Bene bene… Non si può volere l’uovo (andare al festival) e la gallina (completare gli articoli in pendenza) quando il giorno dopo c’è il grande SGURZ delle riprese del nuovo corto Bamboo. Perciò ho deciso di andare ieri sera a vedere The Grudge, il film americano di Takashi Shimizu. Due parole introduttive: non è una novità che in qualsiasi Blockbuster si trovano Ju On: The Grudge 1 e 2 (per la regia sempre di Shimizu) con Megumi Okina. Perciò la storia è abbastanza nota. Il produttore americano (Sam Raimi) ha però dato a Shimizu l’opportunità di rifare daccapo il primo film con Sarah Michelle Gellar come protagonista, un cast artistico all-american e un cast tecnico tutto giapponese (il film si svolge comunque a Tokyo, con l’escamotage della studentessa americana in trasferta). E’ curioso questo ritornare sui propri passi, una cosa successa ad esempio a Ole Borendal (danese) e al suo Nightwatch, rifatto in USA con Ewan McGregor. Come un artista che fa una versione elettrica e una unplugged dello stesso brano (quella elettrica è sempre quella americana, ovviamente). A differenza di Ring, che era stato rifatto da un autoctono (Gore Verbinski), The Grudge mantiene alta la bandiera della suspence di stampo orientale. E strappa diversi sussulti, devo dire. Quando si narra di fantasmi e case maledette è difficile non cadere nei luoghi comuni, che comunque Shimizu sfrutta a suo vantaggio senza calcare la mano sull’ovvio. Questi fantasmi giapponesi hanno sempre la tendenza ad essere sanguinari e vendicativi, a camminare in modo strano e ad emettere suoni gorgoglianti. Chissà perché. Comunque quando sono arrivato al cinema era pieno di gente in coda e quando siamo entrati l’eccitazione era palpabile. Mi chiedevo sinceramente perché, poi ho capito. Sarah Michelle Gellar – appena arrivata a Torino – presentava la proiezione. Peccato non aver avuto la fotocamera! Comunque è arrivata tra urla ed applausi, ha detto "Grazzi-hey tawn-toh" e "Hope you like the movie", poi se n’è andata seguita da giornalisti e fotografi con dietro la fedele Giulia D’Agnolo Vallan che io odio (simpaticamente) sempre di più perché è amica di tutti i registi che preferisco, dà del tu a tutti e ci va a pranzo insieme.
ULTRAVIOLENZA E RITORNO AI ‘70
Altra chicca del TFF, su un genere completamente diverso, è The Toolbox Murders di Tobe Hooper. Si tratta di un ritorno in grandissimo stile, sia per Tobe Hooper (non è che gli ultimi exploit fossero poi così interessanti) sia per l’horror in genere. Nei ’90 abbiamo avuto il boom del teen-horror, dell’horror ironico-citazionistico e dello stile Buffy. Recentemente abbiamo avuto il segno di un ritorno (aggiornato) alle origini con i remake di un paio di capolavori del passato (Romero e lo stesso Hooper). Tanto basta: il mitico Tobe è tornato alla carica con una violenza che nemmeno nei fulgidi ’70…! The Toolbox Murders, come si evince dal titolo, parla di una serie di omicidi compiuti con armi improprie (martelli, seghe, cacciaviti, tronchesine, sparachiodi, tenaglie, etc). In sala quasi tutti sussultavano e qualcuno lanciava anche degli urletti (si parla di scafatissimi spettatori da festival). Gli omicidi sono violentissimi e sanguinosissimi, senza strizzate d’occhio, ironie o battute facili. La trama è intrigante quanto basta (architettura e magia nera, come Suspiria e Inferno – un palazzo fatiscente dove in sostanza è meglio non abitare…), l’inquietante assassino si vede il meno possibile e la regia di Hooper… beh, riesce a creare un clima di tensione assoluta fin dalle prime inquadrature, giocando con gli stereotipi del genere in modo magistrale, non per far sorridere, ma solo per terrorizzare meglio. Ovviamente si prepara un sequel dato che, come nella maggior parte degli horror, il "mostro" non è mai morto del tutto… Incubi assicurati. Il resto della serata di ieri, dopo un misero pasto freddo (finocchi e uova sode) consumato seduto su un marciapiede al freddo, lo potete leggere nel post di Marco sul blog Bamboo… 😉
PRIMA DEL TRAMONTO (E NON E’ FINITA)
Ho fatto un po’ di recupero straordinario all’ora di pranzo per andare a vedere Before Sunset (Prima del tramonto) al TFF. Devo dire che partivo un po’ prevenuto. Before Sunrise (Prima dell’alba), il precedente film di Richard Linklater del 1994 con gli stessi personaggi ora invecchiati – Ethan Hawke e Julie Delpy che si passano la notte in giro per Vienna a parlare di tutto e di più. Mi spiego: all’epoca il film fu per me una vera rivelazione. Rivisto un anno o due fa l’avevo trovato invece estremamente fastidioso, un po’ retorico e forzato, in definitiva non mi toccava più come mi aveva toccato nel 1994. Per forza! Before Sunrise è un film che va visto a vent’anni, così come Before Sunset (mai titolo fu più azzeccato) parla al cuore dei trentenni con grande lucidità e precisione. Con grande amarezza anche, e devo dire che in un paio di occasioni l’occhio si fa lucido. I due protagonisti si reincontrano (stavolta a Parigi) dieci anni dopo. Non si sono mai rivisti, nonostante la promessa di incontrarsi a Vienna dopo 6 mesi dal loro addio, e lui ha scritto un libro sull’esperienza. Mentre lo presenta, arriva lei. E parte una serie infinita di carrellate a precedere e a seguire, in cui ci sono semplicemente loro, sempre loro, che parlano, parlano, parlano sempre. All’inizio impacciati, poi complici, poi devastati dall’autoanalisi e poi ricomposti in un intrigante finale aperto. Linklater ha deciso di fare di questa storia un piccolo work in progress, dato che, anche alla fine dei titoli di coda, appare la scritta "questi titoli non sono quelli definitivi"… Aspettiamoci Before Midnight nel 2014, insomma!