la più problematica delle Huntr/x che nasconde un segreto, si innamora di Jinu, il ragazzo demone a capo dei Saja Boys.

Cosa potrà mai andare storto? Completano il quadro una coppia di animali demoniaci a coprire la quota “spalle comiche”, un manager che oscilla tra i due gruppi musicali, un medico ciarlatano doppiato da Ken Jeong.

Io l’ho visto due volte in italiano per cause di forza maggiore, ma in originale, come al solito, è meglio. In entrambi i casi, alla fine della visione, per settimane intere ti ritrovi a canticchiare i singoli di successo estratti dal film, come Golden, Takedown, SodaPop o How It’s Done. Impossibile resistergli.

GENITORI PROGRESSISTI AL BIVIO: UNICORNI

Unicorni di Michela Andreozzi sta in pochissime sale ma vale la pena cercarlo. È una commedia dolce, equilibrata, ottimamente interpretata, talvolta un po’ didascalica ma ci sta, perché il pubblico italiano su questi temi – che i battibecchi ideologizzati tendono ad inquinare tantissimo – ha anche bisogno di essere “educato” (mi riferisco alle scene/spiegone ambientate nel cerchio di terapia per “genitori unicorni”). 

La storia è quella di una famiglia allargata e progressista che viene messa in crisi da un bambino di 9 anni e mezzo, Blu (Daniele Scardini, bravissimo nel suo ruolo) che presenta una evidente varianza di genere: vuole vestirsi sempre “da femmina” e alla recita scolastica vuole fare la Sirenetta. 

Mi ha toccato profondamente, come è inevitabile, la figura di Lucio (Edoardo Pesce): papà progressista e femminista, odia il calcio, pratica yoga, definito woke dal collega, in una parola il mio ritratto (non fosse che lui abita in un appartamento meraviglioso a Roma e io no). Lucio fa il conduttore radiofonico e riesce a smontare ai microfoni del suo programma soggetti agghiaccianti come artisti del rimorchio e fanatici pro vita e famiglia. Quando però capisce che il figlio Blu non ama solo vestirsi da femmina “ogni tanto” ma ha una sua identità di genere non conforme alle aspettative sociali, va in crisi

Nell’ansia di proteggere, tenta di forzare un cambiamento nel bambino che riesce solo a far stare male tutta la famiglia. Il conflitto interiore di Lucio è molto ben rappresentato, così come la divergenza di idee con la moglie Elena (Valentina Lodovini) che non solo ha capito il figlio ma lo ha accettato. In questo senso Unicorni è anche un ottimo studio sul maschile contemporaneo e sui problemi della genitorialità. 

Quando Lucio ed Elena iniziano a frequentare il gruppo “Genitori Unicorni” – un cerchio di confronto guidato da una psicologa specializzata in varianza di genere interpretata dalla stessa regista – il respiro si allarga e la storia da familiare diventa collettiva, grazie anche a ragazzi e genitori membri attivi dell’associazione Genderlens, che ha partecipato alla produzione del film.

Inutile dire che ho pianto tantissimo. Ma Unicorni è anche un film molto divertente, fidati. Ed è abbastanza sorprendente nel panorama italiano veder trattato questo tema in modo così equilibrato.