EZRA, ROAD MOVIE NEURODIVERGENTE

Un “bel film” di quelli “che si giravano una volta”… no, aspetta, scherzo, davvero mi è piaciuto molto. Ezra (in Italia “In viaggio con mio figlio” di Tony Goldwyn) è quello che si definisce un dramedy. Protagonista Max (Bobby Cannavale) che fa lo stand up comedian e include nel suo materiale battute al vetriolo sul figlio autistico Ezra. L’inizio è quindi un po’ – dal punto di vista dei dialoghi – sul filo del rasoio tra toni diversissimi. Poi c’è il resto della famiglia che comprende l’ex moglie Rose Byrne, il nonno Robert de Niro e ovviamente l’Ezra del titolo (il giovane e bravissimo attore neurodivergente William Fitzgerald). 

Ora, è abbastanza ovvio che questo è un film il cui valore risiede soprattutto nell’interpretazione del cast, tutto in stato di grazia – aggiungo sul tavolo pesi massimo come Whoopi Goldberg, Vera Farmiga e Rainn Wilson in ruoli di contorno. Ezra però è anche un’esplorazione del rapporto padri/figli attraverso tre generazioni che fa un discorso sorprendentemente profondo sull’affettività, le colpe, l’interdipendenza, il bisogno di riconoscimento e di indipendenza, la neurodiversità.

Max è spaventato dal fatto che gli insegnanti di Ezra, spalleggiati dalla madre e dal suo nuovo compagno, suggeriscano terapie farmacologiche e scuole “speciali” per bambini autistici. Essendo un pelino sfasato anche lui, decide di rapire il figlio durante la notte da casa della madre e portarselo in un viaggio on the road da Hoboken a Los Angeles, dove deve fare un provino per lo show di Jimmy Kimmel.

Il road movie procede su un doppio binario, perché nel frattempo anche la moglie e il padre di Max si mettono in viaggio sulle loro tracce per fermarli. Robert De Niro qui non fa il suo solito cameo un po’ scontato e non fa le faccette (cosa cui purtroppo devo dire ero abbastanza preparato) ma anzi, è uno dei suoi ruoli da non protagonista più belli e interessanti degli ultimi 10 anni. Basta citare la scena in cui intercetta Bobby Cannavale e invece di fermarlo gli chiede scusa per il padre che è stato e lo spinge a continuare “in nome dell’amore” che ha per Ezra.

Inutile dire che si tratta di un film a lieto fine in cui tutti i personaggi attraversano un arco di cambiamento e anche Ezra cresce riuscendo finalmente ad accettare gli abbracci dei familiari. È scritto bene (lo sceneggiatore ha effettivamente un figlio autistico) e si ferma sempre un passo prima di scadere nel melodramma: il finale stesso può sembrare un po’ rapido, si vorrebbe stare di più con questi personaggi. 

Per me vale la pena: il film è del 2023 ma inspiegabilmente in Italia è in sala adesso.

LEGEND OF OCHI: A24 PER FAMIGLIE

Io vorrei amare tantissimo The Legend of Ochi, perché è un film inaspettatamente A24, perché è uno di quei classici di avventura per famiglie come si facevano negli anni ’80, perché ci sono Willem Dafoe ed Emily Watson, perché c’è la creatura mezza Gizmo e mezza Grogu fatta con i pupazzi animati e non con la CGI. Eppure c’è qualcosa che non mi ha convinto.

Mi spiego meglio: il regista Isaiah Saxon viene dai videoclip. Ma dai videoclip belli, tipo Björk (e si vede). Ha un approccio che ricorda quello di Michel Gondry, in un certo senso, o di Spike Jonze, per citare due registi che hanno lavorato anche nei videoclip. Mette insieme un mondo realistico ma fantastico girando tutto in Romania, usando la CGI col contagocce e tornando a un modo di raccontare cui non siamo più abituati – appunto – dagli anni ’80: lunghe scene che non portano da nessuna parte, dialoghi rarefatti, molte sequenze di trekking, boschi, caverne meravigliose.

E non fraintendetemi, The Legend of Ochi è un film che visivamente ti lascia a bocca aperta. Ma non è che andiamo al cinema per vedere i paesaggi, quindi vengo alle dolenti note. La storia è archetipica e adattissima a bambini e adulti. Yuri è una ragazzina metallara che ricorda un po’ Greta Thunberg, figlia di Maxim (Willem Dafoe), un uomo che è a capo di una milizia di giovani cacciatori di Ochi nell’isola immaginaria di Carpathia sul Mar Nero. Gli Ochi sono queste creature un po’ scimmiesche ma pucciose che trillano come usignoli nella foresta. L’idea è che gli Ochi siano pericolosissimi mostri, ma quando Yuri trova un cucciolo indifeso lo salva e lo vuole riportare alla madre. Per questo motivo si ribella all’autorità del padre, scappa di casa e si avventura tra le montagne.

E fin qui tutto bene. Il padre, che non l’ha mai considerata, organizza una spedizione con Petro (Finn Wolfhard mai così sottoutilizzato) e gli altri ragazzi della milizia vestendosi come un dio norreno (perché? non si sa). Yuri nel frattempo tenta di comunicare con l’Ochi e dopo essere stata da lui morsa inizia a trillare come un usignolo anche lei (interi dialoghi di versi di uccelli in cui possiamo intuire cosa sta succedendo solo dalle espressioni della bambina o del pupazzo).

Entra in scena Emily Watson nel ruolo della madre scomparsa di Yuri che guarda caso è una studiosa del linguaggio degli Ochi. Ma Yuri scappa anche da lei. Insomma, verso la metà del film si arriva ad una sorta di stallo in cui non si fa altro che trillare e camminare, e francamente è un po’ noioso. Inoltre tutto il film è funestato da una colonna sonora tronfia, non memorabile e ad altissimo volume. Della serie “devo riempire”.

Comunque sia: il film si fa guardare se siete appassionati di quello sguardo “vergine” tipicamente anni ’80 che vi scrosta di dosso decenni di Disney/Pixar. E se vi interessano i Carpazi. Diversamente, preferisco Paddington agli Ochi.

GENERAZIONI DI FINAL DESTINATION

Ciao, sono andato a vedere Final Destination Bloodlines. Non se ne poteva fare a meno, no. È un franchise potenzialmente infinito rimasto in pausa da cosa…? Dieci anni? Non esiste. Nel frattempo abbiamo avuto un decennio di elevated horror, da Babadook a Longlegs e ci siamo dimenticati che in questa serie c’è la morte, proprio lei in persona (oddio, è disincarnata quindi non è che si può dire in persona, ma ci siamo capiti) che fa fuori in modi pazzi imprevedibili e supersplatter i protagonisti!

E allora andiamo a vedere come si fa un sequel/reboot fatto bene (nei limiti): intanto ti spari una lunghissima sequenza iniziale ambientata negli anni ’50 che in prospettiva dà un senso a TUTTI i film di Final Destination usciti finora. La bionda Iris, già incinta e chiesta in sposa dal fidanzato, è testimone di un disastro ad altissimo tasso di morti ammazzati che noi sappiamo già che inevitabilmente succederà, ma che i registi si prendono il loro tempo per costruire bene e con la giusta suspence. 

Una volta morti tutti (specialmente il malefico bambino stronzo strumento della morte stessa), si passa al tempo presente. Stefani, la nipote di Iris, ha costanti incubi sulla brutta fine della nonna. Soltanto che… la nonna è ancora viva! Colpone di scenona, la nonna è diventata una vecchia paranoica ossessionata dalla morte che è la prima a rifarci lo spiegone a proposito delle intenzioni e dello spirito vendicativo della nera signora ossessionata dalle macchine di Rube Goldberg (quelle dove un battito di farfalla tipo un sassolino che cade male mette in moto mille cazzatine che alla fine ti fanno piantare in palo nel cranio). 

E vabbè, da qui in poi la grossa novità è che la morte non vuole più soltanto far fuori chi è sopravvissuto al disastro iniziale bensì – dato che il disastro iniziale è avvenuto negli anni ’50, far fuori anche i figli e i nipoti di quei sopravvissuti (Bloodlines, capito?) impegnandosi quindi a dover massacrare un numero altissimo di persone (è implicito che le vittime dei precedenti Final Destination potessero essere parte di queste genealogie di sfigati). Ce lo spiega bene anche lo stesso Tony Todd, compianto cameo in tutti i film della serie, di cui qui vediamo anche una personale origin story.

Fa ridere che i parenti acquisiti vengono invece risparmiati. Va beh, ovviamente da questo punto in poi è una girandola di piercing strappati, ossa spezzate, facce maciullate da tosaerba, combustioni spontanee, ferite da taglio multiple, trituramento di tutta la persona, schiacciamento, con la morte che non esita a far deragliare treni per vendicarsi di anche solo uno stupido umano.

Lo splatter è a livelli molto alti (già dalla prima scena) e la coreografia delle morti ha come sempre un che da “comiche del muto”, con tanto di accenni a metodi di ammazzamento già usati nei precedenti capitoli (l’iconico camion, schegge di vetro, rastrelli). Aspettate fino alla fine per vedere se qualcuno sopravvive. Io non ve lo dico di certo. Menzione speciale per i titoli di coda che riprendono il pazzo libro delle Bloodlines di nonna Iris.