DÌDI: DIVENTARE GRANDI NEGLI ANNI ZERO

Meritato vincitore al Sundance 2024, Dìdi (taiwanese per “fratello minore”) è l’opera prima fortemente autobiografica di Sean Wang. Il protagonista è Chris Wang (Izaak Wang, non parente) che vive con la madre Chungsing (Joan Chen, bravissima in una sorta di reboot della sua carriera) la nonna e la sorella Vivian (Shirley Chen, non parente) con la quale litiga furiosamente.

Il fatto è che Chris ha 13 anni (e già questo è un bel problema) e sta passando dall’infanzia all’età adulta nella California del 2008, in cui gli adolescenti stanno passando da MySpace a Facebook, caricano video stupidi su uno YouTube nato da poco e chattano su AOL. Dìdi in effetti è il film perfetto per descrivere la origin story di qualsiasi adolescente alle prese con i social

Ha molto di Eight Grade di Bo Burnham (un altro caposaldo del coming of age in salsa Sundance, che però aveva una protagonista femminile) e moltissimo anche di Mid 90s, l’esordio registico di Jonah Hill che qui è visivamente citato anche nella scena in cui Chris e i suoi amici guardano Superbad (nel DVD noleggiato da Blockbuster, ovviamente). 

Chris ha degli amici improbabili con cui fa quelle cose improbabili tipiche dei 13 anni di tutti i maschi (tirarsi addosso scoiattoli morti, pisciare nella crema corpo della sorella, far esplodere le cassette delle posta dei vicini). Non sa quale sia la sua identità, si nasconde negli hoodies informi della sorella e quando la sua crush (che lui astutamente approccia facendo finta di condividere i suoi gusti in fatto di film e musica presi da MySpace) tenta un approccio sessuale lui la rifiuta in preda all’ansia e all’imbarazzo.

Anche perché lei gli dice “sei carino per essere un asiatico“, la classica frase da razzista benevolo che rimane appiccicata addosso a Chris per tutto il film, tanto che quando incontrerà dei ragazzi più grandi dediti allo skateboard, per i quali diventa “il filmmaker” dei loro trick, dichiarerà di essere solo “mezzo asiatico”. Ma mentre Chris beve e fuma alle feste per sentirsi grande, si aliena i suoi amici di un tempo e blocca su AOL anche la ragazza dei suoi sogni, troppo imbarazzato per parlare con lei dei suoi sentimenti. Nel frattempo, il rapporto con la sorella migliora e Chris si rende anche conto che la madre è una donna dalla personalità complessa, e i due imparano a rispettarsi e crescere insieme. Non è un film con un lieto fine, ma non è nemmeno uno di quei film dove tutto va male. 

Chris, come tanti maschi adolescenti, è semplicemente nascosto dietro un’impenetrabile corazza che lo protegge dalla sgradevolezza degli altri ma che purtroppo impedisce alle sue emozioni di uscire correttamente. In questo senso Izaak Wang interpreta il protagonista in modo magistrale, e infatti anche lui ha vinto i suoi meritati premi. Speriamo di vederlo ancora. 

La cosa più bella per me è la pazienza certosina con cui il regista e il suo team hanno ricreato l’Internet del 2008, con i salvaschermi a tubo, la finestra di Windows XP, le schermate dy MySpace e del primo Facebook, gli acronimi e le sgrammaticature delle chat di allora… Insomma, è tempo di nostalgia anni ’00!

ANORA, TRE ATTI D’AMORE

Meritatissima Palma d’Oro a Cannes, Anora è la consacrazione di Sean Baker come regista e il lancio verso l’olimpo delle stelle di domani per Mikey Madison. Dovevamo aspettarcelo da uno che è partito con un film sullə sex worker trans di Los Angeles girato con un iPhone (Tangerine). Con Anora, Sean Baker prende una storia che potrebbe essere un Tarantino d’annata, la spoglia dell’ultraviolenza e punta i riflettori sull’interiorità dei personaggi.

Anora detta Ani (Mikey Madison) è una stripper di NYC che un bel giorno incontra nel suo club Ivan detto Vanya (Mark Eydelshteyn), figlio di un oligarca russo, ben disposto a spendere e molto portato al divertimento. Ani ha 23 anni, Vanya dice di averne 21 ma ne dimostra 15: l’attrazione è reciproca, e il confine tra la transazione economica e il piacere di stare insieme sfuma via via. Vanya paga 15.000 dollari per stare una settimana intera con Ani come “fidanzata”: i due si dedicano a sesso, party, droga, clubbing e ancora sesso, finché durante un weekend a Las Vegas, decidono di sposarsi. Per lei la cosa è seria, per lui forse un modo come un altro far incazzare i suoi.

Fin qui il primo atto, una sorta di Pretty Woman un po’ più hard, girato e montato da dio con due protagonisti in stato di grazia e una frenetica rappresentazione delle notti newyorchesi. Il secondo atto, è un’altra faccenda. La famiglia di Vanya prevedibilmente si incazza, manda gli sgherri armeni a bloccare la coppia nella loro casa di Brighton Beach (un quartiere a forte immigrazione russa vicino a Coney Island) e Vanya scappa. Ani si trova sola con due improbabili gangster e il loro capo, che vorrebbe essere da tutt’altra parte, determinati nell’obiettivo di ritrovare Vanya e far annullare il matrimonio da un giudice.

Il secondo atto è un concentrato di screwball, slapstick e gag fisiche concentrate in un interminabile viaggio alla ricerca del fuggitivo, in cui Ani progressivamente capisce in che casino si è andata a infilare e in cui – sorprendentemente – uno dei gangster sembra provare qualcosa per lei: qualcosa che forse è… rispetto? Quando Vanya finalmente si trova, completamente bruciato da alcol e droghe, entrano in scena anche i genitori di lui.

Il terzo atto è quello risolutivo: ma non va racontato. Ani capisce molte cose sulla vita, Vanya probabilmente no, e un diverso tipo di relazione sembra sbocciare. Il tutto per la durata di quasi due ore e mezza in cui si resta senza fiato e si rimane quasi sempre sul bordo della poltrona. Ovviamente va visto in lingua originale. Capolavoro.

HERETIC: HUGH GRANT E L’ELEVATED HORROR

Vedere Hugh Grant che fa le sue solite faccette ma in un contesto totalmente diverso dalla solita svagata romcom inglese è dirompente: lo ami, ma allo stesso tempo ne sei terrorizzato. Probabilmente è così che si sentono anche sister Paxton e sister Barnes, le due missionarie mormoni che entrano incautamente in casa sua in Heretic, l’ultimo horror A24 che amerete odiare.

Heretic è uno di quei film che monta la tensione a fuoco lento. Incontriamo le due missionarie mentre parlano maldestramente di pornografia nella prima sequenza. Quando decidono di andare a trovare Mr. Reed (Hugh Grant in versione super azzimata e occhialuta) per “convertirlo” si imbarcano con lui in (credo) un’ora buona di dialogo sui massimi sistemi, sulla fede e sulla preghiera, sulle religioni e sulle crostate al mirtillo.

I segnali di inquietudine abbondano, e a una certa se ne accorgono anche le due ragazze, ma purtroppo a quel punto è tardi. La signora Reed, una presenza fino a quel momento solo evocata, evidentemente non esiste e il loro ospite si lancia in monologhi via via più diabolici: le due sono intrappolate, e lui propone loro di uscire di casa dal retro usando una delle due porte del suo studio: su una scrive BELIEF e sull’altra DISBELIEF.

Ma niente paura: entrambe le porte conducono in un malsano sotterraneo dove c’è una figura incappucciata (la moglie?) che apparentemente muore per poi risorgere dopo poco e raccontare l’aldilà alle due malcapitate. Segue un terzo atto particolarmente splatter che non sto qui a rovinarvi in cui qualcuno incontra un fatale destino e qualcun altro sopravvive.

A me è piaciuto (ma a me piacciono gli elevated horror), direi che si merita la definizione di “classico moderno”, ma credo sia soprattutto per merito delle faccette di Hugh Grant. Poi oh, anche la fotografia con angoli impossibili fa il suo (stesso DP coreano di OldBoy e The Handmaiden).