IL LAVORO NOBILITA?

Il lavoro non è una cosa naturale. So che è da idioti partire con un utopistico richiamo all’età dell’oro, ma quando quei simpatici uomini preistorici hanno deciso che la pastorizia e il nomadismo non erano più divertenti e si sono inventati l’agricoltura, beh… Quello è stato l’inizio della fine. Il lavoro – il tempo del lavoro, con le sue scansioni sempre uguali – è un’invenzione dell’uomo. Siamo animali autodistruttivi.

Seguitemi, allora. Se il lavoro non è naturale, ma è una situazione costruita, potremmo definirlo non tanto una realtà quanto una rappresentazione. Si alza il sipario la mattina e andiamo in scena, ognuno con il suo ruolo. Il dirigente manipolatore, il buffone che fa le battute alle riunioni, quello che ama sentire il suono della sua voce, il burocrate, l’efficiente, l’imboscato, l’inadeguato.

E bisogna fare molta attenzione, perché in questa rappresentazione sono lesti ad assegnarti un ruolo che – volente o nolente – ti resta appiccicato per la vita. Una volta inadeguato, sempre inadeguato, insomma.

Questo autunno è un momento critico in CasaIzzo. Qualcuno si stanca del ruolo che gli hanno assegnato, qualcuno lotta contro l’assegnazione forzata di ruoli tout court. Le rappresentazioni sono sempre uguali, si finisce per somigliare agli attori delle compagnie di giro della commedia dell’arte. La cosa può essere positiva o negativa, a seconda dei punti di vista. Tenendo comunque presente che se non reciti, non mangi.

Ma se devo recitare, amici, il mio modello non è Jack Nicholson. Io sono più il tipo Anthony Hopkins. Sottile. Quando voglio. O quando posso. Oggi non potevo e non volevo, perciò sono stato costretto mio malgrado ad adottare il metodo. Ne è venuto fuori un atto unico potenzialmente molto pericoloso per la mia carriera di attor giovane, ma quanta soddisfazione in quella scena madre.

Alla faccia dei ruoli e dei comportamenti codificati.
E comunque pastorizia e nomadismo sono molto divertenti. Basta che non piova.

BENIAMINO PLACIDO R.I.P.

Fugo subito ogni dubbio: il Beniamino Placido di cui parlo è il nostro ficus benjamin, quello che mi ha sempre guardato le spalle mentre scrivevo i miei post e adesso incombe rinsecchito e platealmente defunto tra la libreria e la scrivania. Insomma, nessuno scherzo di cattivo gusto ai danni di noti critici televisivi.

Beniamino (detto Ben) era parte di una famiglia di freaks che vive nella nostra casa, insieme a Maria Callas (la calla, che neppure lei sta tanto bene), Misery Nondevemorire (la miseria che invece muore e resuscita ogni anno), la Peppa (una pianta non meglio identificata che pare un incrocio tra la lattuga e un ultracorpo), Ortis (l’ortensia che non fiorisce), Pungy (un robusto agrifoglio mutante) e una serie di piante grasse anonime ma dure a morire.

Tutti i nostri amici vegetali sono sempre stati trattati bene. Si tratta solo di una questione di ambiente. L’ambiente di CasaIzzo è ostile ad ogni forma di vita vegetale. Certo, ci sono le eccezioni. Rosy, la rosa di Jericho, può stare mesi interi senza acqua e senza patire, mentre Bambi 1 e 2 (le due canne di bamboo) sembrano espandersi tanto più quanto meno vengono curati. Anche Hippopotus (il potus) vive praticamente in acque putride e non si è mai lamentato.

Sono le specie autoctone, però, che pongono più problemi. Nel cimitero vegetale di CasaIzzo ci sono edere rampicanti, girasoli, piante officinali, erbe aromatiche, aloe, fiori di ogni tipo e misura, rose fresche aulentissime, gerani da balcone (che mi dicono essere una specie resistentissima), saintpaulie (non so come si scrive ma son quelle piantine che te le regalano e dopo due giorni son morte).

Noi ci affanniamo a potare, pulire, innaffiare, vaporizzare. Carezziamo le nostre piante, le rinvasiamo, ci parliamo insieme. A volte le sgridiamo (quando ingialliscono di colpo per dispetto, o quando si spintonano l’una con l’altra sulle mensole), più spesso le consoliamo (quando Maya decide che deve assaggiarle tutte, anche quelle potenzialmente velenose).

Eppure ogni estate esige il suo terribile tributo di clorofilla, e giunti alle porte dell’autunno un’altro amico si trasferisce nei verdi campi dell’aldilà vegetale, dove non esistono vasi né potature, e dove la pioggia ricopre ogni cosa. Mentre scrivo queste righe Beniamino Placido viene accompagnato nel cassonetto della spazzatura. Lascia dietro di sé una scia di foglie secche e un vuoto proprio lì, tra la finestra le la poltrona Poang dell’Ikea.

Vi saremo grati se parteciperete al nostro dolore, e se ci consigliaste quale altro amico vegetale potremmo adottare per sistemarlo in una zona luminosa (ma non luce diretta), leggermente sopraelevata e parecchio calda.
Un amico vegetale dall’aria tosta, che resista anche alle torride estati torinesi.
Che duri quattro o cinque anni. Almeno.

OVERALL FEELING OF DOOM

L’ho letto di sfuggita mentre sfogliavo libri in un bookshop di Dublino. “Overall feeling of doom“. La frase mi è piaciuta talmente che mi è rimasta impressa nel subconscio. La uso adesso perché si addice al momento presente: il ritorno dalle ferie. Una generale sensazione di… rovina, decadimento, fallimento, destino infausto. Non so. “Doom” è una di quelle parole talmente dense e sfaccettate che non vorrei nemmeno tradurla. Non a caso è usata per il Dr. Doom (impropriamente tradotto da noi come Dottor Destino), per il mitico Tulsa Doom (il cattivo di Conan), per il gioco Doom. Tutte cose allegre.

Questa sensazione è stata tenuta lontana con successo per due settimane, in cui le uniche preoccupazioni sono state tenere la sinistra, evitare di bere più di cinque pinte di Guinness al dì, cercare il cimitero / la scogliera / il monastero / la farmhouse più vicina. Il godimento stava nel fatto di essere completamente disconnesso. Niente televisione, niente quotidiani, niente Internet, niente cellulare, radio poca e solo in auto (e solo stazioni ultra-folk). La vacanza per me deve essere “vacanza”, nel senso che sei vacuo, sgombro, completamente libero da (pre)occupazioni. Anche la sporadica telefonata a casa (rigorosamente da una cabina e con monetine contate) deve essere un evento eccezionale.

Fino a ieri sera ho evitato il doom. Poi, appena mi son messo a letto è tornato, come una coperta fredda e avvolgente. Mi ha tenuto compagnia fino alle quattro del mattino. Non so se poi diminuirà, magari è solo la crisi da rientro. Però so che se ci si mette anche l’insonnia la sindrome da Fight Club non tarderà ad arrivare.
È che devo ancora decidere se in questi casi vale di più la tecnica zen o la lotta armata…