QUALTO D’OLA

I cinesi sono i più grandi ristoratori del mondo“.
Lo diceva, con caratteristico aplomb, Bruno Ganz nel noto film Pane e Tulipani.

Per me l’affermazione rimane vera, anche in tempi di kebab, fish and chips, pizze al taglio e quant’altro. Dal 1983 (anno in cui in famiglia abbiamo adottato l’abitudine di recarci periodicamente “al cinese”) gli spaghetti di riso, di soia, gli involtini e i ravioli, i gamberi al curry, il pollo fritto e il vitello con funghi e bambù sono parte integrante della mia dieta. Il ristorante cinese è stata per decenni l’unica alternativa economica alla trattoria familiare di una volta.

Oggi che – con l’età che avanza – non amo i luoghi affollati e incasinati, il cibo cinese spesso arriva direttamente a casa nei tradizionali e squallidi contenitori in alluminio con coperchio in cartone (solo quest’anno, mi pare, ha aperto a Torino un take away con le caratteristiche scatole oblunghe immancabili sulle tavole dei single nei film americani). Ma resta una fascinazione perversa per il luogo “ristorante cinese” in sé. E non parlo ovviamente di quelli fighetti. Il ristorante cinese non può essere fighetto, per definizione. Non vi fidate del finto lusso.

Il vero cinese è quello che lascia un po’ di odore di fritto sulle maglie, quello che ha le tovagliette in plastica un po’ usurate con le storie di Confucio serigrafate, la musica china-pop in sottofondo e una serie pressoché infinita di ninnoli in ceramica e vetro soffiato da regalare ai clienti più affezionati. Il ristorante cinese che amo è quello a conduzione familiare, con gli intraprendenti immigrati di prima generazione che hanno imparato l’italiano alberghiero e basta (se gli chiedi “com’è la situazione al confine col Tibet” ti rispondono “poco piccante“) e i curiosi della seconda generazione che parlano perfettamente il romanesco delle fiction RaiSet e al sabato pomeriggio affollano le vie del centro sfilando con il loro stile pseudo Visual-Kei.

Ci sono cinesi più o meno buoni, più o meno comodi. Ma secondo me non è il caso di fare tanto gli schizzinosi. Io prediligo il Tien Tsin in corso Dante (vicino a casa) e lo Hu Li Chuang in via Lagrange (vicino all’ufficio). Non male anche il Kuo Ji in via San Massimo. Ce ne sono mille altri validissimi che non visito mai solo per pigrizia. Se fate una rapida ricognizione web si trovano. Quello che stupisce è la varietà di commenti del tipo “che schifo il cinese“. In linea generale non discuto che il cinese sia un cibo che deve piacere. E se non piace, piacenza (come diceva un comico di cui non ricordo il nome). Ma questo tipo di giudizi a doppio taglio nascondono sempre un sottotesto cripto-fascio, del tipo “solo i comunisti mangiano cinese, e poi con tutta la roba buona che abbiamo in Italia come ti viene in mente?”.

Io dico solo che il ristorante cinese può essere anche poesia. Il momento del caffé, per esempio, è un haiku. Il caffé è tendenzialmente orribile in tutti i ristoranti cinesi, questo è un fatto. Ma se chiedete un macchiato, state sicuri che una graziosa quindicenne con la maglietta di Pucca distillerà per voi con estrema concentrazione una bevanda scura dal sapore bruciacchiato. Poi poserà la tazzina sul bancone e depositerà cucchiaino dopo cucchiaino la schiuma del latte nella tazzina. Mentre è intenta a compiere questa straordinaria operazione, l’acciaio del cucchiaino, riflettendo le lanterne rosse al neon, proietterà guizzanti giochi di luce sui suoi occhi a mandorla. Ed ecco che il luogo kitsch e ordinario si trasformerà improvvisamente nella radura che ospita l’albero del Buddha.

Non danno molta confidenza, i cinesi, ma io ho sempre l’impulso di abbracciarli.
E poi mi piace che, qualunque cosa tu ordini al telefono per poi portarlo a casa, alla domanda “Tra quanto passo a ritirare la roba” loro rispondano sempre, invariabilmente, “Qualto d’ola“.
Il quarto d’ora è l’unità di misura del loro tempo lavorativo e – sospetto – anche personale.
Ammetterete che la vita, così, si assapora di più.

IL PARASSITA FACOLTATIVO

Oggi esco a pranzo tardi, per riuscire a ritirare un documento ad uno sportello che apre al pubblico alle 14. Fortunatamente è vicino all’ufficio. Si tratta dello sportello GTT dove rilasciano i permessi annuali di parcheggio in zona blu per i residenti. Arrivo alle 13.50 e mi predispongo a cazzeggiare un po (leggi: inondare di moccio una mezza dozzina di fazzoletti) prima di entrare. Poco dopo, dietro di me c’è già una discreta coda di 7-8 persone. Alle 13.59, il tizio subito dietro di me (un clone del fu avvocato Agnelli con la stazza di Calderoli) comincia a borbottare…

– Eh già…! Le due meno un minuto, e mica aprono! Han mica bisogno di lavorare, ‘sta razza qua! Fan quello che gli pare…. e noi li paghiamo!
Pausa per guardarsi intorno e cercare l’approvazione dell’uditorio, poi continua.
– Tanto lo stipendio se lo intascano lo stesso, chi glielo fa fare. Parassiti di merda…!

Passano i secondi e io sono già abbastanza infastidito. Arriva un signore e interloquisce, in dialetto, subito imbeccato dal primo tizio.

Basta, a l’an pa ancora duvert?
– Ma lei scusi, parla arabo?
Com dise?
– Quel dialetto lì, che usa lei, lo sa che ormai lo parlano solo gli arabi, i marocchini?

Il tizio piemontese fa una risatina nervosa. Una delle dipendenti GTT viene ad aprire la porta, che necessita di un paio di mandate di chiavistello.

– Aaaah… il rito, deve fare… il rito! Con calma, signorina, eh?

Quando entro sono già incazzato. O forse è il catarro che ha preso possesso del mio corpo, non so. Vero è che l’impiegata non è gentilissima e mi fa notare con grandissimo gelo che il numero da me ritirato “non è della serie giusta” per ritirare i documenti. Non sto a spiegarle che il numerino me lo ha messo in mano l’avvocato Calderoli che – evidentemente irritato dal mio rallentamento influenzale – preme il pulsante e mi infila un pezzo di carta in mano dicendo “Su, su… prenda il suo biglietto che non abbiamo mica tempo da perdere qua“.

E io, mentre sbrigo la pratica, ripenso a uno dei tanti diversi fronti di guerra civile sociale e culturale che si aprono nel nostro paese.

Io lavoro in una pubblica amministrazione. A volte lavoro anche allo sportello, non sempre. La mia vita lavorativa è stata finora equamente divisa tra periodi di libera professione, periodi di lavoro dipendente in aziende private e adesso un periodo da “statale”. La libera professione non la ritenterei, c’è un grande senso di indipendenza e libertà ma poi non ci sto dentro con i conti e la burocrazia. E non ho così tanta voglia di sbattermi. Tra le aziende private in cui ho lavorato e l’ente dove presto servizio adesso posso dire che c’è un’abissale differenza: nel privato ti scavavi la tua nicchia e riuscivi anche a farti i cazzi tuoi prendendo il tuo stipendio. Nel pubblico lo stipendio è tendenzialmente più basso (non il mio, che sono uno di quei pochi che hanno il culo di prendere nel pubblico almeno 200 euro al mese in più di quanto guadagnavo nel privato, anche se tutti in buoni pasto) e – esperienza mia – ci si fa il culo ogni singolo giorno senza troppo tempo per respirare.

Eppure la percezione è quella dei fannulloni, dei parassiti. Perché Brunetta ha dato la spallata definitiva per far crollare la fiducia della gente nella cosa pubblica. Assistiamo al paradosso che più la pubblica amministrazione si sforza di far meglio, più i cittadini ci sputano su.

Posso dirvi la mia sulle motivazioni oscure di questo paradosso. La gente non è stupida. Ci sputa su perché capisce che il grosso dello sforzo della Pubblica Amministrazione nell’era del re nano è tutto basato sull’immagine. Negli enti pubblici si lavora moltissimo. Siamo tutti molto impegnati. Il problema è che siamo impegnati su temi di facciata. Oppure siamo alla perenne rincorsa dell’innovazione. Il grande equivoco dell’innovazione nella PA. Diciamo che va di moda attuare progetti innovativi. Diventano subito un fiore all’occhiello (espressione che – insieme a “valore aggiunto” è usatissima dai manager pubblici).

E l’innovazione serve, non dico di no. Non si può rimanere indietro. Non potrei essere io a negarlo, io che lavoro proprio su questo tipo di progetti, nei quali – fino a un paio d’anni fa, diciamo – addirittura credevo! Ma attenzione: applicazioni on line, pratiche telematiche… Questo non è quello che realmente il cittadino si aspetta. Quello che il cittadino si aspetta è che funzionino a dovere i servizi essenziali, gli sportelli, cose che i manager pubblici non vedono perché troppo “di base” e poco “di immagine”.

Il cittadino si aspetta di non vedere dieci sportelli con solo due addetti e altre 45 persone in un back office con la testa bassa sulla tastiera a lavorare su progetti di innovazione. Suppongo che preferirebbe meno investimenti sull’innovazione e più persone allo sportello. Poi c’è innovazione e innovazione. Se è un mezzo per raggiungere lo scopo della semplificazione amministrativa, l’innovazione è una cosa buona. Salvo poi solitamente rivelarsi un metodo perfetto per complicare ulteriormente la vita all’utente e all’amministrazione, invece di semplificare.

Senza contare il fatto che – quando non ci buttiamo sull’innovazione – dobbiamo “star dietro alle leggi“. E vi assicuro che in un paese dove ci sono oltre 150.000 leggi (contro le 6.000 della Francia, per dire) non è cosa da poco. Diciamo pure che siamo frustrati come e più del cittadino medio.

Per questo, quando mi alzo per uscire e incrocio di nuovo lo sterminatore di parassiti che mi borbotta con un ghigno qualcosa tipo “Lavoriamo solo per pagar lo stipendio a loro, sono la rovina dell’Italia”, lo guardo negli occhi e gli rispondo “Eeeeeh… eeeeeeeeh… TCHUM!!!” inondandolo di miliardi di piccoli parassiti dai nomi fantasiosi come Mycoplasma pneumoniae, Bordetella pertussis e Chlamydia pneumoniae.

Almeno, anche lui, potrà prendersi una pausa dal suo superlavoro.

(DA DOMANI) CAMBIO VITA

Quando passo un cubetto di ghiaccio all’interno del labbro inferiore, la terminazione nervosa dà una scarica di luce nella bocca. Non saprei come altro descriverlo. Esplode in un fuoco d’artificio bianco, poi giallo, poi rosa, poi niente. Nella mente, ha la stessa forma dei cristalli di luce che si manifestano quando mi schiaccio gli occhi e li faccio rientrare nelle orbite. Però ha anche un suono. Il suono del bollitore quando l’acqua è pronta per il tè.

E brucia. Brucia moltissimo.
Sta passando, però. Prendo le vitamine.
Eppure sono ancora qui, a cercare l’eco di quella sensazione.

Cambio vita. La cambiano in tanti.

Uno ha mollato il lavoro, un po’ per spinta, un po’ per scherzo e un po’ per tornare a vivere davvero. Gli leggi negli occhi la sicurezza di una, dieci, cento avventure. La passione per rivelare il proprio talento al mondo, l’affermazione di uno spazio mentale e fisico. Non ci leggi la paura: perché non ne ha, o perché è molto bravo a nasconderla. In ciascuno dei due casi si vede comunque il vero professionista.

Uno è arrivato al traguardo di un anno di paternità, e glielo leggi sulla pelle, sulle prime rughe di stanchezza infinita che però – curioso! – sono generate da un sorriso, luminoso nella sua incertezza. Faticosamente impara, anche se non ne avrebbe nemmeno voglia, ad essere qualcosa che prima non era. Rinuncia, acquista, ricrea in un continuo e stancante gioco quotidiano.

Io li guardo entrambi con occhi più aperti possibile, mentre mi barcameno in una vita-melassa, dove succedono poche cose e quelle che succedono ti invischiano. Nella melassa sembra che ci sguazzi. Mi sa tanto che me la sono creata da solo, con la mia inerzia e la mia scarsa volontà (o scarso coraggio) di smuovere le acque. La morte di mio padre ha portato per tutto il 2007 una costrizione al fare – un’accelerazione tale per cui infine, quando nel 2008 le cose hanno cominciato a rallentare, inconsciamente mi son detto “Adesso basta. Adesso mi fermo“.

Sono stato fermo ancora tutto il 2009 a guardare alla finestra.
Ora vorrei anche ripartire ma il fatto è che sono parecchio arrugginito.

Anti-rust for my soul.