Mi fanno ridere quelli che criticano Fahrenheit 9/11 dicendo che è un film sciatto e mal realizzato, o peggio ancora che è "di parte". Intanto vorrei vedere che non fosse di parte, altrimenti un film così non avrebbe senso di esistere. Per quanto riguarda lo stile, mi pare ovvio che Moore non è un diplomato in una scuola di cinema: è uno che sa come manipolare le immagini, capisce il valore del montaggio e usa queste sue capacità per fare (contro)informazione. Si capisce lontano un miglio che fare un film per lui non è un fine in sé, ma semplicemente un mezzo (tra i tanti a sua disposizione) per comunicare. Mette piuttosto tristezza che per venire a conoscenza di certi fatti in modo chiaro bisogna pagare il biglietto del cinema, mentre la televisione, mezzo che dovrebbe essere deputato a questo tipo di informazione, trasmette l’ennesimo reality show. Forse Fahrenheit 9/11 è meno lucido del precedente Bowling for Columbine. Sicuramente è più partecipe e più rabbioso. Sconfina in certi punti nella TV del dolore, eppure nel contesto del film probabilmente alcune scene (superflue e deprecabili in un programma televisivo) si rendono necessarie. Il cinema era strapieno – vivaddio. Fa strano vedere gli incassi di Moore sapendo per certo che un film del genere, in Italia, non lo avrebbe prodotto, distribuito e promosso nessuno. Ma in fondo, forse, le gesta del Bush nostrano non valgono un film di denuncia civile. Berlusconi è rappresentato fin troppo bene dalla più insulsa e natalizia produzione cinematografica italiana.
RASSEGNA CINEMATOGRAFICA DELL’ESTATE
Alcune impressioni sparse sui film che ho visto in questi giorni: agosto è l’unico mese in cui riesco a portarmi avanti e a recuperare tutto il non visto della scorsa stagione, dato che al cinema aspettano la fine del mese per le grandi novità (nonostante continuino a strombazzare l’uscita di grandi film estivi – mah!). Comincio con Igby Goes Down, una commedia nera che mi ha colpito molto. C’è Kieran Culkin, il che mi riporta a The Dangerous Lives of Altar Boys (un film assolutamente da recuperare): anche Igby è sulla stessa lunghezza d’onda. Si ride amaro, come nel miglior cinema americano indipendente (da Hal Ashby a Todd Solondz). Igby ha la madre impasticcata, il padre internato, il fratello neofascista e una serie di ragazze improbabili che gli ronzano intorno. Imperdibile. Poi, The Dreamers. Fa parte di quella schiera di film che quando li vedi sullo scaffale del locale Blockbuster pensi "Naaa…" – invece devo dire, contrariamente alle aspettative, che l’ho gradito parecchio. Fastidioso, ovviamente. Non tanto per la morbosità e l’insistenza su sangue, sperma, mestruo o sul tema dell’incesto (peraltro trattato in maniera abbastanza leggera). Fastidioso per il ritratto dei gemelli borghesi che hanno l’hobby di Mao e non si accorgono delle barricate. Tutto sommato un film solo per cinefili – forse una sega mentale di Bertolucci, non so… io comunque l’ho visto con piacere. Mona Lisa Smile… sorvolerei, se non fosse che Mike Newell si appresta a dirigere il prossimo Harry Potter…! A parte l’aria da "attimo fuggente" che pervade il film e che ti fa pensare "ora qualcuno si suicida" non è nemmeno da buttar via. Fastidiosissima Kirsten Dunst, geniali Marcia Gay Harden e Maggie Gyllenhaal, ancora troppo poco sfruttata. Fratelli per la pelle: c’è poco da dire. Classica serata estiva con i fratelli Farrelly. O li si amava o li si odiava. Peccato che abbiano perso mordente dai tempi di Scemo e più scemo – adesso si può anche rimanere indifferenti. Però la presenza di Cher, il mito assoluto del mio personale pantheon del kitsch innalza la pellicola di una buona spanna. Per ripigliarsi: Zatoichi, di e con Takeshi Kitano… Girato in digitale, con spruzzi di sangue ripresi a velocità esagerata e Beat Takeshi che fa il verso a sé stesso nei panni del samurai cieco (in versione biondo platino). A tratti ricorda Von Trier (i rumori del lavoro che si fanno ritmo e musica) a tratti Nanni Moretti (il finale geniale virato in musical): non sarà un balletto sul pasticciere trotzkista di Aprile, ma è comunque la parte migliore del film. Per concludere, C’era una volta in Messico. Debordante (ma dovevo aspettarmelo), coloratissimo, montato come sempre da dio da quel marpione di Rodriguez – uno di quei registi che può fare anche una enorme stronzata, tanto a me piace lo stesso. Qui Traffic incontra Spy Kids e Rodriguez supera ogni limite dando a Johnny Depp uno dei ruoli più stupidi e al tempo stesso più geniali di tutta la sua carriera. Poi, come al solito, Sergio Leone, Quentin Tarantino e primi piani di Danny Trejo a palla: un valido motivo per vedere (o non vedere) il film.
BILLY CORGAN STA IN UN FILM HORROR (PERO’ SUONA)
Nei banchetti di DVD in offertissima ho ripescato Stigmata, un piccolo classico di fine anni ’90 che mi aveva parecchio incuriosito al tempo dell’uscita. Non è propriamente un horror, ma la formula (cfr. post precedente) si applica alla grande… Poche parole: stigmate, ossessioni religiose, complotti vaticani, vangeli apocrifi, eresie, musiche di Billy Corgan, montaggio acidissimo, pellicola sviluppata a metà con risultati fotografici inquietanti, Patricia Arquette che sanguina dalle ferite mistiche, stile Esorcista ma senza il demonio. A parte tutto, c’è un bel documentario (anche se sembra inverosimile che si siano preparati per cinque anni a studiare Padre Pio prima di fare il film) e un finale alternativo decisamente più efficace di quello uscito al cinema. Un film originale, anche se abbastanza legato all’estetica nu-metal / grunge…