HOLD ME CLOSER, TINY CHEF

Negli ultimi venti giorni, probabilmente, quasi tutto l’universo conosciuto ha visto Ratatouille. Dire che ve lo consiglio, se non l’avete ancora visto, è praticamente superfluo. Abituati agli standard Pixar (specie a quelli eccelsi di Nemo o degli Incredibili), si può comprare il prodotto a scatola chiusa. Ma stavolta c’è qualcosa in più. Qualcosa di impalpabile, che però passa attraverso la solita storia a tema universale. Quando parlo di tema universale, intendo un tema che possa coinvolgere tutti, grandi e piccini, uomini e donne, al di là della cultura, della classe sociale o della religione. E a questo punto rimangono pochissimi archetipi, uno dei quali è il passaggio all’età adulta e l’affrancamento dalla co-dipendenza, che è precisamente anche il tema di Ratatouille. Il resto (godibilissimo) è sovrastruttura: il topo Remy che vuole cucinare e che arriva a diventare un piccolo chef in combutta con lo sprovveduto Linguini distinguendosi così dal suo branco che aspira – più che a vivere – a sopravvivere. Ma soprattutto, conta in quale griglia di genere questo archetipo viene inserito. Tradizionalmente, il film di animazione occidentale può essere solo musical (vedi i classici Disney), farsesco/parodistico (vedi Shrek), avventuroso (vedi alcuni successi Dreamworks o Pixar). Al limite si poteva assistere ad una commistione tra i generi (un titolo a caso: L’era glaciale). Ratatouille invece punta tutto su un altro tipo di cornice narrativa. Quella della commedia sofisticata, genere Billy Wilder, per intenderci (e il paragone non sembri azzardato). Sarà l’ambientazione parigina, saranno i personaggi principali e secondari ben costruiti, sarà la voce narrante… Ma il riferimento mi è sembrato proprio quello. Certo, c’è la modernità. Animazione allo stato dell’arte, un mix 2D e 3D che lascia a bocca aperta, movimenti di macchina fluidi e ben congegnati, mai gratuiti. Non c’è (o c’è pochissimo) il postmoderno, quello che a quanto pare piace di più ai bambini (citazionismo, autocitazionismo, gag nelle gag… in una parola più slapstick e meno screwball). Una commedia sofisticata d’animazione, che concede al pubblico infantile solo la carineria di un topo come protagonista (nemmeno troppo umanizzato) e pretende un’attenzione alla storia che altri film d’animazione non richiedono, perché appiattiscono la storia sul tema archetipico, dando all’eroe qualche prova da superare e basta. Qui ci sono equivoci, sottotrame, intrighi, eredità, lezioni di cucina… Ovvio che da più parti intorno al sottoscritto i bambini dicessero "Papà, quando andiamo a casa?"… L’attenzione è oggi un bene da centellinare, vista la mole di informazioni che ci arriva quotidianamente. Beh, allora conviene darla a Ratatouille. Che non è – fortunatamente – un film fatto per la serialità (alla Pixar sanno come realizzare dei classici, altrimenti la Disney non ci avrebbe investito). Brad Bird ci aveva già convinto con Il gigante di ferro e Gli incredibili. Jan Pinkava, il coregista céco, è il genio che ha realizzato 10 anni orsono il corto Pixar del vecchietto che gioca a scacchi con sé stesso (procuratevi il DVD subito). Infine, un ulteriore buon motivo per andare a vedere Ratatouille entro stasera. Da domani a venerdì, al Centro Congressi Torino Incontra, è in programma View (l’ottava International CG Conference, precedentemente nota come Virtuality). Ogni giorno sarà presente un tecnico Pixar che ha partecipato alla realizzazione di Ratatouille. Partecipare agli incontri sarà come vedere i contenuti speciali del film dal vivo, con la possibilità di interagire con i grafici e gli artisti digitali. Però non rovinatevi la sorpresa. Prima andate a vedere di che cosa è capace un piccolo chef!

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L’EDITTO TURKMENO (COME IL BULGARO MA PIU’ MARCIO)

Amici, italiani, concittadini del web. Il nostro messaggio a rete unificata va a tutti coloro che si sono collegati ieri sera convinti di vedere una nuova puntata di CasaIzzo feat. Loris e sono rimasti con un palmo di naso di fronte alla nostra immaginetta e alla dicitura "offline". Un editto iniquo ha sospeso le nostre trasmissioni, un editto che non esitiamo a definire turkmeno (o turcomanno, per dirla più all’italiana). Lotteremo con le unghie e coi denti per essere di nuovo on line la prossima settimana a portarvi la parola di Malaclypse il Giovane. Come dite? Chi ha stabilito che non dovessimo comparire on line? E’ stata Catepol! Non sopportava che dessimo retta ad altre blogger in chat… No, scherzo, è stato Suzukimaruti! Era geloso della nostra trasmissione realizzata con pochi soldi e poche idee… Dài, sul serio: è stato Invisigot: ci voleva tutti per lui in video a commentare le avventure del neonato partito democratico. Nessuna di queste? Ehm… Va beh… Diciamo la verità… non eravamo in casa! Professionali, eh? 😛

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THRILLER NIGHT (RECUPERI DI STAGIONE)

Dato che c’era una festa (leggi: un po’ di tempo libero) di mezzo, ne ho approfittato per recuperare qualche thriller che mi ero lasciato indietro nella scorsa stagione cinematografica. Condivido le mie impressioni per mettervi in guardia da (dio non voglia) visioni poco soddisfacenti. Ad esempio Number 23. Lo so, c’è Jim Carrey. Lo so, lui di solito è ancora più bravo in ruoli non comici. Ma qui è veramente poco credibile, il film è pasticciato, l’idea di fondo è banalissima e spacciata per molto innovativa (ossia è nascosta fino alla fine e mascherata da una tecnica registica mista che colpisce nei primi due minuti e poi stucca). Un film disonesto, palloso e confuso, con l’unico pregio di una fotografia molto azzeccata. Disturbia, per contro, ha una trama banale all’ennesima potenza, ma è onesto: non pretende di essere quello che non è, e alla fine risulta un ottimo incrocio tra il classico thriller hitchcockiano (riferimento diretto: La finestra sul cortile) e la commedia adolescenziale con un occhio alla modernità (marchette a XBox, iTunes, Sony e battuta finale "Questo filmato va direttamente su YouTube"). Interpretazioni azzeccate, ritmo ficcante e anche qualche brivido inaspettato. Infine Zodiac, sopravvalutatissimo come qualsiasi film di David Fincher dopo Fight Club. Cioè, un buon film, ben recitato, solido, analitico. Però dura 150 minuti e non è il vostro solito film su un serial killer. Certo, ringraziamo almeno che alla regia non ci sia stato Oliver Stone, però due ore e mezza di raccolta di prove indiziarie sono un po’ pesanti da digerire. Tanto più quando si resta con l’amaro in bocca di un caso mai risolto. Cinema investigativo d’altri tempi, ma se si vuole un thriller, meglio passare oltre.

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