PIGRAMENTE

Pigro. Già la parola suona come uno stiracchiarsi languido. Piccola esplosione labiale seguita da un grrrrrrrr di fusa feline e da un ooooh misto di soddisfatta stanchezza. Pigro. Detto di persona che non ha voglia di fare un cazzo. Che al momento attuale avrebbe, come lavoro da svolgere, “ribattere degli appunti“. Nulla di trascendentale. Ma per il pigro, il fatto stesso di digitare sulla tastiera è fonte di disarmonia. Il pigro vuole il mouse, sinuoso, il pigro vuole cliccare con una frequenza massima di una volta ogni 30-40 secondi.

Il pigro diventa più pigro con il passare delle ore, perché il caldo rende pigri. Il pigro beve piuttosto che mangiare, perché non vuole masticare. E comunque l’acqua se la fa portare. Dalla moglie. O da una collega compiacente, se si trova sul lavoro. Perché non un collega di sesso maschile, direte voi. Perché anche lui è pigro. La donna invece si sente in colpa ad essere pigra, e l’uomo può giocare su questi meccanismi mentali. Anche se a rifletterci bene, essere così astuti richiede un cervello veramente troppo attivo.

Il pigro sogna di vivere in una capsula autosufficiente, fatta a forma di poltrona volante di Eero Arnio, con un monitor davanti a sé e una fornitura infinita di patatine e chinotto a portata di mano. Tutti i passanti dovrebbero salutarlo con entusiasmo, ma nessuno dovrebbe parlargli per più di un minuto, perché anche la conversazione richiede sforzo.

Alla fine il pigro volerebbe in cielo, poltrona e tutto, in cerca di un po’ di frescura.
Saluterebbe con la mano i passeggeri degli aerei che sorvolano l’Atlantico e scomparirebbe dietro le nuvole. Il mondo non è dei pigri.
Le nuvole, invece… quella è un’altra storia.

STAIRWAY TO HEAVEN

Visto il titolo del post, immagino che pensiate di cliccare per leggere una godibile esegesi dello storico pezzone dei Led Zeppelin. Nulla di più sbagliato. Il titolo è ironico e si riferisce allo scalone del palazzo dove lavoro. Ora forse vi aspettate di leggere un post fantozziano sulle mie disavventure di impiegato pubblico alle prese con la cura Brunetta.
Fuori strada anche stavolta.
Vi volevo proprio parlare della scala, dei gradini. Anche del corrimano.

Non è frequentissimo, ma almeno una volta al mese mi capita la fatidica chiamata dagli uscieri qui accanto che infilano la testa nell’ufficio e mi dicono “C’è un tizio qui fuori che parla solo inglese“. Per forza. È di origine anglosassone. Difficilmente imparano l’italiano. Allora io esco e mi prendo cura del malcapitato utente. Stamattina non avevo nemmeno fatto colazione che capita il tizio “solo inglese”. Una famiglia intera a dire il vero. E come sempre, vogliono solo una cosa. “May we see the staircase?“.

Ma certo. Io e lo scalone siamo così (non mi vedete ma sto unendo ritmicamente i due indici delle mie mani, nel gesto universale che esprime vicinanza). Anche perché non mi risulta una frase idiomatica tipo “ass & shirt” in inglese, e magari gli utenti la troverebbero offensiva. Insomma, questi turisti dell’architettura moderna vengono fin qui solo per vedere il famoso scalone di Carlo Mollino, l’architetto più cool e underground del secolo scorso. Ed essendo l’unico che parla inglese, sono l’addetto al tour dello scalone.

Il tour in lingua prevede l’affaccio sul vertiginoso scalone (unica parte in cemento della costruzione altrimenti nota come “Palazzo Affari”). Pausa foto. La salita al piano del parcheggio riservato da cui si evidenzia il fatto che il palazzo in sé è “appeso” alla struttura dello scalone centrale come fosse una zanzariera che pende dai rami di un ombrello (non saprei come altro spiegarlo). Pausa foto. La salita fino al quarto piano – il sottotetto – in cui sono evidenti i “rami” di cemento che partono dalla cima dello scalone e reggono la struttura del palazzo. Pausa foto. La discesa al terzo piano dove ammirare il panorama e la struttura delle vetrate. Pausa foto. Infine, si pone l’accento sul fatto che le separazioni degli uffici sono una novità recente, poiché Mollino aveva progettato l’edificio come se ogni piano fosse un enorme open space a forma di ciambella col buco (il buco è lo scalone, ça va sans dire).

In genere alla fine del tour suggerisco altri edifici di Mollino da vedere a Torino e dintorni (la sua casa-museo in via Napione, l’Auditorium RAI e il Teatro Regio, l’Aeroclub a Collegno, la “Casa del sole” a Cervinia e la stazione “Slittovia del Lago nero” a Sauze d’Oulx). La chicca finale è mandarli dal mio parrucchiere, poco lontano da qua, il cui salone ha gli arredamenti e i pezzi di design originali di Mollino (quegli ambienti un po’ art nouveau e un po’ futuristi che sembra sempre che debba spuntare da un momento all’altro una modella vestita da Paco Rabanne). Non so se il mio parrucchiere abbia mai gradito questa forma di turismo, però.

Mollino è un personaggio strano.
L’anno scorso è stata pubblicata una sua interessante biografia.
Oltre che architetto e designer era anche aviatore, corridore, fotografo ed erotomane.
Quando volete saperne di più sullo scalone del Mollino, venite pure da me.
Ma solo se parlate inglese.

IPOCONDRIA E CHECK-UP

Avere una madre che soffre di qualunque disturbo pensabile nell’universo dei sintomi clinici non è da tutti. Si rischia di dover passare la vita ad accompagnarla in un continuo stillicidio di visite specialistiche, da un medico all’altro, per poi ottenere sempre la stessa risposta: “è tutto psicosomatico“, it’s all in the head.

Per questo, valutata l’effettiva scarsità di controlli sanitari negli ultimi cinque anni e considerata l’età della genitrice (non li dimostra ma ne ha 71), ho pensato di rivolgermi ad un centro specializzato per organizzare un check-up generale che potesse essere soddisfacente per tutti. Ossia per me, che non sarei stato costretto a scarrozzare la mamma ogni mese da uno specialista diverso, e per lei, che avrebbe avuto soddisfazione nel giro di due giorni.

Perché vedete, per mia madre una visita specialistica è come un duello. Un duello tra lei e il medico di turno in cui lei deve avere la soddisfazione di veder confermate le sue bizzarre autodiagnosi (che prevedono in genere tumori diffusi e generalizzati). Un check-up è come una battaglia campale, che necessita la sera prima di una veglia d’armi. Si dispongono i contenitori per le urine, si ripassa la strategia, si beve l’ultimo Lady Gray prima del digiuno.

Poi arriva il momento dei prelievi, delle ecografie, dei raggi. Mia madre passa attraverso ognuna di queste prove con lo sguardo mistico di Giovanna d’Arco ma con la determinazione del generale Patton: qui non hanno fatto bene la proiezione (perché lei di lastre ne ha fatte almeno una cinquantina in vita sua, e conosce bene la procedura), là non hanno esplorato a dovere con l’ecografo… Ma quando è il momento di rendere onore all’avversario, non si tira indietro: l’infermiera addetta al prelievo ematico ha trovato al volo una vena nascosta che nemmeno mia madre sapeva di avere. Chapeau.

L’offensiva finale è costituita dalle visite specialistiche. L’oculista, l’otorinolaringoiatra, il proctologo, sono come i mostri dei livelli finali dei videogame di una volta: duri a morire. Se lo specialista è giovane (leggi: ha meno di 60 anni), mia madre se lo mangia in un boccone. Ma a volte anche i medici quarantenni riescono a tenerle testa. Da uno specialista mia madre pretende una visita approfondita, divisa in una prima parte in cui si parla e di una seconda parte in cui lei viene “esplorata”.

Se il medico commette l’errore di dirle “lei, signora, non ha niente che non va“, è finita. Se il medico (cosa assai improbabile) confermasse i sospetti materni, lei probabilmente passerebbe il tempo a sospirare “cosa vi avevo detto, io?”. Ma il medico generalmente trova situazioni più o meno tipiche legate all’età e allo stile di vita della mamma, e sferra la sua offensiva suggerendo blande terapie.

Per mia madre non c’è nulla di così devastante come una terapia. Non dovrebbe essere possibile combattere sintomi e disturbi con una terapia. I suoi mali sono incurabili, cronici, terminali, quasi sempre rarissimi o comunque non comuni. Ridurli al silenzio “mangiando più frutta e verdura” non è assolutamente credibile.

Spesso penso che mia madre sarebbe infinitamente più soddisfatta se le comunicassero che ha cinque tumori diversi in diverse parti del corpo. Credo che questo le darebbe la conferma che ha ben ragione di lamentarsi.

Ma questo fortunatamente non è ancora mai accaduto, e per il momento a me tocca semplicemente illustrarle con dovizia di particolari le gioie degli spinaci surgelati in cubetti.
La miglior medicina per i disturbi legati all’intestino.