IRIDELLA VS. AGENT SMITH (O: L’AMBIGUO PESCE DELL’ANSIA)

Non vi ho ancora parlato di Iridella? Male… Molto male! Iridella è una giovane e piacente iridologa che mi ha guardato a lungo negli occhi. Iridella profuma di timo, limetta ed erbe officinali. Forse perché lavora in un’erboristeria. Lei ti scruta l’iride con una lente e tu le guardi le labbra color arcobaleno. Iridella vede tutto di me: la mia ansia (pupilla che flickra invece di restringersi e basta), la mia ritenzione di liquidi (macchie bianche nell’iride), i miei problemi di schiena (pupilla dal contorno frastagliato), e quant’altro. Mi dice che sono un tipo linfatico. Le dico grazie, in effetti sono amico di tutti. Mi dice che devo avere un sacco di gas intestinali. Mi fermo un attimo prima di replicare "Sì… vuoi sentire?". In ogni caso Iridella è brava, Iridella ti ascolta e ti legge dentro. Poi, estrae dal cilindro (quale cilindro? nessuno, è una metafora) i suoi intrugli erboristici dai nomi evocativi: Equilibrity (estratto di garum armoricum, pesce oceanico delle grandi profondità che stimola la produzione di serotonina) e Colic (un mix concentrato di erbe contro i gas). L’una sa di pesce marcio, l’altra di anice. Entrambe sono difficilissime da deglutire. Ed essendo erbe e non molecole chimiche, ne devi prendere un bel tot. Ieri mi stavo strozzando con Equilibrity, e invece di ingoiare la pasticca l’ho rigurgitata sulla tastiera del PC. Ma tutto sommato da quando lo prendo sono più sereno. Davvero. Funziona. Come dice Léaud, usando una metafora filmica veramente azzeccata, da quando lo assumi puoi fare come Neo nella scena in cui scopre di essere l’Eletto. I problemi si scagliano tutti insieme addosso a te. Tu alzi la mano. Il tempo si ferma. I problemi cadono tintinnando a terra e a te non resta che raccoglierli ed esaminarli con una distaccata curiosità. Sul serio… mancano solo gli occhialini scuri da Matrix. Add-on: per chi volesse conoscere Iridella, l’arcobaleno finisce all’Erboristeria Floralba di via Nizza…

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IO E LA MOTO. STARRING IO. E LA MOTO

Io e la moto. Sì. La moto. Immaginate pure un Buster Keaton più grosso e zazzerone, ma con la faccia di pietra. La mia faccia. Scolpita in un’espressione di stupore misto a sorpresa misto a impassibilità. L’occhio grande, un po’ acquoso, che all’inizio sembra inespressivo, poi ci vedi tutta la commedia umana e la tragedia della vita. Io e la moto, lunedì andiamo dalla commercialista. Quella di Moncalieri. La lascio di sotto, parcheggiata forse troppo vicino ad un ingombrante Ducato. Quando torno, salgo in sella accaldato. Pochi metri bastano per verificare che la moto procede come un vecchio ubriacone picchiato da un gruppo di teppisti che non ha ancora smaltito la sbornia. Io e la moto ci fermiamo. Qualcosa non torna. Nella gomma posteriore, uno squarcio come di lama di coltello a serramanico, la ruota è completamente a terra. Sguardo al cielo, bestemmia repressa. Io e la moto procediamo per una quindicina di km alla rispettabile velocità di 20 km/h per evitare brutte sbandate. Procediamo fino all’officina di fiducia. Lì, il meccanico estrae dal copertone una scheggia di acciaio che io e la moto abbiamo avuto la fortuna di incontrare sulla nostra strada. Il meccanico dice la frase ormai ben nota "Queste cose succedono a uno su mille". Sguardo al meccanico, bestemmia digrignata. La moto resta lì, la ritiro il martedì scambiandola con 140 fruscianti euro. Io e la moto ritroviamo il nostro equilibrio, e la vita sembra continuare senza scossoni. Tornando a casa mercoledì, io e la moto imbocchiamo la rampa in discesa del garage. Una giornata come un’altra. A un tratto, la sbandata, la caduta, la scivolata. Io tolgo la polvere dal pavimento del garage con i miei vestiti. La moto, distesa sul fianco destro, va a sbattere contro la saracinesca metallica di un box, producendo un effetto gong che però nessuno sente oltre a me. Ginocchio e caviglia lanciano segnali di allarme. Sguardo perso nel buio del garage, bestemmia non trattenuta. Mi tiro su a fatica, cerco di rimettere in piedi la moto (è pesante). Nessuno sembra essersi fatto male. La porto nel suo box, due pacche sul bauletto e vado in casa a disinfettarmi bendarmi impomatarmi. Giovedì (oggi) ore 8.45. Scendo, perché in effetti il dolore è passato e la mutua non sembra un’opzione. Apro il box e vedo un’ombra diversa dal solito. Accendo la luce. Sotto la moto, una pozzanghera scura e vischiosa di olio. Sguardo all’olio, bestemmia interiore. Torno dal meccanico. Il mio volto impassibile gli fa morire in gola la battuta che so bene stava per dire ("Uè! Quanto tempo che non ci vediamo…!"). "Dopo una caduta", osserva forbito il giovane apprendista con uno zigomo libero da piercing, "è normale che la coppa dell’olio si sbielli". Io e la moto. Tornerò a prenderla stasera. Poi insieme andremo a Lourdes. Costruiremo una piccola rampa – niente di troppo appariscente. Poi prenderemo velocità e ci tufferemo in modo spettacolare nella piscina di acqua benedetta. Splash!

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PAGAMI, SONO UN FANCAZZISTA

Quello che patisco di più, oggi, è il non poter fare quello che voglio. E’ una situazione che probabilmente mi creo da solo al 50%, mi rendo conto. Però è spiacevole. Ho come l’impressione che le cose da fare si moltiplichino in modo esponenziale senza che io le possa controllare. Chiaramente, quando tutto va fuori controllo, comincia a fare capolino l’ansia. Ma questa è un’altra storia, di cui parlerò più diffusamente dopo che la mia iride avrà detto la sua. La conseguenza di questo affollamento di compiti è l’impossibilità di avere del tempo libero che non debba per forza essere dedicato al sonno, al dormiveglia o allo stordimento da cannabis tanto per sfuggire almeno qualche ora al mondo crudele (questo perché per fumare basta portare la mano alla bocca e aspirare e non richiede alcun impegno mentale di sorta). Da qui i libri che si accumulano sul comodino (li compro e poi non ho tempo/voglia di leggerli) o i DVD che si ammucchiano sul tavolino davanti alla TV (stesso discorso). Per contro, i rari momenti in cui faccio davvero ciò che voglio si tramutano in luminosissime epifanie di un mondo perfetto in cui l’aria stessa è energia, la mente è ricettiva, e io posso decidere di prendere il sole, leggere, mangiare o bere qualcosa, fare una passeggiata, andare in bici o in moto da qualche parte, insomma vivere. Perché stare qui a bloggare per far passare ancora quel quarto d’ora in modo da recuperare un ritardo non è vivere. E’ stare nel limbo, come quando passi le giornate in un aeroporto, in un centro commerciale o in un ufficio pubblico. Non-luoghi, costruiti con l’unico scopo di alienare l’uomo. E poi farei ancora una sottile distinzione tra fare quello che voglio, nel senso di ciò di cui ho voglia adesso, e cioè per esempio stare in una Jacuzzi con un sigaro e gli Allman Brothers che suonano (nello stereo, non nella Jacuzzi) e fare quello che voglio, nel senso di ciò che veramente voglio come scopo della mia vita, cosa che per quanto mi sforzi non sono mai riuscito a definire. L’altra notte ho sognato di fare il giornalaio. Da giornalista a giornalaio, è un ottimo miglioramento nella qualità della vita. Però il giornalaio fatica, e se c’è una cosa che io aborro è la fatica. Ecco, forse è più facile individuare quali non sono certamente i miei scopi nella vita: faticare è uno di questi non-scopi. Cosa si può fare per essere pagati per oziare?

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