SHAMPOO BLUES

Dice: lo vedi com’è? Dice: è lo stress. Lo capisci al volo che sono stressato. Sai da cosa?
Dice: dai capelli. Sono unti. Vedi? E li ho lavati stamattina, con lo shampoo alla polpa di cedro. Li tratto coi semi di lino, li tratto. Eppure guarda.
E, cristo, non c’è alcun dubbio. Quei capelli sono sporchi. Scendono sul viso come spinaci bolliti. Completamente non-vaporosi, non-lucenti, non-attraenti.

No, non c’è dubbio. Il ragazzo è stressato.
Dice: a volte salto il pranzo. Lo sai come sono quando salto il pranzo. Divento nervoso.
Dice: ho voglia di sushi, portami a mangare il sushi.
E fosse per me, lo porterei a mangiare tutto il sushi, il sashimi e gli uramaki del mondo, davvero. Ma non si può. C’è da lavorare.
Dice: non è così che si lavora. Troppe riunioni. Non è possibile lavorare così.
Dice: non ho concentrazione.

Parole, gesti, spostamenti di pochi metri che implicano cambi di prospettiva, di argomentazione, di filosofia. A ogni slittamento progressivo, a ogni frammentazione della realtà, i capelli si afflosciano un po’ di più.
Dice: è lo stesso tutti gli anni. Ottobre è un mese di merda. Di merda, ripete.
Dice: basta che guardi l’estratto conto. Stanotte l’ho sognato.
Ho sognato che entravo nel sito della banca e scoprivo di essere in rosso.

Mi guarda. Lo sa anche lui che il sogno non è poi così lontano dalla realtà.
Dice: non chiedo troppo. Basterebbe avere i capelli in ordine.
Lo sai quanto ci tengo ai miei capelli.
Lo osservo in silenzio. Sta tremando. Abbozzo un sorriso e gli allungo un flacone di balsamo Awapuhi Moisture Mist di Paul Mitchell.
Ora gli brillano gli occhi.
Prevedibile.

INCIDENTI DI VIAGGIO NELLO YUCATAN

Dice: Chichén Itzà è una delle sette meraviglie del mondo moderno. Sarà.
A me ricorda un campo da cricket con una piramide in mezzo.

Ma non è da escludere che l’impressione sia dovuta alle 14 ore di viaggio appena trascorse in un aeromobile della speranza in compagnia di un centinaio di concorrenti del Grande Fratello in fibrillazione per le meraviglie all inclusive di Cancun. Per me, che i maya li ho visti solo sui libri, è obbligatorio passare da quell’arco, carezzare quei gradini (più di quello non posso fare, è vietato salire), ammirare quelle ormai asettiche teste di serpente. Però, consentitemi: è indicativo che l’antica città alla bocca del pozzo degli Itzà sia inglobata in un complesso turistico denominato “Mayaland” in cui vieni accolto da un gruppo di messicani imbolsiti truccati da antichi maya che tentano improbabili palleggi con una sfera di caucciù. Perché i maya hanno inventato anche il calcio. Oltre alle cingomme e alla fine del mondo.

Dice: vuoi vedere le rovine maya più nascoste. Dico: sì. Dice: allora sveglia alle 6.30 ogni giorno. Ma non te ne accorgi. Giuro. Bevi molto, sudi ancora di più, e alla fine ti senti fresco, depurato, liscio, pulito. Collassato. Non hai nemmeno la forza di inseguire le iguane, che zampettano allegramente zigzagando tra una statua del dio della pioggia (il Chac-Mool) e un serpente primigenio. Da Chichén Itzà ci spostiamo a Uxmal, passando per Mérida. Lo Yucatan è tranquillo. Voglio dire, ci passano le rotte dei narcos e ci sono sette corpi di polizia diversi e tutti col mitra spianato, ma è molto tranquillo. Sembra più che altro una cosa di facciata.

Raùl dice che i messicani sono tendenzialmente cattolici, ma preferiscono definirsi “guadalupani“. Nelle case della gente, o nelle capanne dei maya moderni, però, ci sono gli altarini con la Madonna, S. Antonio, Chac-Mool, Xolotl e altre divinità maya. Tutto insieme. Un meraviglioso sincretismo che mette antico e “più antico” sullo stesso tavolinetto, accanto all’amaca. Massacrati finché vuoi dal 1512 in avanti, i maya sono sempre lì. Li distingui chiaramente dai messicani perché sono ancora più tranquilli, ancora più sorridenti, ancora più amanti del piccante (raccomandabile la salsina artigianale a base di chile habanero nella versione yucateca).

Uxmal è mille volte meglio di Chichén Itzà. Palenque, a sua volta, è ancora meglio di Uxmal. Che poi non è nemmeno una questione comparativa. Chichén Itzà è bella perché è famosa, Uxmal è spettacolare per motivi architettonici, Palenque per via del suo essere immersa nella foresta equatoriale. Ma divago, perché siamo già nel Chiapas. Abbiamo attraversato gli stati di Campeche e Tabasco per arrivare fino a qui, ma ne vale la pena. Nel frattempo, visto che di tesori architettonici nascosti se ne possono scovare molti, non ci siamo risparmiati una visita a Kabah (particolarità: statue colossali maya e bassorilievi con sacrifici umani) e Balamkù (particolarità: templi immersi nella giungla e gruppo scultoreo nascosto tra le piante di agave).

Tra un furto di scarpe e un incontro ravvicinato con coccodrilli, cavallette giganti, scorpioni e mantidi religiose (tutte creature che Stefi ama alla follia), viriamo verso il mar dei Caraibi e passiamo dal Chiapas al confine con il Guatemala. È il momento di visitare Chicannà, Xpuhil e Calakmul, immerse nella giungla tropicale e nascoste persino all’occhio del satellite – l’ultima, in particolare, una delle città maya più grandi e tra quelle scoperte più di recente. L’espressione “scoperto di recente” sta a significare che nessuno ha ancora disboscato la zona o ristrutturato le piramidi, e che nessuno ti vede se ti arrampichi qua e là. Perciò: piante secolari che spaccano enormi gradini di roccia con le loro radici, silenzio assoluto (a parte gli uccelli e le scimmie urlatrici) e una sensazione appiccicosa che non ti abbandona mai. Quando sali in cima alla piramide più alta del mondo maya, però, si può vedere Tikal in Guatemala a 30 km di distanza in linea d’aria. Awesome.

Calakmul rappresenta il punto più alto del viaggio, in ogni senso. Dopo Calakmul nulla ti può più impressionare. Né Becan, con il suo fossato colossale, né Tulum, con i suoi templi a picco sulla scogliera. Oddio, la scogliera di Tulum è estremamente fotogenica, ma a parte quello non ti resta che inseguire le iguane. Che ovviamente non hanno alcuna intenzione di farsi prendere in braccio. Una settimana passata ad entrare ed uscire dalle antiche città maya dà l’impressione di essere stati nella giungla, in mezzo a una decina di specie diverse di zanzare, per più di un mese. La conseguente sosta di una ulteriore settimana sulla riviera maya non può che giungere gradita.

Impermeabili alle sirene del resort all inclusive, fermamente intenzionati a mantenere alto il vessillo del sogno romantico messicano, ci installiamo alle cabañas dell’Hemingway a Tulum. Lontano da dio e dagli uomini. Noi, la nostra capanna, un’amaca, una palma, la spiaggia, un ristorantino con cinque tavoli e un illustre vicino di cabaña con fidanzata a seguito (un attore italiano piuttosto noto di cui non farò il nome perché secondo me un po’ gli seccherebbe, comunque tanto per ora è emigrato negli states per perfezionare il suo mestiere). Volendo indulgere ad una piccola raccomandazione pubblicitaria: l’Hemingway vale tutti i soldi spesi. Il bagno è in camera (anzi, in capanna), il posto è spazioso, c’è un piccolo patio da cui ammirare il mare e la padrona è italiana (normalmente questo sarebbe un difetto, ma posso certificare che la cordialità della signora Paola è internazionale).

Dice: i voli charter ti fanno risparmiare un casino. Vero. Peccato che ti devi presentare all’aeroporto di Cancun alle 3.30 di notte. Ritrovando tutto il cast del Grande Fratello al completo, solo più abbronzato. E trascorrendo altre 14 ore in lieta compagnia, in attesa della botta del jet lag. Attualmente, non stiamo riuscendo a coricarci prima delle 4 del mattino circa.
Ho molta paura delle giornate lavorative che arriveranno, da domani in poi.
E questo è quanto.

QUE VIVA MEXICO

Nulla è più elettrizzante del momento in cui si preparano le valigie. In effetti, è talmente elettrizzante che io e Stefi ci stiamo fulminando a vicenda già da alcune ore.

Inutile cercare di ammorbidire la cosa: ci sono tre cose che fanno litigare una coppia, anche la più solida e navigata. I parenti, i soldi, le valigie per le vacanze.
Per me fare la valigia vuol dire sbattere dentro a un trolley qualche pantalone, abbondanti magliette, un paio di costumi, un po’ di boxer, alcuni capi di abbigliamento “fuori stagione” (perché non si sa mai), spazzolino e dentifricio. Poi c’è uno zainetto riservato con la fotocamera, i libri, la Lonely Planet del posto dove stiamo andando e i documenti di viaggio. Inutile dire che in massimo 20 minuti la valigia è pronta, chiusa e sigillata con una di quelle etichette col nome che tradiscono l’ansia della perdita (della valigia).

Per Stefi non è la stessa cosa. Fare una valigia è un processo complicato, che richiede almeno tre giorni, tra il ragionamento su quali camicette portare e quali lasciare a casa (un ragionamento basato sulla semplice equazione “quello che porta mio marito moltiplicato 3 volte + una variabile ‘x’ di flaconi e botticini di vario genere”), la scelta della valigia stessa e la sua elaborata preparazione. Da dove nasce il litigio? Provate voi a sentirvi dire “aiutami a fare le valigie” e a sentirvi poi cazziare per aver effettivamente fatto la valigia nei successivi 10 minuti. No. Non è così che vanno le cose. In quel caso Stefi svuoterebbe la valigia, impilerebbe nuovamente tutti i capi di abbigliamento e li rimetterebbe dentro disposti nel modo che garba a lei, eventualmente rimettendo in discussione la presenza o l’assenza di determinati elementi.

Perciò, “aiutami a fare le valigie” non può che trasformarsi in un happening di alcune ore in cui io osservo Stefi che si concentra, che mormora a mezza voce le liste che ha in testa, che dispone come in un gioco del quindici blocchi di roba sul letto e sul tavolo di cucina, e infine che riempie effettivamente le valigie. Il mio mettere improvvisamente qualcosa in valigia (specialmente nella sua) viene visto come un sabotaggio bello e buono, e origina una sequela di insulti che vanno dal più lieve (se mi limito a mettere i teli mare sul fondo della valigia) alla bestemmia (se tento di compattare i tessuti con il premiato metodo “in bocca a un cane”).

La peculiarità più interessante dei nostri viaggi, comunque, non può che essere la valigia dei medicinali. OK, stavo scherzando. Non è una vera e propria valigia. Diciamo uno zainetto di quelli da scuola. Abbiamo i medicinali per il mal di testa, per la febbre, per la diarrea, per le coliche renali, per il mal d’aria, per il mal di gola, per l’otite, per la congiuntivite, per la rinite allergica, per l’asma, per le infezioni virali, per le disfunzioni tiroidee, per l’herpes. Poi abbiamo almeno cinque grossi flaconi di solari a protezione 20, 30, 40 e 50 (da usare in senso inverso). Poi ci sono quelle cose che non sono medicinali ma fanno parte della toeletta di ogni donna, come la crema idratante viso, la crema idratante corpo, la crema idratante mani e la crema idratante specifica contorno occhi, la pasta di Fissan (quella serve sempre, non la dimentico mai neanche io), i semi di lino, il balsamo e a quel punto io sto già sbavando con il bianco degli occhi in vista mentre Stefi continua a riporre flaconi in cinque diversi nécessaire da bagno.

Io chiudo la valigia due giorni prima di partire, Stefi la chiude due secondi prima.
Poi la riapre e la richiude ancora qualche volta prima che il diabolico nastro trasportatore dell’aeroporto la ingoi. Successivamente, parte del viaggio aereo è dedicato a porre domande del tipo “avrò messo in valigia l’oggetto X? E l’oggetto Y?”.

Domande che, solitamente, cadono nel vuoto: io, in aereo, voglio dormire.
E voglio svegliarmi solo in Messico (da cui il titolo).
¡Hasta luego, compadres! Aquí cerramos por unos días…