IL FILM SPERIMENTALE DI TAKESHI KITANO

Ho un problema con questo ultimo, brevissimo, film di Kitano. Lui lo definisce un film sperimentale, e certamente è così. Si tratta di un gioco di specchi cinematografico per cui lui ha tirato in ballo cubismo e astrattismo e che in realtà è “semplicemente” un film che mira a giustapporre le due anime di Beat Takeshi.

L’anima autoriale, quella dei film come Violent Cop, Sonatine o Brother, sta nella prima metà del film (circa mezz’ora). È la storia di un killer ormai anziano che viene catturato da due detective e convinto a infiltrarsi alla corte di un capo yakuza per ucciderlo. 

Poi c’è l’anima “Beat”, quella comica del personaggio televisivo che faceva cabaret negli anni ’70 e ’80 e che ha inventato il format Takeshi’s Castle (da noi rimaneggiato nel mitico Mai Dire Banzai). Ed ecco che la stessa storia viene ripercorsa nella seconda parte del film in chiave comica, slapstick, demenziale.

Il problema che ho con questo film di Kitano è che io non ho mai molto sopportato la sua vena comica televisiva tanto quanto ho apprezzato il Kitano autore cinematografico (se devo dire, poi, prediligo i film tipo L’estate di Kikujiro o Il silenzio sul mare). Quindi Broken Rage per me è un oggetto sperimentale certamente, ma – diciamo così – poco coinvolgente. Sta su Prime Video, se volete.

DOG MAN MA NON QUELLO DI GARRONE

Il nuovo film tratto dai libri illustrati di Dave Pilkey (autore della serie di Capitan Mutanda, di cui Dog Man è una sorta di spin-off) è uno di quegli strani esperimenti Dreamworks che mette d’accordo adulti e bambini nel divertimento.

Dog Man è coloratissimo, ipercinetico, concepito e disegnato come lo farebbe un bambino (e infatti dovrebbe essere un fumetto ideato da George e Harold, i due protagonisti di Capitan Mutanda) ma animato con le tecniche più sofisticate, secondo la lezione che gli ultimi film animati anche di Sony Pictures Entertainment hanno indicato.

La premessa è già assurda in partenza: Dog Man è il risultato della fantasia di una chirurga e un’infermiera che raccolgono un poliziotto e il suo cane dopo un brutto incidente. Entrambi sono in pericolo di vita, ma si risolve cucendo la testa di cane sul corpo del poliziotto, cosa potrebbe mai andare storto?

Ovviamente la fidanzata lo lascia e lui resta a vivere in una cuccia sovradimensionata alla perenne caccia della sua nemesi, il malvagio gatto Gino (Petey in originale). I villain in Dog Man hanno le voci migliori: Petey è Pete Davidson e il pesce che fa da boss finale è doppiato da Ricky Gervais.

Petey è anche il centro emotivo del film: gatto cattivo perché abbandonato da un padre anaffettivo, si riproduce per clonazione e ottiene però… un sé stesso cucciolo che funge da figlio. Lo abbandona, perché non sa fare altro, ma prima della fine del film scoprirà le gioie della paternità.

Tutto sommato, un film che sono stato contento di vedere, anche se avrei preferito la versione originale.

POIROT IN VATICANO: CONCLAVE

Conclave non avevo nessuna intenzione di vederlo, poi mi son detto gli do una chance dato che c’è Ralph Fiennes che corre per l’Academy Award. E niente, dopo 5 minuti di film (grosso modo l’apertura con la morte del papa fino al titolo a tutto schermo CONCLAVE) sono rimasto catturato e sai che non è niente male? Chi lo avrebbe mai detto che un mucchio di porporati chiusi in una stanza potessero tirar fuori un thriller che ti tiene sveglio e attento!

Questo è merito ovviamente delle interpretazioni di Fiennes, Stanley Tucci, John Lithgow e soprattutto Isabella Rossellini, mai così sardonica nel ruolo della suora che veglia sul conclave. E poi merito anche di una colonna sonora e un production design che vogliono continuamente convincerti che in realtà stai guardando Shining e che da un momento all’altro dalle porte della Casa di Santa Marta (in realtà ricostruita a Cinecittà) si apriranno facendo scorrere una cascata di sangue.

Il Cardinale Lawrence (Fiennes) è il riluttante decano del conclave che presiede le votazioni. il Cardinal Bellini (Tucci) è il candidato progressista mentre Tedesco (Sergio Castellitto) è il candidato islamofobo e conservatore. Ci sono poi il cardinal Ademaye (Lucian Msamati) e il cardinal Tremblay (Lithgow) ognuno con qualche scheletro nell’armadio.

Chi sarà il nuovo papa alla fine diciamo che lo si capisce dopo un quarto d’ora di film, ma anche lì, per chi non ha letto il romanzo originale di Robert Harris, c’è comunque un discreto colpo di scena.

Insomma, un po’ un Poirot in Vaticano, ma girato bene e addirittura, oserei dire, con qualche suggestione lynchiana nell’inquietudine degli arredamenti e degli oggetti. Spero che si porti a casa qualche premio.