SINDROME DA PAUSA PRANZO

Pausa pranzo: a me piace farla lunga. Non mi piace guardare l’ora, preferisco passeggiare, andare in locali un pizzico più lontani dall’ufficio, per spezzare un po’. Da brava persona organizzata tengo i “resti” dei vari bar e ristoranti un un mini-portadocumenti religiosamente custodito nella mia pochette di Pucca. È una cosa che fa sempre la sua porca figura, tirar fuori la pochette di Pucca. Una pochette dice su di me più di mille parole. Comunque sia, i resti. Ci sono resti del 2003, scontrini ingialliti con su scritto “0,20” o “1,70”. Non li recupererò mai più. Poi ci sono i resti più consistenti e nuovi, quelli dei locali dove vado più spesso. Tipo questi.

PIERO’S
Una delle istituzioni della pausa pranzo a Torino centro. La pizzeria più vintage della zona. Pizza al tegamino, tovagliette a quadri bianchi e rossi. Ci siamo capiti. Alle pareti, arte anni ’60 e ’70 (Guttuso, Baj, Alessandri). Ci vado con lui. Tutte le volte che entriamo parte il proverbiale “Ciao carissimi!”. Perché il personale di Piero’s ti tratta bene – o ti prende per il culo, non ho mai capito – e comunque sono simpatici. Si chiacchiera, si guardano i quadri e soprattutto gli altri avventori. L’ultima volta c’erano due signore sui settantacinque anni, impellicciate, biondo platino, viso tipo frutta secca. Per un attimo meditiamo di abbordarle, per vedere se l’effetto Zanicchi tira anche a Torino. Da Piero’s ci si balocca con queste idee balzane, sapete. Poi quando pago parte la solita battuta: “Te ci hai dei buoni pasto DEVASTANTI! Nemmeno Chiamparino ci ha i buoni pasto così!”. Mangiare da Piero’s ti svolta la giornata.

BURGER TIME
Altro giro, altra istituzione (ne avevo già parlato in altri tempi). Il Burger Time non ha rivali. Se poi vuoi vedere cosa fanno e come parlano i quindicenni di oggi, è fondamentale andare al Burger Time. Io ci vado una volta ogni due mesi o giù di lì, per assaporare il loro fast food classico e senza fronzoli (speck e cipolla? scherziamo?). Mentre sbrodolo il vassoietto con una non meglio identificata salsina rosa circondato dai frequentatori delle scuole medie e superiori della zona, guardo al di là della vetrina, verso l’Emporio Armani. Passa un gruppo di colleghi migratori. Mi vedono mentre addento l’hot dog. Mi fotografano. Quando esco, vedo il cartello sul vetro che per gli “spettatori” era posizionato esattamente di fianco al mio tavolo: “Menu dietetico 6 euro“. La foto è pronta per Facebook.

ALTROCHÉ
L’Altroché Caffé è uno di quei bar minuscoli dove tutti conoscono tutti – e dove vado spesso a pranzo con lei. Ha il difetto di essere troppo vicino all’ufficio, e quindi non corrisponde all’ideale di wanderlust che impronta le mie pause pranzo. Però è abbastanza intimo da potersi scambiare un po’ di opinioni sulla vita, l’universo e tutto quanto. Quando si parla di politica e di e-participation un po’ mi annoio perché son qualunquista dentro, ma mi piace vedere la passione che anima l’interlocutore. In pratica l’Altroché è il luogo dove la frustrazione dell’ufficio viene sublimata in una ridda di progetti paralleli in cui ci si butta un po’ per incoscienza e un po’ per non morire dentro. Il più bello (di Daria, non mio – almeno per il momento) è il “laboratorio di narrazione orale”. Perché il Teatro della Caduta spacca.

ZHEN BAO
Sarebbe il cinese di fronte alla Rinascente, per i frequentatori della zona. Si tratta di un posto dove pranzare rigorosamente da soli, per osservare con attenzione l’ambiente circostante. I gestori hanno imparato, dell’italiano, esclusivamente le parole che servono (i piatti del menu, i numeri, “buongiuol-no“, “va bene qui?”, “p-lego” e “tutto bene?”). Gli avventori sono i più disparati. Oggi vedo due ragazzi sui 16 anni: lui smilzo e vagamente gay, lei parecchio sovrappeso. Lui cerca in lei un pubblico per i suoi racconti e i suoi sfoghi, lei cerca in lui l’uomo della sua vita. Lui gesticola, lei si protende. Nessuno dei due può essere veramente quello che l’altro desidera. Dio li fa e poi li accoppia. Finisco gli spaa-gheti di liso con gaamb-letti e pago. Fuori piove. È quasi primavera.

SAN VALENTINO COL SILENZIATORE

Da che è online questo blog (e prima ancora, da quando ero 0.1) le marchette pubblicitarie non fanno per me. Questo penso si sia capito. Anche perché a me nessuno manda mai in omaggio caramelle, telefonini, creme per il viso o Cialis, con l’intenzione sottintesa di convincermi a parlarne. Io sono un consumatore, e se un prodotto mi convince (o quantomeno… mi colpisce) ne parlo volentieri, per condividere un’esperienza. E penso che nessuna esperienza di consumo sia paragonabile a quella che ho avuto, la notte di San Valentino, con lo spray per GRANDI RUSSATORI Silence, di Chefaro Pharma.

First things first: a San Valentino (la festa inventata dalla lobby dei cioccolatieri e dei fiorai per rimpinguare le casse) io non so mai se regalare qualcosa, e se sì cosa. Mentre ero in farmacia per altri motivi, arriva l’illuminazione. Lo spray Silence, in tutto il suo splendore, richiamava la mia attenzione da un coloratissimo display. Quale regalo migliore per la propria dolce metà di una vera e propria prova d’amore? Cara, ti regalo questo spray – che poi userò io – per dimostrarti che ti amo al punto da tentare disperatamente di smettere di russare per te. Solo per te. Oddio, anche per gli amici che a volte dormono con me e arrivano dotati di tappi per le orecchie.

Il regalo suscita ilarità (meno male che ho sposato una donna spiritosa) e viene testato la notte stessa. L’atmosfera è sacrale. L’uso di Silence deve essere l’ultimo rituale prima di coricarsi. Dopo Silence non si può bere, mangiare, fare sesso orale. Parlare o deglutire è concesso, ma con moderazione. Silence, nella versione per GRANDI RUSSATORI (va scritto tutto maiuscolo, come INLAND EMPIRE, ricordàtelo) consiste di un doppio flacone: spray nasale + spray orale. Perché il russamento è una questione di vibrazione a livello di faringe e palato molle, che nei GRANDI RUSSATORI si abbina ad una occlusione nasale pressoché totale.

Comincio con lo spray nasale, una bazzecola. E qui c’è la prima sorpresa. Silence non sa di menta, come sostiene il foglietto illustrativo. Ha un aroma a metà tra il burro di arachidi e la salsa di soia. Comunque un aroma unto. Con una vaga copertura di menta, che sul mix arachide+soia fa l’effetto deodorante Glade in un cesso appena usato. Difficile trattenere i conati di vomito, considerando poi che occorre “inclinare il capo all’indietro per far scendere bene lo spray nei seni nasali”. Subito dopo è la volta dello spray orale, da spruzzare in fondo alla gola e inghiottire per ben due volte.

Visto l’odore dello spray nasale, immagino già il sapore di quello orale. Non vengo smentito: l’untuosità mentolata è la stessa di prima, solo che invece di annusarla ti si spalma nella gola. E poi, la vera sorpresa. Se pensavo ad uno spray tipo colluttorio ho dovuto ricredermi subito. Silence spray orale, puntato diretto sull’ugola, produce una bella nuvolona di schiuma da barba al burro d’arachidi che dà immediatamente l’impressione di soffocare. Poi deglutisci e ti sembra di annaspare in un’enorme ciotola di salsa di soia. Corretta col Brancamenta. La schiuma – come proclama il foglietto illustrativo – è muco-adesiva (bleargh), protegge i tessuti oro-faringei, li mantiene tonici e lubrificati e li rigenera persino, notte dopo notte!

Va beh. A parte il folklore del modo d’uso, dopo cinque minuti non ti accorgi neanche più di aver deglutito una simile schifezza (mille volte meglio bere un uovo crudo, per dire). Da lì in poi, Silence fa il suo lavoro. E, a quanto pare, lo fa molto bene. Il mattino dopo ho avuto la conferma di non aver russato e – cosa ancora più incredibile – quando ho aperto gli occhi avevo la bocca chiusa, la gola in uno stato normale (di solito è secchissima) e il naso libero. Coincidenza? Spero di no. Spero che veramente il trucco abbia funzionato. Non ho osato riprovare per paura dell’effetto arachide. Vi saprò dire la prossima volta.

Resta il fatto che Silence è veramente fatto con la soia. La fosfatidilconina, l’ingrediente principale, è un tipo di lecitina di soia. Poi ci sono altri ingredienti da urlo tipo il rutine (una creatura molliccia e amarognola) e il rusco aculeato (uno scontroso animaletto sempre sulla difensiva). Le arachidi non so, ma secondo me ce le mettono. Fa tanto Natale.

CAMERA CAFÉ (DAVVERO)

Negli ultimi tempi è aumentato esponenzialmente il numero di lettori di questo blog appartenenti alla categoria “colleghi di lavoro“. Che dire in proposito. Ovviamente la mia identità digitale è trasparente quanto quella di carne (sono grosso ma mi si legge attraverso). Di certo non ho mai pubblicizzato le mie attività on line nei posti dove ho lavorato, eppure gli estimatori vengono fuori nei posti più impensati. Perché finora si tratta di estimatori, fortunatamente.

I miei lettori “camerali” arrivano a volte da Facebook, a volte da Linked In. Può darsi che qualcuno conosca il blog avendo cercato il mio nome su Google. Per quel che ne so può darsi anche che ci sia un passaparola (anche se in genere chiedo per cortesia di non passarla troppo). Ma c’è un aspetto che li accomuna tutti: non commentano (quasi) mai. Preferiscono avvicinarmi sulle scale o negli ascensori e dirmi con sguardo complice “Ho letto…” (sottintendendo: “…il tuo ultimo post, quello che parla di esistenzialismo e aerofagia”).

A volte si spingono fino nel mio ufficio a dirmi che “hanno letto”, o mi telefonano per dire che “lo hanno fatto leggere” anche al vicino / alla vicina di scrivania. A me fa piacere, beninteso, però mi turba anche un po’. Perché un conto è ricevere un commento da uno sconosciuto o da un contatto di un social network. Un conto è avere di fronte una persona che magari fino al giorno prima immaginavi intenta soltanto a redigere atti amministrativi e invece è tanto deviante da leggere fino in fondo quello che scrivo.

Chi si sentirà preso in causa da questo post sappia che la stima è, ovviamente, reciproca.

Questo però non mi esime dal vivere nell’inquietudine che prima o poi qualcuno di non abbastanza deviante scopra che non solo sembro un coglione, ma che lo sono veramente.
Un po’ quello che potrebbe accadere ai Bastard Sons of Dioniso a X-Factor, per dire.