Al di là del titolo italiano pessimo (Se mi lasci ti cancello), The Eternal Sunshine of the Spotless Mind secondo me è la commedia sentimentale più riuscita degli ultimi anni. Lo so che poi mi danno dello snob – la gente all’uscita dal cinema ha due reazioni (1: miiii che cazzata; 2: non ho capito nulla) – ma io l’ho trovato geniale. Bisogna essere attentissimi perché per 3/4 il film si svolge dentro la testa del protagonista, con logiche di sogno, allucinazione e compresenza di elementi scenici impossibili. Ma è affascinante sul serio. Il film aveva già un indubbio appeal per me perché i protagonisti sono Jim Carrey e Kate Winslet (due tra gli attori che preferisco al mondo) e perché il film è scritto da Charlie Kaufman (uno che di interni di cervelli se ne intende dato che ha scritto Being John Malkovich e Adaptation) e diretto da Michel Gondry, uno che si è fatto le ossa lavorando con Bjork – tanto per fare un esempio. Quindi non c’era storia… Il film è girato in digitale, montato in modo ardito e recitato in modo superlativo soprattutto da Jim Carrey, in un ruolo tutto sommato inedito per lui. Smorfie limitate al minimo e parti drammatiche assolutamente credibili. Mettiamoci anche Kirsten Dunst, Elijah Wood e Mark Ruffalo di contorno che non guastano per niente… Un vortice di ricordi d’amore cancellati via via e un finale che esprime veramente, secondo me, il senso di una relazione di coppia (ma non voglio rovinare la sorpresa raccontandolo). Dico solo che la battuta finale del film "Okay" detta da Jim Carrey e ripetuta da Kate Winslet per me ha un senso simile allo "Yes…" finale di Molly Bloom nell’Ulysses di Joyce. E con questo abbiamo sparato tutte le cartucce culturali della settimana…!
IL RANCORE DI SARAH MICHELLE GELLAR
Bene bene… Non si può volere l’uovo (andare al festival) e la gallina (completare gli articoli in pendenza) quando il giorno dopo c’è il grande SGURZ delle riprese del nuovo corto Bamboo. Perciò ho deciso di andare ieri sera a vedere The Grudge, il film americano di Takashi Shimizu. Due parole introduttive: non è una novità che in qualsiasi Blockbuster si trovano Ju On: The Grudge 1 e 2 (per la regia sempre di Shimizu) con Megumi Okina. Perciò la storia è abbastanza nota. Il produttore americano (Sam Raimi) ha però dato a Shimizu l’opportunità di rifare daccapo il primo film con Sarah Michelle Gellar come protagonista, un cast artistico all-american e un cast tecnico tutto giapponese (il film si svolge comunque a Tokyo, con l’escamotage della studentessa americana in trasferta). E’ curioso questo ritornare sui propri passi, una cosa successa ad esempio a Ole Borendal (danese) e al suo Nightwatch, rifatto in USA con Ewan McGregor. Come un artista che fa una versione elettrica e una unplugged dello stesso brano (quella elettrica è sempre quella americana, ovviamente). A differenza di Ring, che era stato rifatto da un autoctono (Gore Verbinski), The Grudge mantiene alta la bandiera della suspence di stampo orientale. E strappa diversi sussulti, devo dire. Quando si narra di fantasmi e case maledette è difficile non cadere nei luoghi comuni, che comunque Shimizu sfrutta a suo vantaggio senza calcare la mano sull’ovvio. Questi fantasmi giapponesi hanno sempre la tendenza ad essere sanguinari e vendicativi, a camminare in modo strano e ad emettere suoni gorgoglianti. Chissà perché. Comunque quando sono arrivato al cinema era pieno di gente in coda e quando siamo entrati l’eccitazione era palpabile. Mi chiedevo sinceramente perché, poi ho capito. Sarah Michelle Gellar – appena arrivata a Torino – presentava la proiezione. Peccato non aver avuto la fotocamera! Comunque è arrivata tra urla ed applausi, ha detto "Grazzi-hey tawn-toh" e "Hope you like the movie", poi se n’è andata seguita da giornalisti e fotografi con dietro la fedele Giulia D’Agnolo Vallan che io odio (simpaticamente) sempre di più perché è amica di tutti i registi che preferisco, dà del tu a tutti e ci va a pranzo insieme.
ULTRAVIOLENZA E RITORNO AI ‘70
Altra chicca del TFF, su un genere completamente diverso, è The Toolbox Murders di Tobe Hooper. Si tratta di un ritorno in grandissimo stile, sia per Tobe Hooper (non è che gli ultimi exploit fossero poi così interessanti) sia per l’horror in genere. Nei ’90 abbiamo avuto il boom del teen-horror, dell’horror ironico-citazionistico e dello stile Buffy. Recentemente abbiamo avuto il segno di un ritorno (aggiornato) alle origini con i remake di un paio di capolavori del passato (Romero e lo stesso Hooper). Tanto basta: il mitico Tobe è tornato alla carica con una violenza che nemmeno nei fulgidi ’70…! The Toolbox Murders, come si evince dal titolo, parla di una serie di omicidi compiuti con armi improprie (martelli, seghe, cacciaviti, tronchesine, sparachiodi, tenaglie, etc). In sala quasi tutti sussultavano e qualcuno lanciava anche degli urletti (si parla di scafatissimi spettatori da festival). Gli omicidi sono violentissimi e sanguinosissimi, senza strizzate d’occhio, ironie o battute facili. La trama è intrigante quanto basta (architettura e magia nera, come Suspiria e Inferno – un palazzo fatiscente dove in sostanza è meglio non abitare…), l’inquietante assassino si vede il meno possibile e la regia di Hooper… beh, riesce a creare un clima di tensione assoluta fin dalle prime inquadrature, giocando con gli stereotipi del genere in modo magistrale, non per far sorridere, ma solo per terrorizzare meglio. Ovviamente si prepara un sequel dato che, come nella maggior parte degli horror, il "mostro" non è mai morto del tutto… Incubi assicurati. Il resto della serata di ieri, dopo un misero pasto freddo (finocchi e uova sode) consumato seduto su un marciapiede al freddo, lo potete leggere nel post di Marco sul blog Bamboo… 😉