I TRE ALBUM DA ISOLA DESERTA

Attenzione: questo è uno di quei post che quando lo leggi pensi “Non aveva un cazzo da fare?“. Non è che proprio proprio non ho un cazzo da fare, è che ho bisogno di una sosta pacifica nella guerriglia lavorativa, e non potendo alzarmi per andarmi a fare un giro ricreativo come accade alla maggior parte dei blogger, mi consolo così. Propinandovi il post ad alto rischio di contagio sui tre album che mi porterei sulla proverbiale isola deserta, se potessi salvare solo quelli. E a costo di sembrarvi ancora più vecchio di ciò che potrebbe farvi credere questo post (in realtà i miei gusti musicali sono molto più vari), vi dirò che sono tre album che custodisco gelosamente nella loro storica versione in vinile

1. THE VELVET UNDEGROUND
Intendo l’album eponimo, quello del 1968. Rispetto all’art-rock di The V.U. & Nico e al rumore bianco di White Light / White Heat (John Cale è apprezzabilissimo, ma dopo un po’ rompe i coglioni), l’atmosfera eterea e vagamente minacciosa di questo album non mi stanca mai. Paradossalmente (per essere un album dei V.U.) è un continuo sing-along, soprattutto con Jesus, I’m Set Free, Candy Says, Pale Blue Eyes e Afterhours. Se White Light / White Heat ha influenzato punk, no-wave e noise, allora The Velvet Underground ha influenzato il neo-folk e il lo-fi a venire. Io lo adoro, semplicemente.

2. WHO’S NEXT
Qui entriamo nel territorio degli dei. Io ho per gli Who un tipo di adorazione che somiglia molto a quella di Jack Black in School of Rock. Sì certo, drum’n’bass, electronica, glitch, va bene tutto. Ma Won’t Get Fooled Again è alla radice dei miei ascolti, sempre. Non mi stupisce che l’album sia stato percepito al momento dell’uscita come altamente innovativo. Ci stavano dentro i primi sintetizzatori, Terry Riley, un modo tutto nuovo di suonare. A rischio linciaggio, la suoneria del mio cellulare è stata a lungo proprio Baba O’Riley, mentre Behind Blue Eyes e The Song Is Over spuntano sempre al momento opportuno quando serve la ballad.

3. LET IT BLEED
Con la sua torta approssimativa in copertina, Let It Bleed è per me, in assoluto, il miglior album di tutti i tempi. Non importano tutte le altre mie passioni, e non importa nemmeno che siano gli Stones. E’ proprio questo album che è perfetto – l’accompagnamento ideale per tutti i momenti salienti della mia vita. Jagger e soci avevano già creato il capolavoro con Beggars Banquet, ma qui superano sé stessi. Manterranno il livello per altri due album. Non è facile essere sempre geniali. Let it Bleed è perfetto per guidare battendo il ritmo sul volante, per fare l’amore (suonato alto come richiede la copertina) e per abbandonarsi a Gimme Shelter, Love In Vain e la mitica (ancorché spesso sovraesposta) You Can’t Always Get What You Want.

Peccato solo che sulle isole deserte non ci sono giradischi. Nemmeno USB.

NO, EMANUELE NO!

E’ arrivato il momento di scoprire le mie carte di italiano medio. Non mento quando dico che guardo poco la televisione. Ci sono solo un pugno di programmi che guardo con assiduità. Un posto al sole all’ora di cena (è un po’ come la collezione di Dylan Dog, non è facile smettere quando sei un fan della primissima ora). Passepartout la domenica a pranzo (perché Philippe Daverio è il mio vero grande mito culturale) e Che tempo che fa la domenica a cena (più che altro per via di Luciana Littizzetto). Le Iene quando capita. E adesso, lo confesso, da otto settimane si è aggiunto X-Factor.

Di X-Factor, format inglese trasportato da noi con altissimo rischio “Amici”, apprezzo soprattutto la scarsa indulgenza in lacrime, polemiche tra i partecipanti, retorica della mamma e della fidanzata (anche se un paio di volte ci hanno provato, specie con i concorrenti campani). Uno show tutto sommato godibile, che nel corso della programmazione ha trovato la quadra dei tempi giusti, con un conduttore perfettamente medio e assolutamente invisibile (in questo Facchinetti è bravissimo, chiunque può pensare di essere più bravo di lui) e tre giudici dalla chimica esplosiva.

Tanto detesto la Ventura, alfiere del nazionalpopolare probabilmente piazzata in giuria proprio per evitare che X-Factor fosse un programma intelligente fino in fondo, quanto adoro la Maionchi, che è diventata la zia che avrei sempre voluto avere, quella che ti parla di musica e ti manda a cagare in un colpo solo. E poi naturalmente Morgan che gioca a fare il personaggio, il fratello maggiore dei musicisti, passando le sue innominabili (in televisione) pillole di cultura tra filosofia, letteratura greca e musicologia.

Tutto bene, insomma. Uno show da guardare in compagnia per commentare le esibizioni e ridere alle spalle dei cantanti più scialbi. Tutto bene fino a quando per la seconda volta il deus ex machina del “pubblico a casa” ha tentato (giustamente) di buttar fuori l’insulso Emanuele, il rocker da oratorio con la chitarra di Linus. Fin dall’inizio, tra tutti, mi è sembrato sospetto. E adesso è ancora lì, a scapito dei 6/8 – i Manhattan Transfer de noartri, che avevano certamente un po’ rotto i coglioni ma che sono mille volte più dotati.

Vabbe’, io mi sono scoperto e mi sono sfogato. E voi, cosa ne pensate? Non dite che non lo guardate, non ci credo. E se è vero vi consiglio almeno una fugace visione. Si ride parlando di musica pop, non è poi così male.

NON E’ FACILE FARE I MUXTAPE

Io come sempre arrivo un po’ tardi: pare che Muxtape sia l’hype degli ultimi giorni. Ma che volete che vi dica, senza nemmeno uno stagista da spadroneggiare durante il giorno si lavora e si fatica. E fare un Muxtape non è roba da poco. Come hanno sottolineato tra gli altri Suz, Federico e Giorgio, il sottile piacere del Muxtape sta nel fatto che te lo devi sudare un po’. Devi andare a cercare i file giusti, uploadarli, metterci il tempo che ci vuole (cioè il tempo che quindici o venti anni fa ci mettevo per fare una Maxell, una TDK o una BASF da 60 minuti).

E allora ecco anche la mia cassettina, tutta per voi, per il piacere di regalarvi qualcosa da ascoltare che vi dia uno scorcio delle mie multiple personalità (anche se per questa volta ho evitato accostamenti tipo Demetrio Stratos e i Suicide). Le mie cassette, infatti, sono sempre state “fastidiose“, specialmente per quanto riguarda i contrasti tra un pezzo e l’altro. Poi non dite che non vi avevo avvertito.

The making of a great compilation tape, like breaking up, is hard to do and takes ages longer than it might seem. You gotta kick off with a killer, to grab attention. Then you got to take it up a notch, but you don’t wanna blow your wad, so then you got to cool it off a notch. There are a lot of rules. Anyway… I’ve started to make a tape…