SOLO UN GERANIO E UN BALCONE

Per adesso la mia estate si riduce a questo, in attesa di una… quindicina di giornate al mare. E guardando al mio balcone, e annaffiando il mio geranio, vivo a scoppio ritardato con frammenti di pensieri che rimbalzano qua e là. Ad esempio, prima di partire vorrei

Mi sembrano desideri modesti e obiettivi raggiungibili. E voi?

SGABUZZINI E BUCHI NERI

Se compariamo un appartamento ad una galassia, dove ogni stanza è una stella o un pianeta definito, lo sgabuzzino sarebbe certamente il buco nero – il polo di attrazione gravitazionale verso l’antimateria. L’anticamera del caos e – probabilmente – il punto di passaggio verso un universo parallelo. In casa mia non c’è un vero e proprio sgabuzzino (i.e. una stanzuccia misera e stretta dove riporre gli oggetti indegni del resto della casa). Ce ne sono almeno cinque, uno per ogni ambiente. Non immaginatevi chissà che casa, perché vivo in due camere e cucina, ma diciamo che lo spazio è decisamente sfruttato.

Lo sgabuzzino principale è nell’ingresso. Si tratta di una rientranza nel muro nascosta da una tenda. Dentro ci sono dei ripiani in compensato. Sui ripiani ci sono scatole di scarpe (a volte contengono scarpe, a volte no), aspirapolvere, scopa, ombrellone da spiaggia, strumenti ginnici mai usati, medicinali scaduti, matasse di rafia, carta da pacchi, spazzole catturapeli, lampadine, materiali elettrici, argilla, creme solari, antenne, vecchie autoradio, valigie rotte, contenitori sterili per urine, giochi da tavolo, borse frigo e molti altri oggetti che non so, dato che stanno infilati sul fondo, dietro quelli malamente elencati poco sopra.

Secondo per dimensioni ma non per caos, lo sgabuzzino del balcone, quello chiuso da una porta in legno forata (i fori servono a far prendere aria alla caldaia). In questo ripostiglio, oltre alla caldaia, ci sono dei trasportini per gatti, una valigia di attrezzi per il fai da te, vasi e portavasi, grucce inutilizzate per appendere i panni, un umidificatore, un ventilatore, un trapano a percussione, stracci, stucco, silicone, terriccio universale, sabbia per lettiere, scatole di cartone vuote.

Poi c’è lo sgabuzzino della cucina. Non è un vero e proprio ripostiglio, ma è una scaffalatura a vista (coperta però dalla porta della stanza, il che la rende uno sgabuzzino ad honorem) dove sono ammassate le cose di scarsa utilità relative al mondo della cucina: tovaglioli, scottex, bacinella per il bucato e mollette da stendere, vecchie bottiglie di vino, asse da stiro, ferro da stiro, sedie pieghevoli, pandori e panettoni scaduti, pile, feltrini, gommini, scatole di elettrodomestici, swiffer, decorazioni natalizie, vecchi calendari, shopper in tela, strofinacci e tovaglioli.

In camera da letto esiste uno sgabuzzino virtuale dietro le tende della finestra, uno nell’angolo sud-ovest della stanza e un altro sotto il letto. Nel primo ci sono scarpe invernali (d’estate) e scarpe estive (d’inverno), vecchi quaderni, bigiotteria dismessa, scatole di prodotti hi-tech con dentro i relativi manuali. Nel secondo ci sono vecchi calzini dimenticati, peluche, settimane enigmistiche, ciabatte e scatole di profumi. Nel terzo ci sono scarpe vecchie spaiate, vecchie riviste, palline a sonaglio e topini di plastica, carte di caramella, un portatile del 2001 e tanti, tantissimi gattoni di polvere.

Infine, in salotto ci sono un paio di angoli studiatissimi e molto nascosti in cui stazionano da anni vecchi CD-Rom, rotoli di carta di vario genere, assi di legno, scalette e un didjeridoo (quest’ultimo ha da poco conquistato lo status di oggetto degno, ed è stato spostato in un punto visibile della stanza, per quanto io non sia capace di produrre più di 4 secondi di suono).

Da questa descrizione capirete il motivo per cui io e Stefi, questa settimana, non ci saremo per nessuno. Bisogna svuotare gli sgabuzzini e buttare tanta roba. Perché la mia teoria è semplice: se un oggetto staziona per più di tre anni in un ripostiglio, vuol dire che può passare in cantina. Se la cantina è già piena, può essere gettato. E la nostra cantina è molto piena. Augurateci buona fortuna.

LA R4 AERODINAMICA COLOR CARAMELLA

Se ne vedono sempre meno in giro. Segno che la fine è vicina. Le Renault 4, come le cugine Citroen 2CV, sono state parte del tessuto urbano ancora per tutti gli anni ’90. Rottamate loro, è facile che si sentano rottami anche i loro (ex) proprietari. La mia R4 era agile, aerodinamica quanto basta e di un color grigioblu che faceva pensare ai confetti Falqui alla prugna. Ma non era per questo che la chiamavano Shitmobile.

Il nome le veniva un po’ dal suo essere sempre sull’orlo dello sfascio (come il Boss Robot di Go Nagai) e un po’ dal mio intramontabile nick dell’epoca, con il quale in certi ambienti sono tuttora conosciuto, “Shitman” (come il PausaMerda di American Pie). La mia R4 aveva il cambio ad altezza cruscotto, con quel bel pomellone a gancio. Se cambiavi o scalavi con troppa foga, la leva ti restava in mano. Niente paura: bastava pestare sulla frizione e piantare di nuovo la leva nel suo buco (diametro 0,5 cm) e tutto funzionava di nuovo.

La mia R4 l’ho presa usata da un meccanico di Bollengo dopo aver preso la patente in una scuola guida di Ivrea. La scuola guida in quelle zone ti porta a praticare stradine di montagna in paesi inquietanti come Chiaverano, Montalto, Cascinette. O anche solo nel centro storico di Ivrea. Ecco il motivo per cui ancora oggi, quando tengo la destra, io tengo la destra. Nel senso che vado a rasetta con tutte le auto parcheggiate, per il terrore che qualcuno arrivi nel senso opposto.

Con la R4 una volta ci ho fatto un triplo testa coda, sul ghiaccio. Per un momento è stato come avere una Aston Martin. Il mio passeggero, tuttavia, non ne rimase un granche entusiasta. Sulla R4 ho perso la mia verginità. Anzi no. Questa sarebbe una licenza poetica. In realtà l’ho persa sulla 2CV della fidanzata dell’epoca. Il che dà l’idea di come funzionavano le cose una volta: prima vedere macchina, poi donare verginità.

La mia R4 non aveva lo specchietto retrovisore: cadeva sempre, l’ho buttato via. Il rivestimento dei sedili era in stoffa grigia con inserti a quadretti rossi e blu. Le guarnizioni delle portiere facevano passare molta umidità. D’inverno le mettevo quel tanto di gasolio per impedire che gelasse, e con pioggia, neve o sole mi ha sempre portato ovunque (nel raggio di 50 km da Ivrea, perché più di tanto non avrebbe retto).

La R4 era la poesia della strada e della libertà. C’è stata dal 1989 al 1997. Poi non ce l’ha fatta più. Avrei potuto rottamarla, ma mi piangeva il cuore. L’ho venduta per quattrocentomila lire a un marocchino, che la usava per portare la verdura al mercato. La mia R4 magari è ancora là fuori da qualche parte, che tira avanti nonostante l’età. Anche se, a vedere i SUV che girano oggi, come minimo le è venuto un infarto.