COSA GUARDARE… COME VIVERE… E’ LA STESSA COSA

Quest’estate, mi sa, sarà ricordata come quella in cui è morto il grande cinema. Anche Antonioni se n’è andato, nello stesso giorno di Bergman. E come tutte le volte che manca un autore sui cui testi filmici ho riflettuto a lungo, ci rimango un po’ così… Come se qualcuno mi avesse portato via un pezzo di passato. Oggi come oggi dove sono le possibilità di vedere un film come Il deserto rosso, L’avventura, Blow Up (per citare solo i miei tre film preferiti)? Non ci sono, e anche se ci fossero non avrei più la forza, il coraggio o la costanza di guardarli. Antonioni non è mai stato un grande sceneggiatore, ma un pittore dell’inquadratura quello sì. Antonioni è arte contemporanea al cinema. Quella che non capisci, quella che ti turba, a volte persino quella che dici "ma sì la sapevo fare anche io un’inquadratura così". Eppure no. Non ha mai smesso di sperimentare, nemmeno in vecchiaia, nemmeno nella malattia. E anche se le sue ultime prove non mi hanno mai convinto più di tanto, resto in sintonia con la sua ricerca degli anni ’60 e ’70 e riguardo periodicamente i suoi film per trovare qualcosa di ineffabile, perché – parole sue – "noi sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà, e sotto quest’altra un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima, fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta, misteriosa che nessuno vedrà mai, o forse fino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà".

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PERFETTO, NELLA SUA ASSOLUTA E SQUISITA IMPERFEZIONE…

La notizia della morte di Ingmar Bergman mi ha colpito improvvisamente. Mi ha fatto sussultare. Bergman è (era) un punto fermo nella mia vita, nella mia formazione. Bergman era semplicemente lì, come un misterioso e antico luogo da visitare, in cui perdersi. Un labirinto all’interno del quale ho viaggiato per anni, uscendone a tratti per poi rientrarci. Nei miei primi dieci anni di vita ho visto più volte Il settimo sigillo, forse il suo film più noto al grande pubblico. La storia del cavaliere che gioca a scacchi con la morte, oltre ad essere visivamente splendida e ricca di battute folgoranti (come quella che dà il titolo al post, originariamente riferita all’amore), mi ha insegnato il valore del dubbio e l’infelicità che accompagna qualunque ricerca della verità. Nella mia adolescenza preferivo cullarmi nelle visioni più terrificanti evocate da Bergman in L’ora del lupo, affascinato soprattutto dalla maestria nel mettere in scena i (propri) demoni interiori. Adesso posso dire che il film che risuona più intensamente dentro di me, e che rivedo più volentieri, è Persona. La parola e il silenzio che si confondono, le pulsioni più oscure, la "sanità" e la "follia", tutto si risolve in una fusione di volti in primo piano. La mia ammirazione alla vita e all’opera di un uomo che ha scritto, nella sua autobiografia, "io vivo sempre nel mio sogno: di tanto in tanto, faccio una piccola visita alla realtà".

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MASCELLE, TETTE E INCANTESIMI D’AMORE

Metto le mani avanti: Harry Potter e l’Ordine della Fenice è il miglior film della serie finora prodotto. Riporto le mani dietro la schiena, le intreccio e scuoto la testa: certo che il libro è molto meglio. Qualunquismo critico che colpisce tutti i fan, senza scampo. Però è vero: il film impressiona positivamente anche i lettori più avidi e disincantati (disseminando piccole strizzatine d’occhio poco comprensibili ai più) e – dai commenti sentiti all’uscita dalla sala – spinge anche i più refrattari al pio proposito di leggere i libri. Forse perché, per una volta, l’accetta degli sceneggiatori ha segato via quello che poteva/doveva senza compromettere la comprensibilità di parte della storia (come avveniva pesantemente nel Calice di Fuoco). Noi fan della carta stampata abbiamo rinunciato da tempo alle sottigliezze psicologiche e alle analisi dei sentimenti e dei moti del cuore che rendono le ore di lettura così gioiose (tanto ci rifaremo il 21 con HP & the Deathly Hallows). I potter-film sono fatti pressoché totalmente di azione e – come è giusto che sia – tutto è reso visivamente. Le storie in incubazione tra Ron e Hermione e tra Harry e Ginny? Semplice: sono affidate ad un buon gioco di sguardi e all’intuizione corretta di rendere Cho Chang la traditrice dell’Esercito di Silente (motivo sufficiente a Harry per snobbarla dopo averla slinguata sotto un vischio che si gonfiava in modo preoccupante). La battaglia finale al Dipartimento dei Misteri? Supercompressa, senza cervelli semoventi e tentacoluti e senza simultaneità d’azione. D’altra parte, grandi intuizioni visive e ottima resa della stanza del velo. Ogni scena ha i suoi pro e i suoi contro, ma per la prima volta, forse, non si è tanto interessati al confronto e ci si lascia trasportare dal film. In più punti sembra di trovarsi in Star Wars (vedi duello finale Voldemort/Silente): togliendo l’approfondimento psicologico da Harry Potter si resta con in mano la struttura di un archetipo, che è esattamente lo stesso di Star Wars (solo che Lucas, l’approfondimento, non ha mai nemmeno lontanamente pensato di aggiungerlo). Scenografia ed effetti speciali come sempre da Oscar, simpatiche trovate, ottime interpretazioni (su tutte le nuove arrivate Luna Lovegood, Bellatrix Lestrange e Dolores Umbridge, molto convincenti) e battute da urlo (Mrs. Weasley ai gemelli: "Solo perché siete maggiorenni non è il caso che tiriate fuori la bacchetta in continuazione" – o qualcosa del genere, potrei ricordare male). Punto debole: l’accenno troppo veloce alla memoria di Piton da giovane (quello sì che andava approfondito). Peraltro il film scorre felicemente fino all’inevitabile (ma ancora per poco) lieto fine tra un mascellone fuori misura (quello di Harry), un paio di tette sotto misura (quelle di Hermione, simpaticamente "gonfiate" in un poster ritoccato e poi tolto dalla circolazione) e qualche incanto Patronus di troppo (quest’ultima frase solo per giustificare il titolo del post, sapete com’è)…

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