LA SICUREZZA DEGLI OGGETTI

In questi tempi di crisi, cosa resta per darci sicurezza?
Siamo onesti, poche cose. Quando c’è un forte bisogno di sicurezza ci si rifugia nel passato. Vecchi film e vecchi dischi (un bel Cary Grant o un nostalgico Dylan non si negano a nessuno). Vecchie abitudini, vecchi premier.

Io non amo indugiare troppo nel passato. Non amo nemmeno pensare al futuro, anticipare le tendenze o simili. La mia ambizione sarebbe di riuscire a vivere nel presente, ma il presente spesso è una merda.

Allora trovo la mia sicurezza negli oggetti.

Gli oggetti sono lì, non si muovono. E questo è già un notevole pregio. Comunicano interi universi di senso senza parlare. A volte mi fanno i dispetti, non si fanno trovare, mi sfuggono di mano, mi provocano. Ma di base posso contare sulla loro complicità.

Ci sono oggetti che danno più sicurezza di altri. Uno è il cuscino. Più della coperta, è chiaro. La coperta nasconde, il cuscino no. Nascondersi è male: bisogna esporsi, ma con comodità. Il cuscino può aiutare. Io soffro il fatto di non poter avere un cuscino con me anche durante il giorno. Per questo la notte ne ho tre. Uno enorme e super morbido, uno piumoso piccolino e uno mediamente gommoso con curvatura cervicale.

Mi danno sicurezza anche le matite color giallo e nero, i misuratori di pressione portatili, le palline gommose che rimbalzano – in effetti, tutti gli oggetti che rimbalzano mi fanno un gran ridere. Poi anche i ghiaccioli ai gusti anice o tamarindo, i fiori finti, le giacche da camera scozzesi, i coltelli a serramanico, i bagni degli autogrill se hanno delle scritte sulle pareti.

E prima di dormire affidandomi ancora una volta al mio pillow park, c’è ancora una cosa che mi dà tanta, tanta sicurezza. La pagina della Settimana Enigmistica che ospita “che cosa apparirà” (aka “annerisci gli spazi col puntino”) e “la pista cifrata” (aka “unisci i puntini”). Questi due piccoli capolavori di suspense semantica, per me, sono la perfetta metafora della vita.

Ti sembra che non vadano a parare da nessuna parte, sono ripetitivi, solo alla fine ne cogli il senso e capisci che non era poi questo gran che.

A SIMPLE MAN WITH SIMPLE NEEDS

C’è una quantità finita di energia che un uomo può spendere nella vita.
E credetemi, c’è un limite oltre il quale un cervello umano non può più, materialmente, immagazzinare informazioni.
OK, forse con la droga può. Dovrei provare. Comunque.

Ogni giorno mi dico ehi, sarebbe bello scrivere qualcosa. Perché no? In effetti mi prudono le dita. Poi arriva quell’immagine combinata, tipo “battery low” e “no disk space available” insieme, proprio lì nello spazio tra il retro degli occhi e il davanti del cervello. A proposito, sapevate che proprio in quello spazio ideale si pone il filtro cognitivo che determina se ciò che stiamo vedendo è irrilevante o meno? Ecco, forse io avrei bisogno di un paio di filtri di ricambio, perché – cazzo – a me sembra tutto irrilevante.

In ogni caso è così, come da titolo. Sono un uomo semplice, con dei bisogni semplici. Da mangiare, da bere, da fumare, un po’ di compagnia, qualche storia da leggere, ascoltare o vedere. Roba del genere.
Potrebbe essere più complicato di così, ma non ora. È stato un anno difficile, bambini, e questo splendido quarantenne ha bisogno di riposo. Di se-re-ni-tà. Cosa che, ora come ora, non ho ancora trovato. Perché il cumulo di esperienze che mi si rovesciano addosso mi sembra troppo incalzante per riuscire a spalarlo via in tempo per avere strada libera. Io mi sento così, uno spalatore. Che si trova in questo frangente a contemplare un enorme camion di quelli col cassone reclinabile che buttano sabbia, che avranno anche un nome specifico ma adesso non ho voglia di andare su Wikipedia a vedere qual è.

Perciò, capitemi. Quando ho un po’ di tempo libero dormo (anche da in piedi o da seduto), leggiucchio fumetti o romanzi poco impegnativi, compulso l’iPhone in cerca di applicazioni gratuite sufficientemente idiote da farmi sentire bene, guardo serie tv americane perché così imparo tante parolacce nuove. Anche quelle britanniche, che con Misfits per dire si imparano almeno 17 modi diversi di dire “figa” in inglese.

Seriamente, mi sembra di aver già scritto questo post altre cinque o sei volte nel corso degli ultimi tre anni, perciò lasciate che vi racconti qualcosa di me. Recentemente ho deciso di affidare ad un’agenzia la vendita della vecchia casa di mia nonna. Speravo di velocizzare. È venuto fuori che per vendere devo necessariamente fare cinque nuovi documenti per un costo totale di circa tremila euro. Curiosamente questo dettaglio emerge nel momento in cui ho appena speso i miei ultimi mille euro per dotare la casa nuova di tende. Lo so, le tende non servono a un cazzo, ma le donne… le donne vivono per avere le tende e – statene certi – le donne non vanno mai deluse perché non puoi mai sapere dove vanno a parare una volta che le hai deluse. Per dire, state visualizzando il camion della sabbia?

La casa nuova è soddisfacente, mi sembra ben organizzata. Il lavoro non è un gran che soddisfacente e soprattutto mi sembra pessimamente organizzato. Ma tant’è. In quel caso possiamo sostituire il letame alla sabbia nella metafora visiva che sto cercando di indurre nello spazio tra i vostri occhi e il vostro lobo frontale. Basta dire che da un giorno all’altro non ricordo di aver fatto delle cose, magari anche in collaborazione con dei colleghi. Che il giorno dopo mi dicono sai, quelle slide che mi hai passato ieri, sono servite, abbiamo preso una decisione cruciale sulla base del tuo studio. E a me viene la faccia da what the fuck?! mentre comincio a pensare di soffrire di Alzheimer precoce. Non è bello per niente.

Ho ripreso a scrivere per film-review.it, se volete darci un’occhiata. Ma c’è la crisi, e pagano 2,5 euro ad articolo. No, seriamente. OK, forse dovrei dirvi che si tratta di news brevissime e che io 800-1000 battute me le smazzo easy peasy in tre minuti al massimo. Però dai… Anche questo è un segno dei tempi, no? Per la cronaca, scrivo anche pezzi da 10 euro. Ma quelli bisogna guadagnarseli (i pezzi, dico, non tanto i diecini). In tutto ciò, dentro di me sta fortemente premendo un romanzo semiautobiografico. Sarebbe un modo per buttare fuori, liberare un po’ di spazio. A modo mio, seduto davanti a un monitor con riserva infinita di bevande al tamarindo e popcorn con una spruzzata di peperoncino sopra (poi non devo meravigliarmi di quante volte vado in bagno, lo so).

Però la batteria è ancora troppo scarica.
Perciò mi attesto sul livello simple. Per ora ridimensiono tutto.
Ma mentre navigate oziosamente da una pagina di Repubblica.it all’ultimo video di canguri che si masturbano su YouTube, tenete alta la vostra attenzione.
Perché io sono lì, accucciato nell’ombra, e vi salterò alla gola quando meno ve lo aspettate.
Ta ta for now.

FACEBOOK MANGIA FRIENDFEED?

La notizia di questi giorni: Facebook si è comprato Friendfeed. La reazione normale sarebbe “e sti cazzi?”. Volendo proprio dimostrare un minimo di interesse nelle cose del web, come ci si aspetterebbe da un professionista del mio spessore (!), si potrebbe ben dire che la notizia ha la stessa rilevanza di Yahoo che si compra Flickr, o di Google che si compra YouTube. Niente più che cifre e assetti societari. Del resto le startup nascono per farsi comprare, da che web è web. Se Facebook ha acquistato Friendfeed è segno che Friendfeed funziona.

Ma a quanto pare le cose sono un po’ diverse per gli utenti puri e duri di Friendfeed. Il pensiero dominante è piuttosto “la cittadella della resistenza agli orrori del web di massa (FF) soccombe al mostro divoratore di anime massificatore (FB)”. Facebook è visto come un aggregatore di inutilità, caotico, cattivo (mi ruba i dati e ci fa pubblicità), poco usabile e soprattutto “pieno di bimbiminkia” (sono molti gli interventi su Friendfeed che teorizzano l’avvento delle “k” e la sparizione delle vocali per tutti).

Ora. Per quanto il senso dell’umorismo degli utenti di Friendfeed sia spesso impagabile, a mio avviso i bimbiminkia si maciullerebbero i coglioni sia con Facebook che con Friendfeed. Il fatto che Facebook abbia lo stigma sociale che “ci sono le guerre di bande” non è un ragionamento valido per demonizzarlo. Basta evitarle. Faccio il mio caso (già che siamo sul mio blog, permettetemi di andare sul personale). Io sono iscritto a entrambi i social network, un po’ per curiosità e un po’ per esigenze professionali. Li sperimento da tempo, anche se in maniera non intensiva. A esperienza mia, Facebook è migliorato nei mesi, mentre Friendfeed è peggiorato.

Su Friendfeed si respira indubbiamente un’aria un po’ rarefatta, da élite tecnologica che ha il terrore di sporcarsi la tastiera con Facebook. Lo dico senza voler polemizzare, perché lì in mezzo c’è molta gente che conosco e che apprezzo, ma che ha una reazione quantomeno sproporzionata alla notizia dell’acquisizione. Si vogliono a tutti i costi contrapporre due visioni di rete sociale caratterizzate, in sintesi, da due funzioni diverse: quella emotiva per Friendfeed, quella fàtica per Facebook. Il che renderebbe Facebook inferiore.

Non starò a fare confronti sulle funzionalità (Facebook ha la chat, Friendfeed ha più interazione, Facebook è più completo, Friendfeed è più sintetico e veloce). Ognuno dei due prodotti – perché occorre ricordarsi che si parla di prodotti/strumenti, non di stili di vita – ha buone frecce al suo arco. Ma dipende sempre e solo da come li si usa. Su Facebook per me è venuta aumentando la funzione emotiva, mentre su Friendfeed prevalgono (sempre per quanto riguarda me) quella referenziale e quella metalinguistica.

Friendfeed è pieno di informazioni interessanti, e di dibattiti. Quello che alla maggior parte degli utenti di Friendfeed piace è il thread chilometrico, il flame, gli sporadici troll. Insomma, Friendfeed soddisfa gli utenti nostalgici dei vecchi forum, newsgroup, IRC e BBS, riproponendo vecchie modalità di interazione in salsa 2.0. Nulla di male, intendiamoci. Ma se non sei più che disposto a vivere su Friendfeed, difficilmente potrai “entrare nel giro”. Su 243 contatti di Friendfeed, ne conosco personalmente almeno la metà. Tuttavia, forse l’1% dei miei contenuti viene commentato, mentre la discussione è tradizionalmente monopolizzata da una decina di contatti al massimo. Il che, nel tempo, mi ha relegato al ruolo di lurker. Friendfeed è duro da seguire, le interazioni sono multiple e in tempo reale: bisogna avere tempo.

Ma il 90% degli utenti di Friendfeed sono anche, più o meno segretamente, utenti di Facebook – magari solo meno attivi. Rispetto ai miei 452 contatti di Facebook, la percentuale di quelli conosciuti è chiaramente ridotta al 25% (insomma, io conosco circa 120 persone, chi più chi meno, gli altri sono piacevoli fantasmi del web). Tuttavia, su Facebook trovo maggiore serendipità, più commenti e da diversi gruppi di persone, che in linea di massima non si conoscono tra loro. Friendfeed è analitico, Facebook è sintetico. E le guerre di bande basta rifiutarle.

Detto ciò, sono convinto che se qualcosa cambierà saranno piccoli miglioramenti per entrambi i social network. E che – nel tempo che gli “happy few” impiegheranno a migrare su qualche altra piattaforma sconosciuta alle temutissime masse – Google Wave avrà già raso al suolo sia Friendfeed che Facebook.

Esattamente come Facebook, Friendfeed e Twitter a suo tempo hanno “ucciso i blog“.